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Civili e in-civili. Note a margine di una ricerca di campo in una “zona ebraica” della Cisgiordania occupata

area C in Cisgiordania (OCHA 2011): la zona marrone indica le aree sotto completo controllo israeliano (Area C) in Cisgiordania

Area C in Cisgiordania (OCHA 2011): la zona marrone indica le aree sotto completo controllo israeliano (Area C) in Cisgiordania (OCHA 2011)

di Chiara Pilotto 

Domenica 4 febbraio in Israele è iniziata la “Marcia della Vittoria” che si oppone al cessate il fuoco a Gaza. I manifestanti sono partiti dal kibbutz di Zikim a nord della Striscia di Gaza. La zona di Zikim ospita anche la base “Bahad 4” che serve ad addestrare le reclute delle Forze di Difesa Israeliane, ed è stata uno dei principali obiettivi militari dell’attacco delle Brigate Al-Qassam il 7 ottobre 2023 [1], nonché punto nevralgico per l’invasione di terra delle truppe israeliane nel nord di Gaza lanciata il 26 ottobre [2]. La manifestazione partita da Zikim è stata organizzata dal gruppo “Riservisti fino alla vittoria” e da altre associazioni come “Madri dei soldati dell’IDF” [3], e ha raccolto circa 15.000 cittadini israeliani intorno alla Knesset al suo arrivo a Gerusalemme l’8 febbraio.

La richiesta dei manifestanti al governo è molto chiara: continuare la guerra a Gaza e rifiutare qualsiasi trattativa con Hamas riguardo alla liberazione degli ostaggi. Inoltre, i sostenitori della marcia si oppongono all’invio di aiuti umanitari alla popolazione della Striscia sotto lo slogan “Nessun aiuto al nemico”: il 31 gennaio 2024 avevano manifestato davanti all’ambasciata USA a Gerusalemme e nella stessa settimana diverse proteste erano state organizzate al porto di Ashdod e al valico di Kerem Shalom per bloccare il passaggio dei camion con gli aiuti diretti a Gaza [4]. Non per ultimo, la loro richiesta di continuare la guerra fino alla “vittoria” è basata su un progetto politico preciso: mantenere i “territori conquistati” sotto il controllo di Israele.

Nelle ultime settimane l’esercito israeliano è avanzato verso il sud della Striscia, in direzione Rafah, che oltre ai residenti ospita circa un milione e mezzo di Palestinesi rifugiatisi lì dopo i bombardamenti e l’invasione delle truppe di terra dal nord. Inizialmente dichiarata “zona sicura” dallo stesso esercito israeliano che ordinava alla popolazione di evacuare prima dei bombardamenti, l’area della Striscia al confine con l’Egitto non è stata esentata dagli attacchi israeliani di aria e di terra. Dopo che alla Knesset il gabinetto di guerra si era riunito per discutere della possibilità di un cessate il fuoco in seguito alle più recenti pressioni degli alleati statunitensi e al piano di rilascio degli ostaggi proposto da Hamas [5], i manifestanti della “Marcia della Vittoria” sono stati accontentati dal premier Netanyahu. Il 7 febbraio, durante una conferenza stampa, Netanyahu ha ribadito il convinto prosieguo dell’operazione militare israeliana con l’obiettivo di annientare Hamas, la cui sconfitta sarebbe sempre più vicina e costituirebbe la «vittoria di tutto il mondo libero» [6].

Nella logica di guerra israeliana “l’imperativo della vittoria” non può essere marginalizzato dalla questione della liberazione degli ostaggi: così scrive ad esempio Gadi Taub, storico del Sionismo con un dottorato in Storia americana ottenuto negli USA e docente all’Università ebraica di Gerusalemme, nella rivista Tablet, che raccoglie i contributi dell’intellighenzia ebraica di area conservatrice di tutto il mondo [7]. Il ragionamento di Taub fa eco alle ragioni della “Marcia della vittoria”: la “ferocia” dell’“istinto di sopravvivenza”, mai forte come ora secondo l’autore, implicherebbe la necessità di una fredda razionalità per compiere “sagge” scelte strategiche. Al contrario, le proteste anti-Bibi, l’aspirazione alla soluzione dei due Stati, e la campagna “Bring them home now!” che chiede il rilascio degli ostaggi – perfino alcuni settori dell’esercito israeliano identificati da Taub con le élites progressiste del Paese – sono realtà considerate ostili poiché presupporrebbero la “debolezza” di Israele e cadrebbero nella trappola dell’“empatia” verso i prigionieri (israeliani). Neanche il principio morale del pidyon shvuyim, che secondo la legge ebraica prevede l’impegno di liberare gli ebrei che si trovano in stato di prigionia, sarebbe sostenibile di fronte al rischio di indebolire la posizione di Israele nella sua guerra contro Hamas.

