CIP
di Sandra Puccini [*]
Sono passati oltre cinquant’anni, eppure mi sembra ieri, quando ho varcato per la prima volta il portone di Piazza Capri, senza conoscere – se non di nome – il padrone di casa. Cirese mi venne ad aprire sorridente e mi precedette verso il suo studio dove mi invitò a sedermi di fronte a lui, al lato opposto della scrivania. La stanza era ordinata, i libri occupavano gli spazi giusti e c’era perfino una nicchia – nascosta da una tenda – dove credo fossero sistemati i suoi scritti. Nel lungo tempo che ci siamo frequentati libri e carte ricoprirono pian piano tavoli e pavimento e l’intero corridoio. Alla fine – quando il figlio Eugenio era andato via di casa – Cirese aveva spostato nella sua camera il suo tavolo e tutti i macchinari (computer, stampanti, ecc.) che sempre più usava per lavorare.
Quel giorno mi chiese di me e io gli raccontai brevemente la mia “carriera” accademica e poi gli espressi il mio desiderio di lavorare con lui. Parlai anche – un poco – della mia vita privata: la morte di mio padre, il divorzio dal primo marito, il nuovo compagno e la figlia piccola alla quale era legato il mio desiderio (e la mia necessità) di tornare a Roma da Napoli (dove avevo vinto un contratto grazie a Vittorio Lanternari). Mi rispose che avrebbe lasciato Cagliari ma prima sarebbe andato a Siena dove sarebbe rimasto almeno due anni. Poi il definitivo trasferimento a Roma. Naturalmente non aveva alcuna preclusione a prendermi con sé quando sarebbe venuto il momento.
Ero molto contenta. Prima di salutarci prese un libro da uno scaffale e disse: “Intanto leggi questo”. Era L’origine della famiglia di Engels che non conoscevo e che una volta letto mi entusiasmò. Mi riaccompagnò alla porta e mi presentò sua moglie – Liliana Serafini – che sarebbe entrata nel nostro rapporto con la sua aria dolce e tenace, rimanendoci fino alla fine. Bella donna, insegnava nella scuola ed è scomparsa pochi mesi fa, ultranovantenne.
L’Università era allora un mondo piccolo: era stato Dario Puccini, il mio zio ispanista, che mi aveva indirizzato a Cirese. Insegnavano tutti e due a Cagliari e avevano le stesse idee politiche. Dario, quando gli avevo detto dei miei problemi napoletani aveva esclamato: “Vai subito a parlare con Cirese: è il più bravo di tutti! Lo avverto io”. E così era stato.
Dopo questo primo incontro ce ne sono stati molti altri. Sempre da lui. Spesso partecipava anche Liliana, oppure arrivava quando avevamo finito, sempre con il lavoro a maglia sotto le ascelle: scoprii che era bravissima e velocissima, sia con i ferri che con l’uncinetto. Nel salotto c’era sempre la TV accesa. Ero ancora troppo giovane per farmi domande sul loro rapporto di coppia: ma mi sembrava che facessero vite molto diverse anche se la moglie collaborò a molti suoi lavori. Scoprii poi che Liliana andava a dormire prestissimo e si svegliava all’alba. Cirese, invece, lavorava di notte: ma poi si alzava presto la mattina ed era sempre ben sveglio e puntuale.
Al principio del nostro rapporto, invitò a casa Clemente e Solinas (gli allievi cagliaritani che lo avevano seguito a Siena dove ottennero ciascuno un incarico). Dopo l’incontro, Cirese mi telefonò e mi chiese le mie impressioni su di loro. Dissi che mi erano piaciuti entrambi, anche se mi erano sembrati – pure loro – timidi e impacciati quanto me e molto diversi tra loro. Era chiaro che Cirese voleva crearsi un entourage composto da vecchi e nuovi allievi: un cerchio di studiosi a vari livelli di formazione e si augurava che andassero d’accordo. Forse – l’ho pensato dopo – apparteneva allo stile politico che aveva praticato a lungo nel Partito Socialista e che man mano era stato sostituito da quello scientifico. Infatti questi confronti erano rari nell’accademia del tempo: i “maestri” più che insegnare, spronavano gli allievi a pubblicare e ad accumulare titoli per la carriera. Erano quasi assenti gli incontri e i confronti scientifici: una pratica che invece Cirese inaugurò molto presto e che proseguì a lungo. Alla Sapienza gli venne data una stanza bella e grande, con una finestra luminosa che affacciava sul verde del Verano, arredata con i mobili solidi che risalivano (credo) al tempo della fondazione dell’Ateneo.
