per la cittadinanza
di Emanuela Claudia Del Re
Il diritto alla “cittadinanza” ovvero la condizione giuridica e sociale di chi appartiene a uno Stato, dalla quale poi deriva il riconoscimento dei diritti civili, sociali, economici e politici e di altrettanti doveri è integrato nella Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli [1], entrata in vigore nel 1986 e definita dall’allora Organizzazione per l’Unità Africana (OUA), poi divenuta Unione Africana (UA). La Carta ha istituito una Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli con il compito di promuovere il rispetto dei Diritti Umani in Africa e di esaminare i rapporti periodici presentati dagli Stati membri. Ad oggi la Carta è stata ratificata da 53 Stati su 54 che compongono l’Unione Africana (manca la ratifica della Repubblica del Sudan del Sud che è diventata membro dell’UA nel 2011).
Va sottolineato che oltre ad elencare i diritti umani riconosciuti, la Carta africana è la prima convenzione internazionale sui diritti umani a riconoscere i diritti dei popoli (il diritto all’uguaglianza di tutti i popoli, il diritto all’autodeterminazione, il diritto di proprietà delle proprie risorse naturali, il diritto allo sviluppo, il diritto ad un ambiente sano) e primo strumento di diritto internazionale legalmente vincolante a collegare espressamente diritti e doveri. La Carta africana sancisce, tra gli altri, i doveri dell’individuo verso la famiglia, la società e la comunità internazionale, il dovere di non discriminare, il dovere di mantenere i genitori in caso di bisogno, il dovere di lavorare al meglio delle proprie capacità e competenze, il dovere di preservare e rafforzare i valori positivi della cultura africana.
Un elemento importante contenuto nella Carta fa riferimento alla necessità di tener conto «delle virtù delle tradizioni storiche e dei valori della civiltà africana che devono ispirare e caratterizzare le loro riflessioni sulla concezione dei diritti dell’uomo e dei popoli»[2]. La Carta peraltro riconosce sia che i diritti umani fondamentali si basino sulla persona – ovvero ciò che giustifica la loro protezione internazionale – sia che il rispetto dei diritti dei popoli debbano garantire i diritti umani. Nella Carta gli Stati africani si dichiarano «convinti che è essenziale accordare ormai una attenzione particolare al diritto allo sviluppo; che i diritti civili e politici sono indissociabili dai diritti economici, sociali e culturali, sia nella loro concezione che nella loro universalità, e che il soddisfacimento dei diritti economici, sociali e culturali garantisce quello dei diritti civili e politici» [3].
Dal 1986, quando la Carta fu definita, ad oggi, il concetto di cittadinanza in Africa resta ancora di difficile applicazione con forti ricadute sull’effettivo riconoscimento dei diritti [4]. Sono molti i fattori storici, economici e sociali che hanno reso difficile il processo di affermazione della cittadinanza. Tra questi, la suddivisione del Continente a partire dal XIX secolo senza tener conto dei confini politici preesistenti, la creazione temporanea di ampie zone di libera circolazione poi dismesse e in seguito ricostituite, il reclutamento forzato di manodopera da una regione all’altra, la travagliata transizione verso l’indipendenza della maggior parte degli stati africani [5].
Il dibattito politico sulla cittadinanza (e l’apolidia) in contesti non africani parte dal fatto che si presume che uno Stato definisca chi sia cittadino e chi no, e che il confine tra “cittadino” e “straniero” sia netto e ben identificato [6]. Per quanto riguarda l’Africa e in particolare il Sahel, come fanno notare Gonzales e Sigona [7], la questione è più complessa. Esiste infatti la difficoltà, soprattutto per chi vive in zone rurali o tra zone transfrontaliere, di dimostrare con documentazione la propria appartenenza a una regione e quindi a uno Stato. La mancanza di documentazione è solo un sintomo di debolezze più generali delle amministrazioni locali e centrali. Un numero elevato di persone in Africa, come denunciano da anni le organizzazioni internazionali [8], non ha documenti perché sono spesso costosi e non se ne conosce l’utilità. Questo però rende assai difficile per gli abitanti di uno Stato che avrebbero diritto alla cittadinanza esercitare i propri diritti e di conseguenza di rivendicarli quando necessario.