Accanto all’estrema virata a destra delle forze sociali e politiche in Israele, che sembra compattare un’ampia fascia di cittadini, attivisti, intellettuali con le posizioni del governo, il mito della vittoria contro il nemico, nutrito dalla retorica di guerra, se da un lato mostra la conflittualità che attraversa la società israeliana, dall’altro evidenzia come il terreno del conflitto si giochi proprio sulle diverse strategie da mobilitare per la protezione della vita dei cittadini di Israele. Se la coscienza nazionale è costitutivamente intrecciata al valore primario della difesa della vita ebraica dopo l’orrore dell’Olocausto in Europa, la militarizzazione della società israeliana, contestata solo fino a un certo punto, dimostra anche come questo valore abbia nutrito una cultura militaristica che si riproduce attraverso le strutture dello Stato.

In Israele il servizio militare (tre anni per i ragazzi e due per le ragazze) segna il processo di crescita e socializzazione dei giovani, la cui traiettoria biografica è spesso segnata dal lutto per le morti di chi fra loro è caduto sui vari “fronti di guerra”. Un’amica israeliana della mia famiglia palestinese, che ho conosciuto mentre svolgevo la mia ricerca di dottorato nella Cisgiordania occupata fra il 2011 e il 2014, lamentava spesso che «i figli sono tuoi fino a quando compiono 18 anni, poi diventano figli del governo». Talia, la giovane donna che per quattro anni mi ha aiutato ad ottenere un visto israeliano per avere accesso al campo nei territori occupati (dichiarando alle autorità israeliane che ero sua ospite a Tel Aviv), era stata processata a 18 anni poiché aveva rifiutato di svolgere il servizio militare obbligatorio. L’obiezione di coscienza non esiste in Israele, ed è previsto il carcere per chi rifiuta di entrare nell’esercito [8], così come accade in molti altri Paesi come la Siria e l’Iran.

campi e colonie" (foto mia, 2013): espansione delle colonie nelle terre palestinesi coltivate dell'area di Betlemme

Campi e colonie: espansione delle colonie nelle terre palestinesi coltivate dell’area di Betlemme (ph. Chiara Pilotto, 2013)

Il militarismo nella società israeliana è oggetto di analisi da parte degli stessi studiosi israeliani, che da tempo hanno evidenziato quanto la loro nazional-democrazia si fondi su uno stato di guerra protratta che sfuma i confini fra “civile” e “militare”. Fra i “nuovi sociologi”, Baruch Kimmerling ha definito “militarismo civile” (civilian militarism) il funzionamento della “mente militare” nel guidare i processi cognitivi, di valutazione e decisione, dando una scontata priorità al mandato della sicurezza nazionale rispetto alla cura di altre dimensioni della vita politica. Questa forma di militarismo non implica che l’esercito come istituzione prenda il potere e governi, né che diventi il fulcro di un culto statalista; piuttosto, Kimmerling lo descrive come un fenomeno «sistemicamente internalizzato» che si rende auto-evidente nelle strutture di governo così come nella vita pubblica più in generale (Kimmerling 2008: 141). È utile sottolineare un punto sottile ma importante nell’analisi di Kimmerling: questa scontatezza o auto-evidenza, che rende il “militarismo civile” una forma culturale egemonica nella società israeliana, non è tanto legata al dare priorità alla difesa militare, ma al considerare la difesa militare come l’unica opzione possibile (Kimmerling 2008: 144-145).

Cosa trasforma quindi la richiesta di un cessate il fuoco a Gaza in un atto moralmente ripugnante, politicamente avverso, e addirittura in un atteggiamento giudicato “antisemita”? Sappiamo che nemmeno gli Stati membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sono stati in grado di votare un cessate il fuoco “umanitario” prima di dicembre (l’Italia si è sempre astenuta). La libertà di espressione e la libertà accademica nelle liberaldemocrazie occidentali, di cui anche Israele è considerata parte, si sta restringendo in modo preoccupante (cfr. ELSC-BRISMES 2023), e le forme di contestazione pacifica delle politiche israeliane (come il boicottaggio o le mobilitazioni che chiedono la fine della guerra) sono sempre più guardate con sospetto, se non addirittura criminalizzate, all’interno degli stessi confini europei. La minaccia nei confronti di Israele si rifrange in una molteplicità di discorsi e pratiche che in diversi modi criticano l’occupazione militare e coloniale della Palestina. Questi contorni sfumati del “nemico” lo rendono paradossalmente più chiaro, di volta in volta, arrivando a soffocare anche le voci critiche del mondo ebraico. Il senso di minaccia diffuso e le forze repressive che esso innesca, trasformano la preparazione della guerra in una dimensione strutturale non solo della vita israeliana, ma anche della politica internazionale.

