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Cittadinanza passiva

cover per la cittadinanza

 di Aldo Aledda

Quando si parla di cittadinanza si può trattare il tema issandosi metaforicamente su un podio, magari dopo che la banda ha suonato l’ultima nota dell’inno di Mameli, e fare bei discorsi sulla democrazia e la partecipazione; oppure sedersi in un cantuccio e vedere come, al netto della retorica patriottarda o nazionalista, funzioni davvero questo istituto e a che cosa serva. Per prima cosa scopriamo che siamo in presenza di uno strumento che storicamente mostra la funzione non solo di includere persone ma anche quella latente di escluderne. Così se i posteri sono sempre rimasti colpiti dal gran numero di cittadini che, nell’Atene classica, culla della democrazia, affollava le riunioni dell’Areopago, in cui si decidevano le sorti della Polis, uno sguardo più attento ha consentito di capire che questo privilegio spettava a un numero ridotto di abitanti giacché vi erano escluse le donne, gli stranieri, i meno abbienti e gli schiavi.

Altrettanto accadeva nell’antica Roma quando gli stupefatti ambasciatori di Annibale reduci dalle sedute del Senato riferivano al loro signore di avere assistito a un’assemblea di re. Ma anche allora l’appartenenza alla civitas per eccellenza, che conferiva questo diritto e costituiva un salvacondotto dovunque si andasse, ne riservava il godimento solo ai patrizi, discriminando, tanto per cambiare, stranieri donne e schiavi. E le cose non cambiarono di molto nella Caput Mundi, anche quando Caracalla col suo famoso Editto estese la cittadinanza a quasi tutti gli abitanti dell’impero, giacché in epoca imperiale (III-IV sec. d. C.) a fronte dei cinquecentomila o addirittura un milione residenti nella più grande metropoli dell’Antichità non erano più di centomila, secondo i calcoli dello storico americano Peter Brown, i veri “cittadini”, tutti peraltro pronti a difendere con le unghie e con i denti i loro privilegi, in particolare il welfare del tempo, ossia le distribuzioni del frumento del Portico Minuccio, attenti che non ne potesse usufruire chi non aveva diritto perché non era cittadino.

Sfogliando il passaporto, notiamo che nella gran parte dei Paesi diversi dall’Italia il nostro termine ‘cittadinanza’ è tradotto in genere con “nazionalità”. Non è un caso. La nuova definizione dello status di cittadino, sicuramente più larga e onnicomprensiva, trova la sua origine nell’affermarsi dell’idea di nazione conseguente alla pace di Westfalia, in cui Francia, Spagna, Inghilterra, ecc. si costituirono in questa forma prima che anche l’Italia divenisse tale, configurando politicamente in modo diverso il continente europeo che in precedenza era caratterizzato dalle circa cinquecento piccole formazioni statali. E anche qui vediamo riapparire il carattere selettivo del possesso della cittadinanza o della nazionalità.

Le nazioni, a parte le ambizioni dinastiche, avevano infatti l’esigenza di fissare in modo più puntuale al proprio interno identità culturali, religiose, linguistiche, politiche, culturali, ecc. escludendo quindi chi non ne faceva parte nella convinzione che attraverso esse si sarebbe configurata una realtà sociale interna più omogenea e, quindi, più giusta e condivisa (anche se le continue guerre tra Stati che ne seguirono dimostrarono che non andò esattamente così, come pure le grandi migrazioni europee dal XVIII secolo fino al XX soprattutto in direzione delle Americhe rappresentarono in qualche modo una reazione all’emarginazione e al disagio non solo economico, ma anche religioso, sociale e politico – non a caso Francesco Saverio Nitti osservò che ai meridionali non esisteva altra alternativa alla piemontesizzazione d’Italia se non diventare “o briganti o emigranti”). Perché ciò fosse possibile gli Stati rafforzarono i poteri centrali e il controllo del territorio, passando da un’epoca in cui i confini erano fluidi e incerti a un’altra in cui dovevano divenire meglio definiti, abitati da soggetti che si riconoscessero integralmente nella nazione e, per conseguenza, risultassero meglio controllati, facilmente difendibili e, all’occorrenza, ampliati (come dimostra l’eterna querelle tra la Francia e la Prussia nell’Ottocento). Da qui l’invenzione del documento del passaporto che, fino al XX secolo, prima che consentisse di muoversi in tutti i Paesi del mondo, funzionava da sorta di carta di identità che, soprattutto a fini commerciali, permetteva di circolare liberamente all’interno del proprio Paese.