L’Unione Europea, di cui mi onoro di essere Rappresentante Speciale per il Sahel dal 1luglio 2021, considera l’empowerment dei cittadini e l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dei propri diritti e doveri come priorità assolute della sua azione esterna. L’UE è in prima linea in Africa e nel Sahel in particolare al fianco degli Stati nei loro sforzi intesi a rispondere pienamente alle aspirazioni delle popolazioni ponendo l’accento sulla dimensione della governance come elemento centrale della propria azione e strategia [9]. Il rispetto e la promozione dei diritti umani, tra cui il diritto alla cittadinanza attiva, e la protezione dell’individuo da ogni attentato alla sua integrità, sono al centro dell’azione dell’Unione Europea in tutti i settori di intervento nel Sahel. Perseguendo un approccio inclusivo, l’UE intende affidarsi alle autorità decentrate e alla società civile in tutte le sue espressioni per rispondere meglio alle sfide della regione.
L’educazione alla cittadinanza attiva è uno degli strumenti per sensibilizzare le comunità alle grandi sfide e per aumentare un senso di responsabilità del mondo in cui viviamo. L’Unione Europea è impegnata a creare, laddove manchi, e ad accompagnare la consapevolezza sui temi della contemporaneità, attraverso attività che possano rendere i cittadini motore di cambiamento.
Sono convinta che nel Sahel i giovani sono il vero motore del cambiamento. Lo constato da anni e in particolare in questi ultimi mesi durante le mie missioni istituzionali in tutti e cinque i Paesi del Sahel che seguo da Rappresentante Speciale. Il mio approccio politico include l’incontro con i giovani come prioritario. Il livello di consapevolezza dei giovani si rivela più alto e diverso rispetto a quello della generazione precedente in merito ai diritti. Sorprende che tra i giovani africani di oggi vi sarebbe ottimismo, nonostante la mancanza di accesso ai servizi di base, le condizioni che frenano lo sviluppo del Continente, il Covid-19 che ha esacerbato tali difficoltà, gli stereotipi negativi di cui l’Africa e i suoi cittadini sono oggetto. A rivelarlo è un sondaggio condotto nel 2020 dalla Ichikowitz Family Foundation [10] che analizza le aspettative per il futuro da parte delle nuove generazioni. Si tratta del primo sondaggio sul tema realizzato in Africa, e per questo è interessante citarlo nonostante i limiti dovuti al campione non particolarmente ampio. La Fondazione ha intervistato infatti un campione di 4.200 ragazzi tra i 18 e i 24 anni in 14 Paesi africani: secondo il 65 % degli interlocutori, questo è il “secolo dell’Africa”, un continente in cui secondo il PRB, Population Reference Bureau [11] l’età media è di 20 anni. Secondo il sondaggio: il 72% dei giovani africani di oggi si sente anche ottimista sul proprio futuro economico; il 75% crede che, con il proprio lavoro, riuscirà a imprimere cambiamenti significativi nelle proprie comunità. Sessantatre ragazzi su cento sognano una maggiore coesione tra i Paesi per far avanzare il Continente e il 72% vede nell’Unione Africana il soggetto ideale per portare a termine tale obiettivo. Nelson Mandela resta, secondo l’86% degli intervistati, la figura che tuttora meglio incarna i valori positivi comuni dell’Africa.