Intanto, con Massimo Squillacciotti, con cui avevo studiato durante l’Università – e che aveva seguito Cirese a Siena – proponemmo a Lelio Basso e a Franco Zannino di preparare un numero della rivista “Problemi del socialismo” su Antropologia e marxismo. Ci trovammo alla Fondazione e lì – tra compagni – ci davamo tutti del tu. Lo feci anche io con Cirese, e fui per molto tempo l’unica – tra tutti gli allievi – a dargli del tu: le ragioni non vennero mai spiegate e gli altri, fin quasi agli ultimi anni, continuarono a dargli del lei. Finché Cirese, quando Pietro diventò ordinario, gli disse: “Dò del tu a cani e porci. Diamoci del tu…”. Chissà se mi annoverava tra i cani o tra i porci…
Ho preferito tessere questa trama fatta di eventi e rapporti personali, tralasciando quelli scientifici di cui ho parlato molto nei miei scritti: riconoscendo i miei debiti verso il suo lavoro e l’influenza dei suoi insegnamenti e della sua guida. Dunque, continuo con i ricordi rievocando le relazioni umane e affettive: perché sono state altrettanto importanti: gli ho voluto bene, come a un secondo padre. E come con un padre, anche tra noi non sono mancate frustrazioni, delusioni e screzi.
Eravamo da poco a Roma e Cirese ci invitò a fare una gita a Rieti, alla casa paterna. Lo seguirono tutti – allievi nuovi e vecchi, stabili e precari. Dopo pranzo, insieme a sua madre, andammo a fare una passeggiata nel bosco. Lei si sedette a terra come tutti noi e poi si alzò agilmente, rifiutando il nostro aiuto. Fui colpita dalla sua vivacità e dalla sua allegria (oltre che dalla scioltezza dei suoi movimenti). Facemmo anche qualche foto di gruppo, come quelle che si fanno a scuola: ma non le trovo più.
Intanto erano arrivati alla cattedra romana altri collaboratori, tutti “volontari” tranne Alberto Sobrero (borsista) che, anche se si era laureato con Tentori, era allora più storico che antropologo. Una volta alla settimana facevamo una riunione collettiva sulle attività della cattedra della quale bisognava redigere un promemoria (pomposamente chiamato “verbale”) che era compito mio perché – a suo dire – avevo la scrittura più bella di tutti. Mi ricordò l’esame di maturità, quando fui promossa in tutte le materie e la professoressa di latino e greco si stupì che fossi passata anche nelle sue. Mi disse che il mio unico merito era di avete una scrittura leggibile e ordinata.
Presto cominciarono quelle riunioni allargate, che vennero denominate TOFISIROCA dalle sedi dei partecipanti: precisamente Torino (Gian Luigi Bravo), Firenze (Carla Bianco), Siena (Solinas, Clemente, Squillacciotti), Roma (Cirese, Paola De Sanctis, Alberto Sobrero ed io – tutti borsisti o contrattisti) e poi Lavinia D’Angelo, Ambra Marini, Maria Luisa Mirabile, Bia Sarasini, Ada Incudine, precarie. Si tenevano nelle diverse sedi, a seconda delle disponibilità. Molte a Siena, qualcuna a Roma e poi, varie volte, nella villa di Lavinia a Santa Marinella. Si ragionava su un tema, che veniva svolto da uno dei partecipanti, e poi si discuteva. Ho imparato molte cose ascoltando, ma non ne ho mai svolto una relazione: timidezza, insicurezza, complessi vari e soprattutto mancanza di interesse del gruppo per i miei temi – che fin da allora erano quelli legati alla storia dell’antropologia italiana.
Intanto, tutti crescevamo, spesso prendendo strade molto diverse. E anche Cirese – appassionato di informatica – lavorava su argomenti che per noi erano difficili da seguire. Solo Solinas era in grado di discutere con lui, sovente polemizzando con le sue prospettive. Poi – e credo che fossimo a Siena – fu invitata a partecipare Paola Tabet che si occupava di femminilità e condizioni della donna. Aveva fatto ricerca in Africa e pubblicato un libro importante. Era molto polemica, sia nel libro che verso le nostre posizioni. Cirese – assai poco femminista – aveva svolto una relazione (mi pare fosse intitolata “All’opre femminili intenta”) che scontentò sia Paola che Bia Sarasini – che, dopo aver lasciato la cattedra di Cirese, sarebbe diventata un’esponente importante del movimento femminista. Ne nacque una discussione aspra, che ci coinvolse tutti. Ma i toni e le polemiche furono così acuti e duri che misero fine ai nostri incontri.
Cambiavamo noi e cambiava il clima politico. Dal movimento studentesco – a cui avevo partecipato con convinzione – si era passati a gruppi e gruppetti sempre più estremi. Il primo segnale fu la contestazione aspra e violenta del comizio di Luciano Lama alla Sapienza, che parlava soprattutto del legame tra studenti e lavoratori: ma venne sommerso da fischi e lanci di oggetti da esponenti di Autonomia Operaia: era il 1977. Un anno dopo il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e l’omicidio degli uomini della sua scorta. Dopo 55 giorni di prigionia l’uccisione e il ritrovamento del suo corpo a via Caetani: tra la sede della DC e quella del PCI. Non posso non ricordare questi eventi, perché incisero anche sulle nostre vite e sui rapporti all’interno del gruppo ciresiano, del quale era entrata a far parte anche Alba Rosa Leone (borsista).