Se dopo la Nakba del 1948 questa minaccia si articolava in Israele attorno ad un “sionismo liberale” concentrato sul controllo dei confini del giovane Stato, con l’occupazione militare dei territori palestinesi del 1967 e l’ascesa del nazionalismo etno-religioso, la minaccia “degli Amelek” (evocati dallo stesso Presidente Netanyahu nell’annunciare l’invasione di terra a Gaza) acquisisce sfumature messianiche che ribadiscono quanto Eretz Israel sia la “terra promessa” da Dio al popolo ebraico. I concetti di “teocrazia” o “etnocrazia” (Yftachel 1999) che alcuni studiosi hanno mobilitato per analizzare le evoluzioni dello Stato israeliano, invitano a riflettere su come l’ebraicità sia divenuta un marchio di supremazia etnico-religiosa nel contesto del colonialismo di insediamento israeliano. Pensiamo ad esempio che, secondo la denominazione ufficiale, la Cisgiordania occupata è identificata come “Giudea e Samaria”, dove fino ad oggi governa l’Amministrazione Civile Israeliana. Istituita nel 1981 per amministrare i territori occupati dove la popolazione palestinese era stata sottoposta alla legge marziale [9], oggi l’Amministrazione Civile Israeliana è considerata parte integrante delle Forze di Difesa Israeliane ed è un elemento della più ampia struttura chiamata COGAT (Coordination of Government Activities in the Territories), un’unità del Ministero della Difesa che opera in stretto coordinamento con l’esercito e i servizi di sicurezza israeliani [10]. Dopo gli Accordi di Oslo (1993-1995), che hanno sancito il trasferimento del 60% della Cisgiordania sotto completo controllo israeliano, il COGAT opera su due distinte popolazioni nella cosiddetta “Area C”: i coloni israeliani e i non-cittadini palestinesi. È in quest’area infatti che, grazie alla spinta degli accordi di “pace”, si stanno espandendo gli insediamenti israeliani, molti dei quali sorti inizialmente come “avamposti militari” dopo l’occupazione del 1967. Poco importa se il trasferimento di popolazione civile da uno stato occupante ai territori occupati sia considerato illegale secondo l’art. 49 della Convenzione di Ginevra IV del 1949, e dell’art. 8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale del 1998.

colonie in costruzione" (foto mia, 2011): costruzione di nuove case per i cittadini israeliani nelle colonie dell'area di Betlemme

Colonie in costruzione: nuove case per i cittadini israeliani nelle colonie dell’area di Betlemme (ph. Chiara Pilotto, 2011)

Prima del 7 ottobre, nel periodo fra febbraio e giugno 2023, si sono intensificati gli attacchi dei coloni ai villaggi palestinesi, come quello in cui 400 israeliani, in seguito all’uccisione di due concittadini nella zona, sono entrati nel villaggio di Huwara il 27 febbraio e hanno dato fuoco a case, negozi e automobili di proprietà palestinese. In quell’occasione l’esercito non è intervenuto, e il Ministro delle Finanze Smotrich, che ha anche un ruolo di responsabilità nell’Amministrazione Civile Israeliana, ha dichiarato che «Huwara dovrebbe essere cancellata» [11] (salvo ritirare le sue dichiarazioni dopo qualche giorno, in seguito allo sdegno espresso dagli USA), mentre i veterani di Breaking the Silence definivano “il progrom di Huwara” un caso di «violenza autorizzata dallo Stato» [12]. A fine ottobre 2023 il Ministro della Sicurezza Nazionale Ben-Gvir ha personalmente consegnato 10.000 fucili d’assalto ai coloni della Cisgiordania per armare le cosiddette “squadre per la sicurezza” [13]. L’escalation di violenza contro i civili palestinesi è documentata dalle stesse agenzie di stampa israeliane [14], e i video delle umiliazioni subite dai Palestinesi in alcune zone della West Bank dopo il 7 ottobre sono circolati attraverso i social networks. Alcuni villaggi, come quelli nella zona militare chiusa sulle colline a sud di Hebron – da sempre sottoposti alla violenza dei coloni – sono oggi interamente spopolati [15].