Nonostante il loro peso significativo in termini demografici, i giovani saheliani occupano il gradino più basso della scala sociale, con effetti pesanti anche sulla loro rappresentanza – nonché rappresentazione – politica. Parlare di rappresentanza dei giovani (18-35) negli organi decisionali dei partiti politici è, secondo Adam Dicko, Direttrice Esecutiva dell’associazione AJCAD-Mali, ancora considerato tabù [12]: nella migliore delle ipotesi, i giovani giocano un ruolo secondario, restando dietro le quinte. Nella maggior parte dei Paesi dell’Africa occidentale c’è un significativo divario anagrafico tra la composizione della leadership del partito e la popolazione nel suo complesso. Inoltre, l’età per candidarsi alla presidenza è di 35 anni in Mali, Niger e Burkina Faso, 40 in Mauritania e 45 in Ciad. Ciò significa che ai giovani (di età compresa tra i 15 ei 35 anni) è proibito per legge diventare presidente nei Paesi del Sahel.
Vi è grande attivismo dei giovani nonostante la mancanza di mezzi nel Sahel. In Mali, alcuni giovani attivisti membri di organizzazioni della società civile, hanno deciso di impegnarsi in politica, come ad esempio Mamadou Kouyaté, 26 anni, presidente della piattaforma Anw (Noi). Questo gruppo composto da diverse associazioni promuove l’inclusione dei giovani negli organi decisionali [13]. Il gruppo ritiene che sia necessaria una vera e propria mobilitazione politica pacifica per portare il cambiamento nella società maliana e per questo la gioventù deve avere idee chiare e precise per stimolare il cambiamento, lavorando dall’interno, entrando nelle istituzioni e nell’apparato amministrativo. È solo mettendosi in gioco che si può diventare actor of change, “attori di cambiamento”.
Secondo Oumar Bassy Sanogo, segretario del Parti pour la Restauration des valeurs du Mali (PRVM-Fasoko [14]), l’impegno civico è solo il primo step dell’impegno politico. Egli rivela che fin da giovanissimo è stato coinvolto nella vita della comunità come membro del Collectif Action-Vérité (CAV) e dell’associazione Action Jeune pour le Développement, creando attività di sviluppo della comunità e organizzando corsi di formazione per i giovani nelle operazioni di igienizzazione e raschiatura stradale. Nel 2012 ha deciso di iscriversi a una lista indipendente ed è stato eletto consigliere comunale. È stato in questo modo che avuto la possibilità di accedere al consiglio comunale. Oumar Bassy Sanogo spiega le ragioni del suo impegno in politica: «Sono stato spinto in politica da un senso di gratitudine verso il mio Paese che mi ha dato tutto. In giovane età, ho iniziato e completato i miei studi. Ho trovato un lavoro. Volevo mettere la mia esperienza al servizio del mio Paese» [15].
Fondata nel 2014, l’associazione AJCAD-Mali [16] è una delle organizzazioni giovanili più attive e impegnate in Mali e nel Sahel. Acronimo di Associazione giovanile per la cittadinanza attiva e la democrazia, AJCAD-Mali nasce dalla volontà di un gruppo di giovani consapevoli del proprio ruolo nello sviluppo e nell’affermazione dello stato di diritto in Mali. I membri fondatori sono attivisti impegnati nella promozione dei giovani in diverse aree: governance, advocacy e diritti. Durante le elezioni, i membri di AJCAD-Mali lavorano per informare ed educare i cittadini delle comunità sull’importanza del voto (voter education).
Con più di 20 mila soci in tutto il Paese, AJCAD-Mali mira a promuovere la candidatura di giovani leader alle elezioni, incoraggiando il loro coinvolgimento nella definizione delle strategie di governance, non solo come beneficiari di programmi e progetti ma come attori principali. I Citizen Action Club di AJCAD-Mali, le diramazioni dell’associazione sui territori, accompagnano i cittadini nella presa di consapevolezza dell’importanza di tutto il processo elettorale. Ad ogni elezione vengono organizzati momenti di confronto, discussione e dialogo per dare ai candidati la possibilità di presentare il loro programma elettorale e di raccontare la loro visione di società, consentendo ai cittadini, in particolare ai giovani, di fare scelte responsabili. Il giorno delle elezioni AJCAD fornisce supporto ai cittadini indicando loro il seggio elettorale dove votare e assistendo gli anziani e le persone con disabilità nelle operazioni di voto.
