Così Clifford Geertz, tentando a suo modo di seguire l’invito di Malinowski a “cogliere il punto di vista dei nativi”, sintetizzava uno dei paradossi della ricerca etnografica e, in particolare, della tecnica codificata dal maestro anglo-polacco per conoscere gli universi culturali altri: l’osservazione partecipante. In effetti, a pensarci bene, tutta la storia dell’antropologia può essere letta come il tentativo, messo in atto dai ricercatori appartenenti alle più diverse scuole di pensiero, di scendere a patti con questo paradosso. Da quando, superando lo studio da tavolino tipico dei vittoriani, la ricerca sul campo è diventata, pur con tutti i distinguo del caso (cfr. Matera 2017), la metodologia cardine in antropologia, gli studiosi hanno infatti cercato di disciplinare la loro presenza sul terreno e di approntare gli strumenti più utili alla produzione di conoscenze scientifiche sulle società straniere presso le quali si recano.
La storia è fin troppo nota per ripercorrerla puntualmente e basteranno qui pochi cenni. Nell’Introduzione agli Argonauti del Pacifico Occidentale (1922), inequivocabilmente intitolata Oggetto metodo e fine della ricerca, Bronisław Malinowski formalizzò le regole dell’indagine etnografica tipo: soggiorno prolungato fra gli indigeni (almeno un anno!), apprendimento della lingua locale, rifiuto della compagnia degli altri bianchi in loco (missionari, amministratori, soldati, etc.). L’antropologo, secondo Malinowski, mettendo in gioco tutte le sue doti empatiche, avrebbe dovuto coniugare la piena partecipazione alla vita nativa con l’osservazione distaccata (oggettiva) dei costumi locali: solo così avrebbe potuto «afferrare il punto di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita […] la sua visione del suo mondo» (Malinowski 2004: 49).
Malinowski non fu certo il primo studioso sul terreno; fu, tuttavia, il primo a produrre una sistematica teoria della ricerca di campo, tanto che, dopo di lui, l’osservazione partecipante divenne la tecnica per eccellenza del lavoro etnografico (Malighetti 2000: 67-119). Certo non tutto era lineare come il grande antropologo l’aveva descritto nella sua celebre monografia sui Trobriandesi e, decenni più tardi, Clifford Geertz (1987: 29), con l’arguzia che lo contraddistinse, ebbe gioco facile nel tratteggiare l’impostazione malinowskiana come un approccio alla veni, vidi, vici (“osserva, registra, analizza”). Che la realtà di campo fosse molto più complessa, ad esempio, lo sapeva bene Evans-Pritchard. Egli ne diede una vivida, ancorché timida, immagine nell’Appendice al suo lavoro sugli Azande del 1937 evocando il tour che fece, prima di partire per l’Africa, presso i più importanti antropologi del tempo alla ricerca di suggerimenti utili ad approcciare il terreno. Westermark gli suggerì di non annoiare i suoi interlocutori; Haddon gli disse di comportarsi sempre da gentiluomo; Seligman gli consigliò di prendere dieci grammi di chinino ogni notte e di tenersi lontano dalle donne; Petrie lo invitò a non preoccuparsi delle precarie condizioni igieniche giacché l’organismo vi si abitua presto; Malinowski, infine, gli intimò di non fare mai l’idiota (Evans-Pritchard 2002: 285-286). Evans-Pritchard usò il simpatico aneddoto per sottolineare l’importanza di una solida preparazione teorica di base, tuttavia era assolutamente conscio di come fosse difficile, anche per il ricercatore più esperto, fornire prescrizioni cui attenersi minuziosamente per interagire con i nativi: le tappe per il raggiungimento di un coinvolgimento empatico con l’altro non si potevano certo fissare meccanicamente nei manuali. Restava il fatto, però, che la produzione di un discorso scientifico sull’alterità passava dalla relazione con altri esseri umani.