Come ha giustamente osservato Samera Esmeir, la formazione dei “civili” e di una “normalità civile” passa attraverso un doppio processo di territorializzazione e istituzionalizzazione del potere israeliano, che si basa sulla deterritorializzazione, lo spossessamento e la cancellazione dei Palestinesi. È così che i coloni in Cisgiordania sono trasformati in una popolazione civile normalmente residente nei territori occupati, con una propria struttura di governo, servizi, scuole, ospedali, strade, corpi di polizia, che riproducono l’illusione di una distinzione fra “civile” e “militare”. Tuttavia, questa “normalità civile” è proprio la posta in gioco della violenza militare: «Più violenza coloniale e militare c’è in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, più c’è normalità civile in Israele, e più la nozione di normalità civile può essere utilizzata come arma per giustificare il crescere della violenza nei territori occupati» (Esmeir 2023). La vita dei civili dipende quindi dal controllo degli “in-civili”, ovvero dall’espulsione dei Palestinesi dalle loro terre e dalle loro case, confinati invece nella normalità di una Nakba senza fine.

Forse non è più scontato, oggi, credere che la disumanizzazione del nemico sia parte integrante della guerra, tanto è stata normalizzata nel discorso pubblico dal 7 ottobre in poi. Oggi i morti a Gaza sono arrivati a quasi 30.000, le infrastrutture civili sono state distrutte – oltre a migliaia di abitazioni sono stati colpiti anche ospedali, scuole, università, moschee, chiese, negozi, uffici, ovvero tutto quello che fa della vita in società una vita in società. Nonostante qualcuno evochi il pericolo dell’ISIS nelle azioni dei partiti islamisti, non è nemmeno la cosiddetta guerra globale al terrorismo il principale terreno attraverso cui si sostiene che tutti i Palestinesi siano “terroristi”. Accanto allo sfumare dei confini fra “civile” e “militare” che contraddistingue la cultura militaristica israeliana, l’indistinzione fra la popolazione civile di Gaza e le forze combattenti dei partiti islamisti che hanno mosso l’attacco a Israele è stata coltivata nel discorso pubblico attraverso l’immagine degli “animali umani”. È il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che, a due giorni dall’attacco, ha annunciato l’“assedio totale” di Gaza con il blocco delle forniture di cibo, acqua, elettricità e carburante: «Combattiamo animali umani e agiamo di conseguenza».

"pecore e colonie" (foto mia, 2011): i pastori palestinesi superano la linea del muro per cercare pascoli nelle terre confiscate dall'esercito israeliano fra il loro villaggio e le colonie circostanti

Pecore e colonie: i pastori palestinesi superano la linea del muro per cercare pascoli nelle terre confiscate dall’esercito israeliano fra il loro villaggio e le colonie circostanti (ph. Chiara Pilotto, 2011)

Il richiamo alla presunta subumanità dei Palestinesi non comporta solo riformulare la nozione di “civile” – nozione liberale che rimanda a soggetti passivi, inermi e perciò “innocenti” – attraverso l’idea di un nemico diffuso: una confusione per cui tutti i civili palestinesi avrebbero una qualche responsabilità – diretta o indiretta – nello scontro armato. La definizione di “animali umani”, che di per sé rimanda a un’operazione di categorizzazione più generale – una differenziazione che interpella la “natura” del nemico – non estromette i Palestinesi dal mondo dell’umano, ma li colloca in una zona ambigua, sulla soglia dell’animalità. L’antropologia, gli studi postcoloniali e le teorie critiche sulla razza hanno ampiamente dimostrato come questi processi di costruzione discorsiva sostengano l’ideologia razzista che ha trovato somma espressione nella storia coloniale europea. Il discorso razzista poggia sulla gerarchizzazione dei gruppi umani, laddove il gruppo razzizzato è contemporaneamente stigmatizzato e inferiorizzato, ovvero posto in una condizione di dominazione. In uno dei suoi ultimi scritti sul razzismo, Ghassan Hage si sofferma sull’uso delle metafore animali attraverso le quali l’esperienza della differenza si converte in una polarizzazione fra “più animale” e “più umano”: «Cosa ci dice l’immaginario sull’Altro ebreo o musulmano in quanto cane, serpente, iena o lupo, dei razzisti stessi, del loro senso del potere, e della loro disposizione pratica nei confronti dell’altro?» (Hage 2017: 6). Al di là dell’esercizio intellettuale di decostruzione delle categorie razziste, l’antropologo invita ad interrogare la dimensione pratica del razzismo, sottolineando come le metafore animali rimandino non solo a un sistema di classificazione gerarchica, ma anche a una “dichiarazione di intenti”.