Tra le realtà associative più interessanti che ho incontrato recentemente in Sahel, precisamente in Burkina Faso, vi è Le Balai Citoyen, un movimento della Società Civile Burkinabé che riunisce associazioni di giovani impegnate nella difesa della governance e del “buon governo” in Burkina Faso. Dal 2014, Le Balai invita i cittadini burkinabé a vigilare sul rispetto della Costituzione e dei diritti umani e civili, e ad essere delle “sentinelle” sui territori, denunciando casi di mal governo e cattiva gestione della cosa pubblica. I membri di Balai Citoyen sono impegnati a promuovere la cittadinanza attiva tra la popolazione, a vigilare sull’azione politica dei funzionari eletti e delle autorità pubbliche nel pieno rispetto della Costituzione, nonché a stimolare azioni di miglioramento, in particolare nel campo dell’assistenza sociale. Questi nuovi cittadini impegnati che partecipano attivamente al miglioramento della vita pubblica sono fondamentali per la società.
In Ciad, in un momento così delicato in cui è in atto una transizione politica difficile, ho voluto incontrare i membri del Collectif des Associations et Mouvements de Jeunes du Tchad (CAMOJET), una piattaforma apolitica che raccoglie le associazioni e i movimenti giovani ciadiani, per conoscere i loro punti di vista su ciò che sta accadendo nel Paese e sul futuro del Ciad. Fondata nel 2004, CAMOJET promuove e difende i diritti umani, sostiene il buon governo e la cittadinanza attiva e lavora per lo sviluppo socio-professionale dei giovani ciadiani.
CAMOJET si occupa in particolare di bambini, giovani e donne, e mira specificamente a difendere i diritti delle minoranze. Realtà come CAMOJET sono fondamentali in contesti in cui le tensioni sono pronte ad esplodere e dove è necessario uno sforzo importante in materia di governance e Stato di diritto. L’Unione Europea sta dedicando un’attenzione particolare agli sforzi compiuti in materia di governance e Stato di diritto nel Sahel. Come si legge nelle Conclusioni del Consiglio sulla strategia integrata dell’Unione europea nel Sahel, «l’UE sosterrà le riforme e contribuirà a potenziare le capacità, in particolare le capacità istituzionali. È pronta a sostenere i momenti chiave della democrazia, in particolare le discussioni sul contratto sociale, i processi elettorali e l’inclusività dei processi politici e delle riforme. (…) In tale contesto l’UE continuerà inoltre a sostenere il decentramento e le attività della società civile». La governance è la chiave per lo sviluppo e per il contrasto alle azioni devastanti dei terroristi e dei gruppi armati in genere.
L’Unione Africana è un partner strategico per l’Unione Europea: il 17 e 18 febbraio 2022 si terrà a Bruxelles il sesto vertice UE-UA che vede tra i temi all’ordine del giorno, già affrontati peraltro nella seconda ministeriale UA-UE di Kigali dell’ottobre scorso [17], il rafforzamento della cittadinanza attiva e un maggior coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche e nei processi decisionali degli Stati.
Il contributo attivo dei cittadini e delle diverse forme di associazionismo e innovazione sociale sono da tempo considerati i nuovi pilastri dell’evoluzione delle società attuali. Ciò è evidente soprattutto in quei contesti ad elevato tasso di criticità, come ad esempio quelli urbani o ultra-periferici o caratterizzati da elevato tasso di povertà, elevati indici di diseguaglianza ed esclusione sociale. L’Unione Africana è in prima linea nella definizione di strategie, raccomandazioni e azioni che attribuiscano ai cittadini un ruolo chiave nel disegno e nell’attuazione delle politiche pubbliche, cosa ormai considerata una priorità di policy da parte di molti decisori pubblici, tanto da spingere la stessa Unione Europea a farne i fondamenti delle linee guida politiche della Commissione Von der Leyen.