Quando, nel 1967, furono pubblicati i diari di campo di Malinowski tutta la problematicità dell’esperienza etnografica, sperimentata quotidianamente da decine di antropologi ma taciuta in fase di scrittura e presentazione dei dati, venne allo scoperto. L’eroe culturale, il “camaleonte etnografico”, il “miracolo vivente di empatia” in grado di mettersi nei panni dei nativi (Geertz 1988: 71), infatti, non solo provava enorme nostalgia per l’Europa e preferiva passare gran parte del suo tempo a leggere romanzi o a intrattenersi con altri occidentali, ma si lasciava andare a commenti poco lusinghieri, financo razzisti, verso i Trobriandesi. La tecnica dell’osservazione partecipante, basata sull’empatia etnografica, iniziò così a essere discussa e criticata dalle fondamenta. Clifford Geertz (1987, 1988), rifacendosi al pensiero, tra gli altri, di Weber, Ryle e Kohut e rilevando la dimensione pubblica (osservabile) dei significati, affermò che per cogliere il punto di vista indigeno non era necessario pensare come lui. Jean Pierre Olivier de Sardan (1995), da parte sua, cercò di conservare la formula di Malinowski distinguendo l’«impregnazione» inconscia degli stilemi locali dall’«osservazione», procedimento grazie al quale il ricercatore ordina scientificamente i materiali raccolti. Barbara Tedlock (1991), in piena temperie dialogica, puntò invece l’attenzione sull’«osservazione della partecipazione», cioè sull’analisi delle modalità attraverso le quali l’antropologo entra in rapporto con i suoi interlocutori.
Indipendentemente dalla strada scelta dalle nuove generazioni di studiosi per fondare la conoscenza etnografica, però, il re era rimasto nudo e il concetto di osservazione partecipante mostrava ormai la sua natura ossimorica: più si partecipa, infatti, meno si osserva e viceversa. Come evidenziato da Ugo Fabietti, i diari di Malinowski ponevano allora un enorme dilemma epistemologico: «come facciamo a conoscere un’altra cultura se non è possibile, come appunto dimostrava egli stesso con i suoi appunti segreti, essere empatici in maniera totale?» (Fabietti 1999: 53). Già, come facciamo?
Col suo ultimo volume, In campo aperto. L’antropologo nei legami del mondo edito da Meltemi (2017), Ferdinando Fava s’inserisce in modo originale nello spinoso dibattito sul problema epistemologico in antropologia presentando al lettore italiano l’opera di un semisconosciuto (almeno nel nostro Paese) rivoluzionario ante litteram, Gérard Althabe. Fava si serve del corpus teorico ed etnografico dello studioso francese, anticipatore delle suggestioni interpretative e riflessive, per evidenziare una questione dirimente ma scarsamente indagata (anche dagli antropologi dialogici più oltranzisti): sul terreno, una profonda conoscenza etnografica passa attraverso l’analisi delle strategie messe in atto dai nativi per includere il ricercatore all’interno delle proprie reti di relazioni. A tal fine, i concetti di “implicazione” e di “legame emergente”, elaborati da Althabe durante le sue innumerevoli esperienze di campo (fra i pigmei Baka del Camerun, fra i giovani disoccupati di Brazzaville, nei villaggi rurali del Congo, negli altipiani centrali del Madagascar, nelle città francesi e in quelle della Romania post-comunista), sono usati da Fava per provare a riunire ciò che gli antropologi hanno per troppo tempo tenuto separato: «la relazione interpersonale (e il presente del suo accadere, centrale per realizzare la ricerca)» e il «conoscere prodotto grazie a essa» (Fava 2017: 24).
Fava inizia il suo saggio citando il Sartre della Critica alla ragione dialettica: «La ricerca è un rapporto vivente tra uomini […] il sociologo e il suo oggetto formano una coppia in cui ciascuno deve essere interpretato attraverso l’altro e il cui rapporto stesso deve essere decifrato come un momento della storia». Subito dopo, introduce la domanda cui Althabe, per tutta la sua carriera, ha cercato di rispondere: «Chi sono per i miei interlocutori?» (ivi: 21). La volontà di Fava è chiara fin dall’inizio: nel suo lavoro non c’è spazio per una vetusta immagine positivista della conoscenza; non c’è, cioè, alcun margine per legittimare una netta separazione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto giacché, come suggerisce proprio Sartre, la relazione che lega entrambi è il vero centro nevralgico di ogni indagine sociologica. Allo stesso tempo, però, con Althabe, non si può accettare in toto la vulgata post-modernista e iper-riflessiva che ha attraversato l’antropologia negli ultimi decenni: essa, infatti, se ha avuto il merito di far uscire il sé antropologico dalla trasparenza cui era stato trasfigurato nelle classiche monografie, ha prodotto un fastidioso effetto collaterale rendendolo talmente visibile da occupare tutta la scena etnografica.