La questione dell’“intenzione” intrinseca alla pratica discorsiva del razzismo, è stata peraltro al cuore dell’accusa mossa dal Sudafrica contro Israele presso la Corte di Giustizia Internazionale a gennaio 2024: l’obiettivo della Corte è stato proprio quello di verificare l’“intento genocidiario” delle azioni militari israeliane. L’accusa sudafricana ha portato le dichiarazioni dei più alti esponenti del governo, come quella di Gallant sugli “animali umani”, come prova di un progetto politico volto a “cancellare Gaza”, per citare parte di quelle stesse dichiarazioni (ICJ 2024). L’accusa ha anche dimostrato come il discorso politico così formulato sia stato convertito in una precisa modalità di concepire l’azione militare sul campo, poggiando la propria argomentazione sul materiale video prodotto dagli stessi soldati israeliani e fatto circolare sui social media. Dopo il bombardamento dell’Università Al-Azhar, ad esempio, uno dei soldati si filma davanti alla distruzione del campus mentre sarcasticamente afferma che non ci saranno più ingegneri a Gaza: «C’era una volta un’università a Gaza, ma nella pratica era una scuola per assassini e animali umani».

L’indistinzione fra studenti e “assassini”, civili e “animali umani”, è quindi parte di un processo circolare di produzione di discorsi e pratiche di guerra che si riproducono e si rafforzano vicendevolmente. Se il presidente Netanyahu aveva dichiarato che «questa retorica dei civili inconsapevoli, non coinvolti, è assolutamente falsa. Combatteremo fino a quando non romperemo loro l’osso del collo», e il Ministro del Patrimonio Amichai Eliyahu aveva evocato la bomba nucleare sostenendo che «non esiste una cosa simile a civili non coinvolti [nelle attività di Hamas] a Gaza», i video dei soldati li ritraggono cantare: «Conosciamo il nostro motto: non ci sono persone non coinvolte». Ovvero, tutti i Palestinesi sono bersaglio.

Che queste non siano solo semplici retoriche dovrebbe bastare a dimostrarlo il fatto che dall’inizio della guerra Israele ha bombardato ospedali, scuole, moschee e migliaia di abitazioni, oltre ad aver annientato intere famiglie di diverse generazioni. E proprio sul tentativo di ripristinare l’idea di una distinzione politica fra “civili” e “combattenti”, ovvero di smontare il nesso fra discorso, intenzione e pratica militare (Gewily 2024), si è basata la difesa israeliana, con l’obiettivo di dimostrare la particolare attenzione che il gabinetto di sicurezza ha avuto nei confronti della popolazione civile a Gaza, come l’ordine di evacuare nelle “zone sicure”: attenzione che ha riservato alle autorità israeliane la possibilità di bombardare le stesse persone in fuga, come in questi giorni i rifugiati a Rafah, in una Gaza affamata e già completamente distrutta.

 "fine Area C": sulla dx il DCO (District Coordination Office) israeliano di Betlemme. Il cancello giallo e il cartello rosso indicano il limite dell'area posta sotto giurisdizione israeliana (Area C) nella Cisgiordania occupata.

Fine Area C: sulla dx il DCO (District Coordination Office) israeliano di Betlemme. Il cancello giallo e il cartello rosso indicano il limite dell’area posta sotto giurisdizione israeliana (Area C) nella Cisgiordania occupata (ph. Chiara Pilotto, 2011)

In un celebre articolo pubblicato nel 2006 nel Journal of Genocide Research, l’antropologo australiano Patrick Wolfe ha analizzato come l’eliminazione dei nativi costituisca il principio organizzativo del colonialismo di insediamento (settler colonialism). Pur nella diversità delle sue formazioni storico-politiche (in USA, Canada, Australia, Israele, etc.), il principale interesse del progetto coloniale di insediamento è l’accesso alla terra: il problema della presenza delle popolazioni indigene è una questione di territorialità. In questo senso Wolfe afferma che «l’invasione è una struttura, non un evento» (Wolfe 2006: 388). La distruzione è funzionale alla sostituzione della società nativa con quella dei coloni: demolire, ricostruire, rinominare. Tuttavia, questa dimensione negativa (negante) del settler colonialism, che fa dell’eliminazione dei nativi il proprio principio di organizzazione, si combina al “ritorno” del nativo rimosso come parte strutturante la stessa società settler. La grammatica della razza entra qui in gioco in un modo specifico: per i nativi «where they are is who they are» (Wolfe 2006: 388).