permesso-soggiorno-2È con questi caratteri che l’istituto della cittadinanza o della nazionalità, che dir si voglia, passa attraverso il logorìo della storia, divenendo sempre più un affare di uffici anagrafe e di polizia, e per gli appartenenti a una comunità che ne possiedono la titolarità per lo più un pretesto per rivendicazioni di diritti. Forse una delle ragioni della scarsa consapevolezza e della sua importanza da parte di chi ne è titolare è che dal possesso della cittadinanza si pensa scaturiscano diritti che ormai rientrano nella sfera di quelli naturali. Qualunque sia la ragione la percezione riduttiva di questo istituto appare sempre più marcata, tanto che oggi l’uomo della strada si accorge di esso solo quando deve provare uno status, per esempio trasferendosi all’estero o iscrivendosi a un concorso pubblico, oppure quando pensa che vi sia un servizio inefficiente da lamentare o un diritto da rivendicare e ancora quando ritiene di dover alzare la voce per escludere qualche altro individuo.

Da qui, dunque, la deriva in qualche modo dell’idea di cittadinanza che, nata come distintiva e fonte di orgoglio delle nuove costruzioni statali, nel tempo è affievolita fino a divenire quasi l’emblema dell’esaurimento del vecchio Stato-nazione che, in crisi dal punto di vista economico (oggi gli Stati se fossero società private dovrebbero portare i registri in tribunale) sopravvive prevalentemente come strumento burocratico che più che utilizzare questo istituto per agevolare lo usa tante volte per ostacolare il funzionamento della società accentuando discriminazioni e divisioni.

Così il diritto di cittadinanza, lungo una tradizione storica di istituto ambivalente che nello stesso tempo include ed esclude, oggi nelle sue varianti dello ius soli (appartenenza geografica) e ius sanguinis (legami di parentela), continua a porsi come strumento atto soprattutto a escludere chiunque sia ritenuto sgradito da chi invece ritiene di possedere tutti i numeri per essere incluso. E allora il non voler riconoscere che il concetto di cittadinanza tradizionale non serve più a far funzionare gli Stati, ha prodotto tutta una serie di istituti che cercano di colmarne le presunte lacune.

Da qui la proposta di strumenti pure molto interessanti che ordinariamente sarebbero solo la precondizione per ottenere la cittadinanza piena, come lo ius culturae, i meriti culturali che in genere dovrebbero già integrare i requisiti dello due forme fondamentali di cittadinanza o lo ius pecuniae, oggi tanto di moda per le entrate ingenti che procura agli Stati che distribuiscono a pagamento visti a chi intende fare investimenti finanziari al proprio interno (nelle casse americane negli anni passati sarebbero entrati svariati miliardi di dollari grazie a questo sistema). Quindi, potremmo aggiungere anche una sorta di ius honoris causa, il visto concesso a chi apporta professionalità al Paese che lo ospita oppure garantisce onore sportivo, come capita in Italia e non solo (anche se tanti ragazzi e ragazze prima di raggiungere la maggiore età e diventare cittadini e salire sul podio, hanno dovuto fare una lunga gavetta come apolidi e dimostrare il possesso di tanti di quei requisiti culturali e linguistici che il cittadino dello ius sanguinis spesso è lungi da possedere).

okGradualmente l’applicazione di questo istituto ha fatto sì che per molti esso sia divenuto più che altro un incubo burocratico. Qualche caso aiuta a capire meglio il significato di ciò che diciamo. Una donna brasiliana si presenta un giorno all’anagrafe di un comune della Sardegna, con tutte le carte in regola per chiedere la cittadinanza italiana. Viene respinta da un’impiegata sdegnata che le chiede “che cosa venga a fare in Italia” (sic!). È vero che in questo campo si sono registrati abusi, con organizzazioni che preparano pacchetti turistici laddove esiste abbondanza di ex emigrati italiani per alcune località del Paese da cui sono originari dove tra il tutto incluso nella gita vi è anche l’ottenimento della cittadinanza italiana garantita, pare, dall’impiegato comunale compiacente (fenomeno segnalato dalla stampa in Veneto), ma negare a priori, come concedere, solo perché si paga francamente è troppo (quanti italiani in Venezuela non hanno potuto raggiungere il Paese di origine perché non si potevano permettere le somme necessarie per ottenere il passaporto italiano cui pure avevano diritto?). Tuttavia, ancora più emblematico è ciò che è successo a una signora brasiliana di origine trentina che, essendo regolarmente in possesso della cittadinanza italiana per discendenza, dopo qualche tempo se l’è vista revocare manu militari da un impiegato del suo consolato; a quel punto, visto che oltretutto appariva contraddittorio che venisse anche regolarmente convocata a votare all’estero e nello stesso tempo non si voleva urtare chi l’aveva spogliata del suo diritto, le fu suggerito diplomaticamente di provare a “richiederla”, ma non gliela poterono “riconcedere” perché, come rilevò un più scrupoloso funzionario del ministero italiano competente la cittadinanza in realtà… la signora non l’aveva mai persa – non a caso andava a votare – perché la cittadinanza non si perde (se non per indegnità o per rivestire un ruolo rilevante in un altro Stato)… quindi tutto come prima…ma quanti fastidi… per una piccola partita a ping pong tra uffici pubblici con la signora che faceva da pallina!