Dialogando con la posizione sartriana, la questione posta da Althabe mira a svelare le più profonde dinamiche relazionali di ogni ricerca. «Chi sono per i miei interlocutori?» è dunque una «domanda che rimanda a una identità-in-relazione, ma a un’identità variabile perché ancorata a modi concreti di agire e interagire, che non sono mai fissi, mai stabili, sempre diversi a seconda delle interazioni e delle situazioni sociali in cui gli stessi gesti di ricerca sono posti in essere» (ivi: 25-26). Se è vero che, in origine, l’intenzionalità conoscitiva appartiene all’antropologo che giunge sul campo, è anche vero che i soggetti con i quali si intrattiene non sono figure passive rispetto alle quali egli solo posiziona e riposiziona la sua persona (o, come ormai si suole dire, negozia e rinegozia il proprio ruolo). Anzi, sono proprio loro che, conferendo significato alla sua presenza lì (un significato che per quanto irriducibile a quelli prodotti localmente ne reca comunque traccia), determinano in buona parte l’inserimento dell’etnografo tra le proprie fila fornendogli indirettamente le chiavi di accesso al loro mondo. Continua Fava: «È una domanda la cui linea di fuga è prima di tutto epistemologica, ma che compone anche, proprio per questa sua caratteristica fondante del conoscere antropologico, la dimensione etica, politica e applicativa di quest’ultimo. In essa, in verità, portiamo alla luce la domanda fondatrice della stessa antropologia, la domanda inerente al come gli antropologi conoscono il mondo» (ibidem).
Per meglio chiarire la novità del pensiero di Althabe, tanto rispetto ai positivisti quanto rispetto ai costruttivisti, Fava lo accosta alle riflessioni di alcuni studiosi che hanno affrontato la questione metodologica in sociologia e in antropologia, Raymond Gold e i coniugi Adler (ivi: 39-47). Nel 1958, in un articolo apparso su Social Force, Gold distinse tra ruoli primari e ruoli minori della ricerca sociale: i primi sono funzionali alla raccolta dei dati; i secondi, al contrario, possono aiutare il ricercatore a vivere accanto ai suoi interlocutori (da amico, confidente, collega, seduttore) ma non hanno alcun peso per la sua attività conoscitiva. Gold, ovviamente, accordava il proprio favore ai ruoli primari, gli unici in grado di consentire lo svolgimento dell’attività scientifica del sociologo e diffidava di quelli minori che, sempre passibili di sfuggire al suo controllo, rischiano di trasformarlo in un nativo (going native) inficiando i risultati della sua indagine. I coniugi Adler, al contrario, in un lavoro più recente (1987), si fecero promotori dell’ideale opposto: per loro, il ricercatore doveva diventare un insider che proprio grazie al raggiungimento di un’appartenenza manifesta al gruppo studiato, sforzandosi di assumere un ruolo attivo al suo interno, poteva giungere a conoscere l’universo culturale altro.
Gold e gli Adler, pur portando avanti idee radicalmente diverse, rispondevano in fondo alla stessa domanda: «chi dovrei essere o come devo comportarmi per interagire da ricercatore con le persone che incontro?» (ivi: 49). Rispetto alle loro teorizzazioni, invece, la tesi di Althabe si pone su un altro livello perché, come già accennato, s’interroga sull’identità del ricercatore prodotta dai suoi interlocutori. La risposta a questa domanda è ciò che permette all’antropologo di produrre sapere: «la risposta che colma lo scarto di questa dualità non è immediatamente disponibile e tutta l’indagine si sviluppa attorno a essa e ai suoi mutamenti; l’esplorazione del senso di questa attribuzione renderà possibile la comprensione di quanto è in gioco» (ibidem). Il ricercatore, per Althabe e Fava, «si sa implicato nei rapporti sociali che vuole comprendere, sa che è un attore di essi» (ivi: 62) e assume su di sé il peso di tale “implicazione” per raggiungere la conoscenza che intende perseguire: «lui sa che i processi che producono la sua implicazione nella situazione locale sono gli stessi che caratterizzano e articolano la sociabilità oggetto di studio. Se giunge così a comprendere “chi egli è per le persone con cui interagisce”, arriva a identificare anche i processi che desidera studiare e a conoscere un universo sociale dal suo interno, dal di dentro» (ivi: 64). Ci riesce, cioè, proprio perché diventa un attore interno e «stabilisce un legame emergente che non esisteva prima del suo arrivo e la cui forma è la sua implicazione» (ivi: 88).