Trattandosi di una costruzione storica e sociale, non è una “razza” a divenire il target specifico della violenza coloniale, ma è il divenire bersaglio di quella violenza a formarla in quanto tale. Per parafrasare Wolfe che cita il caso degli Indiani d’America, si pensa quindi che i Palestinesi vengano spossessati e uccisi non perché sono i proprietari della terra, ma perché sono “animali umani” (variamente identificati come arabi e/o musulmani – non è strano che la variabilità culturale e religiosa della Palestina storica, e in particolare la sua cristianità, siano largamente rimosse da queste rappresentazioni del “nemico”). A partire dal fondamentale lavoro di Edward Said, è oggi ampiamente riconosciuto come queste figure dalla dubbia umanità abbiano nutrito le narrazioni orientaliste della modernità coloniale. Maria, una distinta signora cristiana della classe media di Betlemme, nonché proprietaria dell’appartamento che affittavo mentre ero sul campo, mi raccontava di come i coloni inglesi chiedessero ai Palestinesi di abbassarsi i pantaloni per vedere se avevano la coda. Maria non era nata nella Palestina mandataria, ma la memoria di quei rapporti coloniali le era stata trasmessa dalla sua famiglia e continuava a segnare la sua esperienza presente.   

gabbie e chiavi" (foto mia, 2011): chiavi appese ai tornelli dell'ex porta d'ingresso del campo rifugiati di Dheisheh, sopra la quale c'è scritto "Torneremo". Le chiavi sono il simbolo delle case palestinesi distrutte durante la Nakba.

Gabbie e chiavi: chiavi appese ai tornelli dell’ex porta d’ingresso del campo rifugiati di Dheisheh, sopra la quale c’è scritto “Torneremo”. Le chiavi sono il simbolo delle case palestinesi distrutte durante la Nakba (ph. Chiara Pilotto, 2011).

Se la continuità nel tempo è una delle caratteristiche chiave del colonialismo di insediamento, l’eliminazione dei nativi non si esprime solo attraverso la violenza della frontiera o le uccisioni di massa, ma anche con l’assimilazione culturale. Wolfe sostiene che queste modalità di eliminazione dei nativi non coincidano necessariamente con il genocidio: riprendendone l’etimologia, questa parola esprime l’idea dell’eliminazione fisica dei membri di un gruppo (genos) definito da un’appartenenza che persiste nel tempo. Tuttavia, proprio per la sua continuità nel tempo e i suoi caratteri costitutivi (accesso al territorio e sostituzione dei nativi), l’autore ritiene che il fenomeno del colonialismo di insediamento possa essere considerato un indicatore del rischio di genocidio. Per evidenziare questo rischio, questa possibilità racchiusa nella sua forma specifica, l’autore propone di introdurre il concetto di “genocidio strutturale”: adottando una prospettiva storica possiamo così coglierne il carattere sospeso, invece di identificarlo con un evento isolato nel tempo, e possiamo riconoscere i rapporti concreti fra i diversi modi di eliminazione dei nativi (rimozione spaziale, uccisioni di massa, assimilazione bioculturale). In maniera ottimistica Wolfe conclude sostenendo che, grazie alla specifica dimensione temporale del colonialismo di insediamento, il genocidio strutturale dovrebbe poter essere prevenuto più facilmente rispetto ad altri tipi di genocidio: «dovremmo monitorare le situazioni in cui il colonialismo di insediamento si intensifica» (Wolfe 2006: 403). Alla fine del suo articolo, pubblicato 18 anni fa, l’autore indicava Israele come uno dei più nefasti e significativi casi di questa intensificazione.            

Il 5 novembre 2023 il mio amico Yazan mi ha scritto un messaggio su WhatsApp: «Oggi stavamo raccogliendo le olive nella nostra terra fuori dal muro, sono arrivati i soldati, hanno preso le olive che avevamo raccolto e le hanno buttate, e ci hanno cacciato dalla terra dicendoci che se ci avessero visto un’altra volta lì ci avrebbero portato in prigione». Concludeva con due faccine rosse di rabbia. Ho conosciuto Yazan durante la mia ricerca in Cisgiordania, in una zona fra Betlemme e Gerusalemme che i Palestinesi stessi definiscono “zona ebraica” (maniqa yahūdiyya) perché interamente sottoposta alla giurisdizione israeliana. La terra della famiglia di Yazan è stata confiscata dall’esercito all’inizio della costruzione della cosiddetta “barriera di sicurezza”, il muro che in quel villaggio è un cantiere aperto da 25 anni e lascia ancora accessibile il passaggio dei contadini alle loro terre confiscate, salvo esporli maggiormente alle vessazioni dei soldati: «Porous borders do not offer a way out» (Wolfe 2006: 404). Qualche settimana più tardi Yazan mi ha mandato una foto delle olive al frantoio: «É stato difficile, abbiamo dovuto fare come i ladri». La raccolta delle olive, trasformata dalla legge in una specie di “furto” allo Stato, era riuscita anche grazie ad un gruppo di attivisti israeliani che avevano aiutato la famiglia nel lavoro. La legge israeliana, che nei territori occupati ha l’obiettivo di garantire la sicurezza dei cittadini di Israele, viene applicata sui Palestinesi per legittimare la loro espropriazione e criminalizzazione, minando le basi della sussistenza e della riproduzione sociale. Dopo il 7 ottobre i permessi di lavoro in Israele sono stati sospesi: le famiglie non possono più contare né sui frutti delle proprie terre né sui redditi provenienti dal mercato del lavoro israeliano. In questo stato di dipendenza materiale e di conseguente ricattabilità, i Palestinesi sono così ostaggi del capitalismo razziale dell’economia di guerra israeliana.