Civic engagement e partecipazione e cittadinanza attiva sono parole-chiave dell’Agenda 2063[18], il quadro strategico per la trasformazione socio-economica del continente africano nei prossimi cinquant’anni adottato il 31 gennaio 2015 in occasione della XXIV Assemblea ordinaria dei Capi di Stato e di governo dell’Unione Africana ad Addis Abeba. Parallela all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU, l’Agenda 2063, che segna al 2063 il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del e per il Continente africano, si basa su iniziative presenti e passate, come il NEPAD (New Partnership for Africa’s Development) del 2001 e i trattati nigeriani di Lagos e Abuja dell’ECOWAS-CEDEAO (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale) e dell’AEC (Comunità Economica Africana), e sui fondamenti dell’Unione Africana che hanno fornito le aspirazioni generali per «un’Africa integrata, prospera e pacifica, guidata dai suoi stessi cittadini e che rappresenta una forza dinamica nell’arena internazionale».
Le sette aspirazioni, scelte attraverso un processo consultivo con il “cittadino africano”, sono incentrate ad avere un’Africa: 1) prospera, basata su crescita inclusiva e sviluppo sostenibile; 2) in un continente integrato, politicamente unito, basato sugli ideali del panafricanismo e sulla visione del Rinascimento africano; 3) di buon governo, democrazia, rispetto dei diritti umani, giustizia e stato di diritto; 4) pacifica e sicura; 5) con una forte identità culturale, patrimonio comune, valori ed etica; 6) il cui sviluppo è guidato dalle persone, che si basa sul potenziale offerto dalle persone, in particolare le donne e i giovani, e la cura dei bambini; e 7) che sia attore e partner globale forte, unito, resiliente e influente.
Sono questi principi di integrazione che hanno portato alla creazione dell’AfCFTA, l’African Continental Free Trade Area, l’area di libero scambio continentale africana, il più ambizioso progetto di integrazione economica in Africa dalla creazione delle comunità economiche regionali, e uno dei vessilli dell’Agenda 2063. L’obiettivo principale è creare un unico mercato continentale per i beni e i servizi con libera circolazione delle persone e degli investimenti, così da promuovere il commercio intra-africano, ridurre la dipendenza nei confronti dei mercati esteri, migliorare la competitività, sostenere la trasformazione economica e aprire la via all’istituzione di un’unione doganale in Africa. Quest’obiettivo incentrato sul concetto di integrazione è legato fortemente alla cittadinanza.
Il cittadino africano è dunque il destinatario dell’Agenda che in cinquant’anni si è ripromessa di cambiare l’Africa attuale, superando la frammentazione del Continente. Il passaggio da frammentazione a integrazione verrà risolto, secondo l’Agenda, con la creazione del “Cittadino Africano” tramite uno dei progetti che forse rappresenta al meglio il quadro strategico, ovvero l’apertura delle frontiere tra i 55 Stati e l’introduzione di un Passaporto dell’Unione Africana. L’Agenda 2063 prevede di favorire la libera circolazione dei cittadini africani nel Continente, abolendo tutti i requisiti e i visti per i viaggi all’interno dell’Africa (in origine previsto entro il 2018) e introducendo un passaporto africano entro il 2025.
Lanciato in occasione di un vertice dell’UA a Kigali nel luglio 2016, il Passaporto AU è in circolazione molto limitata. È attualmente disponibile per il personale dell’UA, i leader nazionali e alcuni funzionari selezionati degli stati membri [19]. In teoria, un passaporto continentale dovrebbe rendere superflui i visti e implicare frontiere aperte per tutti. È previsto che il passaporto venga messo a disposizione di tutti i cittadini entro la metà del prossimo decennio, ma si discute su come attuare questo processo.