Stupisce, a tutta prima, che nel discutere tali aspetti Fava ignori quasi del tutto gran parte dei contributi prodotti dall’antropologia mainstream (interpretativa, dialogica, polifonica, riflessiva) per confrontarsi, piuttosto, con autori in genere poco citati (oltre a Gold e agli Adler, Lourau, Lapassade, Hess, Lederman, Spencer e Davies, McIntyre) e con indirizzi di ricerca solitamente assenti dai testi antropologici (l’analisi istituzionale, ad esempio). Tuttavia, se è valido quanto suggerito in precedenza, questa scelta fuori dal coro alla lunga non sorprende: i diversi turn antropologici, infatti, sono stati alimentati da «una postura riflessiva caratterizzata dall’avere al centro di se stessa solamente la soggettività del ricercatore» (ivi: 113). Essi, cioè, pur avendo opportunamente sdoganato la struttura relazionale del campo etnografico, non hanno veramente discusso l’impianto epistemologico della disciplina accontentandosi, semmai, di attuare mosse eminentemente retoriche.
La situazione di campo, al contrario, è decisamente più fluida, dinamica e interattiva: ogni antropologo che raggiunge il terreno è sempre oggetto egli stesso di una significazione nativa che non riesce mai controllare del tutto, proprio come James Cook al suo arrivo alle Hawaii [1] (ivi: 119-120). Nel processo d’implicazione del ricercatore nel mondo studiato e nel legame emergente che si produce durante l’incontro, si fondono le scelte (sempre nuove e diverse) dell’antropologo e gli speculari processi conoscitivi (sempre nuovi e diversi) messi in atto dagli indigeni. L’esperienza del ricercatore, pertanto, deve lasciar posto alla reciproca interazione tra l’antropologo e i suoi interlocutori: usando l’«implicazione» come chiave di accesso al mondo locale, l’etnografo è in grado di bypassare, oltre al rigido distacco positivista dall’oggetto indagato, tanto le ingenue pretese psicologiste dell’empatica osservazione partecipante quanto le soluzioni di scrittura sperimentale avanzate dai post-modernisti per restituire sulla carta la situazione dialogica (ivi: 138).
Secondo Fava, l’epistemologia interattiva di Althabe ha il merito di tenere sotto controllo i rischi allocronici [2] tipici di certo sguardo etnografico: «il ricercatore si sintonizza sullo spazio-tempo dei suoi interlocutori, cioè in continuità con essi, fa proprio il loro presente diventando contemporaneo al contesto dell’indagine. Egli rinuncia infatti a considerare le proprie pratiche di ricerca come neutre, asettiche, trasparenti, cioè separate dai rapporti sociali oggetto di analisi […]» (Fava 2017: 50).
Fava stesso, d’altra parte, nella sua esperienza nel quartiere ZEN di Palermo, ha avuto modo di sperimentare i ruoli che, di volta in volta, gli sono stati cuciti addosso e ha usato questo continuo riposizionamento (mediato dalla sua identità di ricercatore) per costruire un’antropologia del presente (ivi: 64) e cogliere i significati locali, quelli degli abitanti del rione e quelli degli operatori sociali del Comune che vi lavorano (ivi: 115-134). Proprio nel processo d’«implicazione» e nella formazione del legame emergente, infine, l’epistemologia incontra l’etica e, nell’Epilogo del volume, Fava può affermare la necessità di superare la persistente immagine strumentale della ricerca come mera collezione d’informazioni. A un’etica tutta procedurale (“fai questo, non fare quello”, etc.) della ricerca, «regalo avvelenato dell’adozione inconfessata di una postura scientista che non considera […] cosa sia o cosa debba essere una relazione di campo in ordine alla costruzione di un sapere antropologico critico» (ivi:144), va dunque preferita un’etica nella ricerca che trovi nel suo stesso dispiegarsi come processo relazionale, più che nella sua finalità, il suo bene interno (ivi: 145-146).