manifestazione-20-gennaioPer contestare questa economia di guerra, la diaspora palestinese in Italia ha convocato una manifestazione nazionale il 20 gennaio a Vicenza per protestare contro la presenza di un padiglione israeliano alla Fiera dell’oro, alla quale Israele partecipava come leader mondiale nel commercio dei diamanti. VicenzaOro è una delle vetrine più prestigiose della piccola città veneta, la cui particolarità è anche legata al fatto che ospita ben tre basi americane, da cui sono partiti i soldati per l’Afghanistan e l’Iraq. Da una ventina d’anni Vicenza è al centro di mobilitazioni cittadine che si oppongono alla militarizzazione del territorio, in rete con le proteste contro le basi in altre zone d’Italia. Il movimento vicentino ha risposto alla chiamata dei Palestinesi, e insieme a molte altre realtà collettive ha aderito alla manifestazione, che ha visto la partecipazione di migliaia di persone.

Cosa ci dicono queste convergenze sulla Palestina oggi? Se ci affacciamo fuori da Israele, la corsa agli investimenti nella difesa militare e l’incremento della vendita di armi sembrano oggi scelte scontate nello scenario della guerra globale in cui siamo immerse. “Siamo tutti Palestinesi” non va più forse letto solamente come un motto di solidarietà, ma anche come l’evocazione di un rischio concreto che connette l’eliminazione dei nativi al potere di distruggere l’umanità. «Diremo che è virile non ricordare certe cose quando il bottone deve essere premuto», scriveva De Martino a proposito di questa possibilità radicale: «Vero delitto perfetto che nessuna polizia scoprirà mai, perché avrà cancellato nell’intimo la stessa umanità giudicante ancor prima di distruggerla materialmente nei corpi» (De Martino 1977: 477). 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
Note
[1] Boffey, D., Jones, S., “Israel’s darkest day: the 24 hours of terror that shook the country”, The Guardian, 13/10/2023, https://www.theguardian.com/world/2023/oct/13/israel-darkest-day-24-hours-of-terror-hamas-gaza (questa e le seguenti pagine web riferite alla pubblicazione di articoli online sono state consultate per l’ultima volta il 20/2/2024).
[2] Frantzman, S.J., “Meet the Israeli tank unit that led the way into Gaza”, The Jerusalem Post, 8/2/2024, https://www.jpost.com/israel-hamas-war/article-785772.
[3] Botbol, A., “Israeli reservists, families of hostages hold cross-country march ‘Until victory’”, Israel Today, 5/2/2024, https://www.israeltoday.co.il/read/idf-reservists-families-of-hostages-hold-cross-country-march-until-victory, Hasson, N., Rozovsky, L., “Protests held for, against hostage deal as Israel’s war cabinet discusses Hamas’ cease-fire proposal”, Haaretz, 8/2/2024, https://www.haaretz.com/israel-news/2024-02-08/ty-article/.premium/protests-held-for-against-hostage-deal-as-war-cabinet-discusses-hamas-proposal/0000018d-8a7a-d9cc-a5cd-fffa554c0000.
[4] Staff, T., Fabian, E., “Activists block Gaza aid trucks at Ashdod Port after being barred from border by IDF, The Times of Israel, 1/2/2024, https://www.timesofisrael.com/activists-block-gaza-aid-trucks-at-ashdod-port-after-being-barred-from-border-by-idf.
[5] Nakhoul, S., Mills, A., “Exclusive: Hamas proposes three-stage ceasefire over 135 days, leading to end the war”, Reuters, 7/2/2024, https://www.reuters.com/world/middle-east/hamas-seeks-prisoner-hostage-exchange-withdrawal-israeli-forces-ceasefire-2024-02-07.
[6] Sokol, S., “PM: Absolute victory within reach; surrender to Hamas demands would bring disaster”, The Times of Israel, 7/2/2024, https://www.timesofisrael.com/pm-absolute-victory-within-reach-surrender-to-hamas-demands-would-bring-disaster.
[7] Taub, G., “Israelis won’t stand for anything short of victory in Gaza”, Tablet, 5/2/2024, https://www.tabletmag.com/sections/israel-middle-east/articles/israel-hostages-victory-gaza-war.