Un passaporto dell’UA solleva un ampio dibattito intra-africano che va al di là della libertà di movimento, che è uno degli obiettivi a lungo termine dell’integrazione africana. Poiché i passaporti non sono solo documenti di viaggio ma sono anche significanti della cittadinanza, il Passaporto UA potrebbe assolvere questo compito? Nel caso, quali diritti e doveri conferirebbe ai suoi titolari, solo il diritto di viaggiare, o anche il diritto di insediamento? E se esso includesse un tale ampliamento dei diritti, potrebbe essere negato alla popolazione più ampia e reso disponibile a specifici gruppi? Con quale motivazione? Viceversa, i Paesi africani che temono di non essere in grado di gestire una maggiore migrazione sono riluttanti a riconoscere una nascente cittadinanza dell’UA? Va aggiunta anche la spinosa questione degli apolidi, ovvero persone sicuramente africane ma non possono dirsi legati stabilmente con alcun Paese. Questa condizione comprometterebbe le loro richieste di cittadinanza dell’UA e l’accesso a un passaporto? E la condizione di rifugiato? Ciascuno di questi problemi deve essere affrontato per essere preparati alla maggiore diffusione del passaporto inevitabilmente quando (e se) il passaporto diventerà più comune.
Questi sono solo alcuni dei temi legati alla cittadinanza in Africa. Di fronte all’enormità dei problemi da risolvere legati per quanto riguarda la vita delle persone alla mancanza di accesso ai servizi di base, dall’acqua all’elettricità all’istruzione e altro – e quindi alla difficoltà ad avere accesso ad opportunità di realizzazione in ambito lavorativo – bisogna fornire oggi risposte strutturali. È nostro interesse e dovere morale. I giovani africani costituiscono una risorsa straordinaria alla cui “cittadinanza” è nostro interesse contribuire perché saranno essi a costruire il mondo futuro insieme ai nostri giovani. Peraltro il modello sociale di riferimento – governance, welfare state, democrazia, stato di diritto – è per i Paesi africani qualora europeo, frutto di grandi conquiste sociali nei secoli per gli europei. Questo vuol dire che Africani ed Europei parlano già una lingua comune sul piano della costruzione della società, e per questo bisogna intensificare l’investimento per accelerare il processo e rendere gli Africani partecipi del sistema globale. L’Unione Europea, con i suoi 27 Stati membri, ha ben chiara questa missione. Per quanto mi riguarda, sento forte la responsabilità di dare risposte chiare ai giovani del Sahel che mi chiedono se noi facciamo mai autocritica e se veramente li vogliamo finalmente ascoltare.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] Sulla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli la letteratura esistente è ampia. In particolare, si rimanda a Fierens (1990), “La Charte africaine des droits de l’homme e des peoples”, in «Revue trimestrielle des droits de l’homme»; Umozurike (1997), The African Charter on Human and Peoples’ Rights, L’Aia; Ouguergouz (2003), The African Charter on Human and Peoples’ Rights: a Comprehensive Agenda for Human Dignity and Sustainable Democracy in Africa, L’Aia; Evans, Murray (eds.) (2008), The African Charter on Human and Peoples’ Rights: the System in Practice, 1986-2006, New York; Ssenyonjo (2012), The African Regional Human Rights System: 30 Years after the African Charter on Human and Peoples’ Rights, Leiden
[2] Cfr. African Charter on Human and People’s Rights, https://www.achpr.org/legalinstruments/detail?id=49 (ultimo accesso: dicembre 2021)
[3] Cfr. African Charter on Human and People’s Rights, https://www.achpr.org/legalinstruments/detail?id=49 (ultimo accesso: dicembre 2021).