L’incubo peggiore, infatti, è per coloro che la richiedono è vedersela negata con kafkiani pretesti burocratici enfatizzati da chi sta dietro lo sportello oppure più banalmente per l’insostenibilità delle condizioni organizzative delle strutture italiane all’estero (anni fa divenne famoso il consolato di Buenos Aires dove le code dei richiedenti la cittadinanza si incominciavano a formare dalla notte precedente, gran parte poi degli infreddoliti e insonnoliti richiedenti magari era sdegnosamente rispedita indietro perché mancava un documento reputato indispensabile da chi era preposto al controllo). Tutti conosciamo quanto faccia impazzire i migranti sbarcati in Italia la lunga trafila di quegli inutili istituti, nipotini della cittadinanza, come visti e permessi di soggiorno che possono costringere in un centro di accoglienza a girare a vuoto per oltre un anno un immigrato che abbia inoltrato la sua supplica (cosa ancora più paradossale perché l’Italia tra qualche anno dovrà supplicare a stare fermi nel nostro Paese i migranti che vorranno continuare a saltare a piè pari per il centro e nord Europa con una forza lavoro ormai invecchiata e ridotta al lumicino).

Richiedente asilo a colloquio nella Commissione territoriale

Richiedenti asilo a colloquio  presso la Commissione territoriale

Ma l’incubo burocratico non finisce qui, perché a esaminare chi richiede diritti basilari legati alla cittadinanza e all’ingresso, spesso le frange più deboli e più bisognose, lo Stato impiega il più delle volte i bassifondi degli uffici amministrativi. Allora come non dare ragione, pur senza iscriversi al circolo dei complottisti, che il maneggio di questo istituto non sia funzionale a voler tenere fuori persone sgradite?

Per concludere, a che cosa si è ridotta, dunque, la cittadinanza oggi? Concordo con Franco Ferrarotti che, nel n. 50 di Dialoghi Mediterranei, osserva che la cittadinanza gioca un ruolo regressivo nella misura in cui è divenuta un modo di difendersi delle classi dirigenti, interessate a giustificare diseguaglianze e a erigere muri più che a costruire ponti col mondo che esiste fuori dello spazio nazionale. Ma aggiungerei che il diritto di cittadinanza è divenuto uno spauracchio da agitare alle frange di popolazione che temono invasioni e stravolgimenti culturali, incoraggiandole nel loro egoismo nazionale e nella loro pigrizia mentale in cambio di qualche voto invece che aiutarle a vedere i vantaggi non solo morali (non si ascolti pure il Santo Padre!) ma anche materiali dell’utilizzo di un istituto che può arrestare il declino di un popolo destinato alla decadenza per scarsa denatalità e invecchiamento: non a caso Paesi come la Germania e la Spagna hanno stabilito di avere immediato bisogno dai sei agli otto milioni di abitanti per continuare a pagare le pensioni se non si vuole innalzare troppo l’età degli aventi diritto.

Anche per tutta questa serie di ragioni, la cittadinanza si è ridotta ormai a uno strumento in grado di innescare azioni niente affatto intelligenti, proprio nel senso che nulla intus leggono neanche nella realtà corrente e si rivelano impotenti davanti a fenomeni di oggettiva difficoltà nella gestione come quelli migratori che stanno interessando quasi seicento milioni di esseri umani nel mondo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022

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Aldo Aledda, studioso dell’emigrazione italiana con un’ampia esperienza istituzionale (coordinamento regioni italiane e cabina di regia della prima conferenza Stato-regioni e Province Autonome -CGIE), attualmente è Coordinatore del Comitato 11 ottobre d’Iniziativa per gli italiani nel mondo. Il suo ultimo libro sull’argomento è Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Angeli, 2016).

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