[8] Cruciati, C., “L’obiezione di Mitnick: ‘Rifiuto l’uniforme israeliana’”, Il Manifesto, 28/12/2023, https://ilmanifesto.it/lobiezione-di-mitnick-rifiuto-luniforme-israeliana. Si veda anche il gruppo Mesarvot, rete che sostiene gli obiettori e le obiettrici di coscienza in Israele contestando apertamente le politiche di occupazione militare del governo israeliano, https://twitter.com/Mesarvot_.
[9] Order regarding the establishment of a Civilian Administration (Judea and Samaria), Order n. 947, 5742-1981. L’articolo 2 prevede l’istituzione di un’Amministrazione Civile che si occupi degli “affari civili” e delle questioni di “ordine pubblico” nei territori occupati.
[10] Per una dettagliata presentazione del COGAT si veda il sito del governo https://www.gov.il/en/departments/about/aboutcogat.
[11] Maanit, C., Samuels, B., “Palestinian ‘village of Hawara needs to be wiped out’: Israel’s Far-right Finance Minister justifies ‘disproportionate’ response to terrorism”, Haaretz, 1/3/2023, https://www.haaretz.com/israel-news/2023-03-01/ty-article/.premium/palestinian-village-of-hawara-needs-to-be-wiped-out-israels-finance-minister/00000186-9d56-df48-ab96-bd576aac0000.
[12] https://twitter.com/BtSIsrael/status/1630152108535169027.
[13] Sharon, J., “Ben-Gvir says 10,000 assault rifles purchased for civilian security teams”, The Times of Israel, 10/10/2023, https://www.timesofisrael.com/ben-gvir-says-10000-assault-rifles-purchased-for-civilian-security-teams.
[14] Pacchiani, G., “Video shows Israeli extremists assaulting Palestinians in their West Bank homes”, The Times of Israel, 29/11/2023, https://www.timesofisrael.com/video-shows-israeli-extremists-assaulting-palestinians-in-their-west-bank-homes/
[15] Sharon, J., “Palestinian villages abandoned due to settler violence declared closed military zone”, The Times of Israel, 24/12/2023, https://www.timesofisrael.com/palestinian-villages-abandoned-due-to-settler-violence-declared-closed-military-zones.
Riferimenti bibliografici 
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ELSC-BRISMES, 2023, Freedom of Speech and Academic Freedom in UK Higher Education: The Adverse Impact of IHRA Definition of Antisemitism, European Legal Support Center-British Society for Middle Eastern Studies (September 2023). 
Esmeir, S. (2023), “To say and think a life beyond what settler colonialism has made”, Mada Masr, 14/10/2023, https://www.madamasr.com/en/2023/10/14/opinion/u/to-say-and-think-a-life-beyond-what-settler-colonialism-has-made/ 
Gewily, N. (2024), “The Question of Intent: Discourse as evidence in the case against Israel”, Mada Masr, 25/1/2024, https://www.madamasr.com/en/2024/01/25/feature/politics/the-question-of-intent-discourse-as-evidence-in-the-case-against-israel/ 
Hage, G. (2017), Is racism an environmental threat?, Cambridge-Malden, Polity Press. 
ICJ-International Court of Justice, 2024, Public sitting held on Thursday 11 January 2024, at 10 a.m., at the Peace Palace, President Donoghue presiding, in the case concerning “Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide in the Gaza Strip (South Africa v. Israel)”, Verbatim Record, The Hague. 
Kimmerling, B. (2008), Patterns of Militarism in Israel, in Clash of Identities: Explorations in Israeli and Palestinian societies, Columbia, Columbia University Press: 132-153.
Yftachel, O. (1999), “Ethnocracy: The Politics of Judaizing Israel/Palestine”, Constellations, 6, 3: 364-390. 
Wolfe, P. (2006), “Settler colonialism and the elimination of the native”, Journal of Genocide Research, 8, 4: 387-409.

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Chiara Pilotto, (PhD Università di Milano-Bicocca e EHESS-Paris) è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna. Ha svolto ricerche etnografiche in Europa e in Israele/Palestina, dove è stata dottoranda affiliata al Centre de Recherche Français à Jérusalem. Si è occupata di im/mobilità e rifugiati, genere, lavoro e intimità in contesti di violenza politica. Fra le sue diverse pubblicazioni “Between ‘empty words’ and ordinary silences: Palestinians’ secret lives in contemporary Israeli settler colonialism”, Ricerca Folklorica (n. 76, 2021).

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