[4] Manby, B. (2018), Citizenship in Africa: The Law of Belonging, Portland, Oregon: Hart Publishing
[5] Boone C. (2014), Property and Political Order in Africa: Land Rights and the Structure of Politics, Cambridge: Cambridge University Press: 317
[6] Manby B. (2018), “The Human Right to Citizenship: A Slippery Concept”, in Rhoda E. Howard- Hassmann e Margaret Walton-Roberts, «Human Rights Quarterly», 38: 526
[7] Gonzales R. e Sigona N. (2019), “Mapping the Soft Borders of Citizenship: An Introduction”, in Gonzales R. e Sigona N. (eds), Within and beyond citizenship: borders, membership and belonging, New York: Routledge
[8] Cfr. UNDP Africa (2021) A Prosperous and Peaceful Sahel Attainable Through Greater Investment and Partnership, New York: United Nations Ltd.; OXFAM (2019), Sahel: fighting inequality to respond to development and security challenges, Cowley: Oxfam GB for Oxfam International; African Commission on Human and Peoples’ Rights (2015), The right to nationality in Africa, Banjul: ACHPR Press
[9] Cfr. Conclusioni del Consiglio sulla strategia integrata dell’Unione europea nel Sahel, https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2021/04/19/sahel-council-approves-conclusions-on-the-eu-s-integrated-strategy-in-the-region/ (ultimo accesso: dicembre 2021).
[10] Cfr. https://ichikowitzfoundation.com/african-youth-survey-2020-press-release/ (ultimo accesso: dicembre 2021)
[11] Cfr. https://interactives.prb.org/2021-wpds/ (ultimo accesso: dicembre 2021)
[12] Dicko A. (2021), In Mali, young people no longer want to play supporting roles, in https://ideas4development.org/en/sahel-youth-citizen-mali/ (ultimo accesso: dicembre 2021)
[13] Dicko A. (2021), Ibidem (traduzione dell’A.)
[14] Cfr. https://prvmfasoko.ml/ (ultimo accesso: dicembre 2021)
[15] Dicko A. (2021), Ibidem (traduzione dell’A.). Vedi anche https://www.mandeinfos.com/2018/10/01/elections-legislatives-ces-jeunes-qui-revent-detre-elus-deputes/ (ultimo accesso: dicembre 2021)
[16] Cfr. https://ajcadmali.org/ (ultimo accesso: dicembre 2021)
[17] Cfr. https://au.int/en/pressreleases/20211028/joint-press-statement-second-au-eu-ministerial-meeting (ultimo accesso: dicembre 2021)
[18] Cfr. https://au.int/en/agenda2063/overview (ultimo accesso: dicembre 2021)
[19] Mukeredzi T. (2016), Pan-Africa passport to open up borders in https://www.un.org/africarenewal/magazine/august-2016/pan-africa-passport-open-borders (ultimo accesso: dicembre 2021).
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Emanuela C. Del Re è sociologa, specialista nello studio dei conflitti etnici e religiosi, Cooperazione allo Sviluppo, migrazioni, sicurezza. Professore Associato Abilitato, Ricercatrice confermata (Uninettuno), ha insegnato per anni presso l’Università La Sapienza di Roma. Vice direttrice della Rivista “Religioni e Società” diretta da Arnaldo Nesti, dal 1990 ha condotto sul campo ricerche in zone di conflitto (Balcani, Caucaso, Africa, Medio Oriente). Attualmente è Vice Ministra per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale (anche nel I Governo Conte) e deputato della Repubblica. Testimone delle trasformazioni sociali, politiche, economiche nel mondo – Kosovo, Iraq, Afghanistan e oltre – ha dato voce a politici, vittime, società civile e altri attraverso numerose pubblicazioni, film-documentari, attività accademica e nei fora internazionali. Scrive su importanti riviste e collane italiane e internazionali tra cui Limes, di cui è membro del consiglio redazionale. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Women and Borders. Refugees, Migrants and Communities (Tauris, 2018), con S. Shekhawat; Il comportamento collettivo. “Via con la pazza folla”: internet, ultras, terrorismo e oltre (Rubbettino, 2012).
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