Le questioni affrontate nel densissimo lavoro di Fava puntano dritte al cuore dell’odierno dibattitto antropologico e offrono, attraverso il ripescaggio dell’opera di Althabe, un punto di vista innovativo sulla natura della conoscenza antropologica. Forse la trattazione avrebbe beneficiato di una discussione più approfondita e meno sfumata dell’«asimmetria strutturale» (Asad 1973) sempre in gioco nell’incontro etnografico. Resta, inoltre, un po’ in sospeso il problema dell’autorità etnografica, non solo rispetto ai nativi oggetto di studio ma rispetto al mondo scientifico da cui l’antropologo parte e cui, dopo il campo, torna. Quando Fava scrive che, grazie all’analisi dei legami emergenti e dei processi d’implicazione, «la research-question non è formulata prima della comprensione del materiale etnografico» (Fava 2017: 86) o che «essa cambia con il mutare delle situazioni concrete e l’impegno dell’antropologo consiste proprio nel resistere a imbrigliare tale materiale in un ordine fissato anteriormente» (ibidem), sicuramente coglie la variabilità della situazione di campo e lo straniamento che coglie l’antropologo. Tuttavia, allo stesso tempo, sembra non considerare le pre-comprensioni (nel senso a-valutativo di Gadamer) che accompagnano sempre il suo approdo al campo e che inevitabilmente ne orientano lo sguardo.
Ciò detto, il testo di Fava ha l’enorme merito di offrire una stimolante prospettiva a quegli autori lontani da tentazioni (neo)positiviste ma insoddisfatti dalle secche di certo dialogismo antropologico. Geertz (1988: 154), com’è noto, sferzava i riflessivi più incalliti definendoli “ventriloqui etnografici” interessati più a se stessi che all’oggetto indagato. Fava, invece, ci presenta degli strumenti che, se ben affinati, sono in grado di raggiungere un grandissimo livello di profondità interpretativa e sensibilità etico-politica: «la riflessività messa in gioco attraverso la nozione di implicazione non è una introspezione autoreferenziale, ma risulta alla fine epistemologica e politica: senza negare il self dell’antropologo, un tempo tanto trasparente quanto oggi tanto ostruente, la sua riflessività sul campo opera per dare sempre più spazio ai suoi interlocutori, aperta a loro» (Fava 2017: 140-141).
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Note
[1] Come indicato da Fava (2017: 120), Althabe ricorre spesso alla vicenda di James Cook per riferirsi all’esperienza degli antropologi sul campo e all’identità che i nativi attribuiscono loro. Il celebre esploratore britannico, infatti, sperimentò sulla sua pelle il tentativo degli hawaiani di includerlo all’interno della loro storia (cfr. Sahlins 1982).
[2] L’allocronia, secondo Fabian (2001), consiste nel posizionare le società studiate in un tempo altro rispetto al presente di chi produce il discorso antropologico. Essa è il risultato della scissione esperienziale tra il momento etnografico e quello retorico (con i suoi artifici, ad esempio l’uso del “presente etnografico”) e rende manifesto uno dei paradossi della ricerca antropologica: nel tentativo di rendere comprensibile l’alterità pur mantenendone l’estraneità, il ricercatore (il più delle volte inconsapevolmente) finisce spesso con il negare la coevità ai soggetti incontrati sul campo in un regime di contemporaneità.
Riferimenti bibliografici
Asad T. (a cura di), 1973, Anthropology and the Colonial Encounter, Ithaca Press, London.
Evans-Pritchard E. E., 2004, Stregoneria, oracoli e magia fra gli Azande, Raffaello Cortina, Milano (ed. or. 1937).
Fabian J., 2001, Il tempo e gli altri, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli.
Fabietti U., 1999, Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari.
Fava F., 2017, In campo aperto. L’antropologo nei legami del mondo, Meltemi, Milano.
Geertz C., 1987, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna.
Geertz C., 1988, Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna.
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Malighetti R., 2000, Il lavoro etnografico, in Fabietti U., Malighetti R., Matera V., Dal tribale al globale. L’antropologia del mondo contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano.
Malinowski B., 2004, Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Bollati Boringhieri, Torino (ed. or. 1922).
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Olivier de Sardan J. P., 1995, La politique du terrain. Sur la production des donnèes en anthropologie, in Enquête, n. 1: 71-109.
Sahlins M., 1982, Isole di storia. Società e mito nei mari del sud, Einaudi, Milano.
Tedlock B., 1991, From Participant Observation to the Observation of Participation, in Journal of Anthropological Research, n. 47: 69-94.
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.
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