Nel 1980, sulle scale della facoltà di Scienze politiche due esponenti delle Brigate rosse uccisero il prof. Vittorio Bachelet. Noi eravamo nella nostra Facoltà e raggiungemmo il luogo dell’assassinio. Rivedo – come se fosse ieri – il corpo senza vita del professore, coperto da un lenzuolo e il viso pallido di Cirese, immobile. Non era più la contestazione allegra e scapigliata degli anni 70, quando sulla bacheca di Antropologia culturale qualcuno aveva scritto: “Cirese, barone cortese”. Eravamo entrati, senza accorgercene, negli anni di piombo. Se ne uscì per entrare quasi subito in “tangentopoli” che segnò il profondo declino dei partiti tradizionali. E poi scese in campo Berlusconi: erano ormai gli anni novanta e fummo governati da una destra corrotta e affarista (senza dire delle varie Ruby, dei festini sessuali del Presidente del Consiglio e dei suoi molti processi).
Ricordo questi eventi perché la trama che vado delineando si lega a un contesto più ampio che la contiene e la determina. Noi avevamo – chi più chi meno – 50 anni e fu allora che vinsi il concorso per professore associato e fui chiamata all’Università della Tuscia, dove rimasi fino alla pensione e oltre. Pure Cirese si avviava al pensionamento e lavorava soprattutto a testi informatici (ricordo, tra tutti, il Calendario Maya). Anche io comprai un computer, ma naturalmente non lo sapevo usare. Spesso lo interpellavo su qualche problema e lui si arrabbiava: “Smettetela di usare il computer come una macchina da scrivere!” esclamò una volta. E io gli risposi che non mi doveva parlare al plurale… Poi però si calmava e mi guidava nelle operazioni con la sua disponibilità e la sua sapienza.
Il nostro rapporto si era sciolto notevolmente rispetto ai primi anni, anche se da parte mia il rispetto e la considerazione non vennero mai meno. Mentre alcuni si allontanavano – in particolare i precari – altri definivano sempre meglio i loro interessi e i loro percorsi scientifici che portarono alcuni a staccarsi dalle posizioni di Cirese. Le nostre riunioni erano sempre più burocratiche e i verbali sempre più brevi e insignificanti. E non si poteva toccare la politica: Cirese era diventato berlusconiano (naturalmente a modo suo). Ma le sue posizioni ci toccavano. Ricordo che una volta, al telefono, quasi litigammo e comunque discutemmo in modo veemente. Sentii la voce di Liliana che passando vicino al telefono diceva: “È l’unica amica che ti è rimasta! Vuoi litigare anche con lei?”. Non litigammo, né allora né mai.
La vecchiaia è una malattia incurabile, che avanza in modo diverso per ciascuno di noi. Cirese non usciva più di casa ed era diventato quasi cieco. Un tormento per chi gli stava vicino. Dopo una caduta fu ricoverato in ospedale e poi spostato in una specie di cronicario fuori Roma. Lo andai a trovare con Marcello Arduini, Era a letto, lucidissimo, con Liliana che lo assisteva pazientemente. Ma lui era contento di vederci e anche vivace. Portarono il pranzo e io lo imboccai pazientemente pensando a come si rovesciano i ruoli: metaforicamente lui mi aveva nutrito con la sua intelligenza e ora io – materialmente – cercavo di fargli assumere un cibo non proprio invitante. Intanto era arrivato Eugenio Testa, che aveva pubblicato la bibliografia di tutti i suoi scritti. Cirese ne approfittò per ricordarci le sue dispense, quelle di cui mi ero occupata tanti anni prima: voleva farne un libro, completandolo con altri suoi scritti che allora erano stati esclusi. Con Eugenio cominciammo a ragionare sui testi da inserire: lui seguiva, aggiungeva, correggeva. Noi promettemmo di riprendere il lavoro. Poi – stanco – cominciò a recitare la Divina Commedia: la conosceva a memoria e la ricordava tutta.
È stata l’ultima volta che l’ho visto vivo. Pochi giorni dopo moriva, lasciandomi priva della sua presenza, della sua amicizia, della sua figura paterna. Lo sogno spesso ancora oggi.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
[*] Già pubblicato nel n. 51, di settembre 2021
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Sandra Puccini, ha insegnato Antropologia culturale all’Università della Tuscia. Tra i suoi libri ricordiamo: L’Uomo e gli uomini (Cisu, 1991), Il corpo, la mente e le passioni (Cisu, 1998), Andare lontano. Viaggi ed etnografia nel secondo Ottocento (Carocci, 1999 e 2001), L’itala gente dalle molte vite (Meltemi, 2005), Mondi narrati (Cisu 2002) e Uomini e cose (Cisu, 2012).
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