di Enrico Montalbano
«Come folate di vento si muovono le persone. Il vento alza polveri, trasforma, rimodella. Ecco la metafora da cui voglio partire. Un vento passa e ripropone. Ricompone mentre muove. Le migrazioni sono come il vento. Mutano gli assetti, modificano i paesaggi. I paesaggi sono le cose e le persone. Il loro modo di vivere, di pensare. Un cambiamento lento e inevitabile si ripropone» (www.filmvento.blogspot.it).
Quando nel 2012 iniziai questo percorso di scoperta e ricerca di una vicenda umana spesso sottovalutata, quella della migrazione siciliana in Tunisia, queste brevi righe scritte di getto mi diedero la spinta per entrare dentro questa storia attraversandola. Si, perché le storie non si leggono soltanto ma si attraversano. Per me che faccio il documentarista, attraversare significa prima di tutto provare a vivere le storie degli altri entrandoci senza invadere. Farne parte, in qualche modo, è ciò che mi interessa.
La Tunisia è un posto che ho sempre sentito vicino. Sarà perché realmente lo è, vista la poca distanza dalla Sicilia; sarà perché da bambino dalle coste agrigentine, dalla spiaggia, guardavo quell’orizzonte di mare oltre il quale potevo percepire frammenti di un dialogo per me fino ad allora sconosciuto: una terra al di là del mio mondo, un continente con le sue coste e i suoi paesi che si affacciano sul Mediterraneo, luogo millenario di scambi di culture, traffici di merci, campo di battaglia di popoli che nel passato hanno conquistato “l’Isola più ambita”, la Sicilia, strategica per molteplici interessi politici ed economici, oggi contenitore di un enorme patrimonio storico, eredità di dominazioni che si sono susseguite nei secoli.
C’era un “mulunaru” (venditore di angurie) ad Agrigento con la sua capanna in legno e paglia lungo la strada, che puntualmente era una sosta obbligata al ritorno dal mare con la mia famiglia. Eravamo negli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Si comprava da lui una bella anguria rossa e dolce. La sua faccia, come quella di tanti siciliani, era araba, tunisina appunto. Ma anche la sua conformazione fisica, l’asciuttezza e il colore della pelle, il suo modo di fare e atteggiarsi. A volte, con la sua famiglia sedevano all’ombra di un albero e mangiavano l’anguria, come tanti che ho veduto in Tunisia lungo le strade secondarie. Ma lui era agrigentino da generazioni, e non credo avesse questa consapevolezza o potesse eventualmente importargliene più di tanto. Pure mio nonno aveva una faccia araba. I lineamenti, le gestualità, le differenze mi hanno da sempre interessato. La Sicilia d’altronde è stata dominata dagli arabi per diversi secoli, e successivamente altri avvenimenti contribuiranno a mischiare il sangue tra le due rive opposte.
Ho scoperto la storia dei “Siciliani di Tunisia” leggendo un articolo su un giornale che annunciava l’uscita di un libro. Un elenco di dati e statistiche sulla presenza siciliana durante il Protettorato francese, dalle prime partenze appena dopo l’Unità d’Italia fino all’indipendenza tunisina. Una emigrazione durata poco meno di un secolo che ha segnato la storia della Tunisia. Una vicenda umana, politica ed economica in parte dimenticata in Italia, sconosciuta dai più giovani così come dalle nuove generazioni tunisine che si imbarcano dalle coste del loro Paese per compiere un viaggio al contrario verso la Sicilia, sognando un’Europa in grado di dare loro prospettive altre e una vita migliore.
Un breve viaggio di mare, dove le traversate in questi ultimi decenni hanno avuto troppe volte esiti drammatici a causa delle dissennate politiche migratorie dell’Occidente e degli stessi Paesi arabi. Come racconta Fausto Giudice (anche lui siciliano di Tunisia) nel cortometraggio “Kif Kif – Siciliani di Tunisia”, realizzato con Laura Verduci nel 2012 e visibile su Youtube [1], a quel tempo, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si lasciava la Sicilia perché «non c’era più che l’erba del fosso da mangiare». Questa frase mi ha restituito immediatamente un’immagine precisa. La fame, la «disillusione per ciò che non avevano ottenuto», dice ancora Fausto, li spinge a lasciare la propria terra con l’idea di non tornarci più. Per le stesse motivazioni spesso, o per cause diverse, come guerre, persecuzioni religiose o politiche, molti migranti provenienti da tanti Paesi africani giungono oggi nelle coste della Tunisia e della Libia, vivendo esperienze dolorose, terrificanti, traumatizzanti, pronti a fuggire, aggrappati all’ultima possibilità: la speranza. Non sanno cosa succederà, ma sanno che sarà sempre meglio provarci rischiando, fino a sfidare la morte. Quando i siciliani attraversarono il canale di Sicilia non c’erano trafficanti e organizzazioni, si pagava un pescatore per raggiungere in una notte l’altra riva.
Siamo nel 2023 e a distanza di più di cento anni le storie si ripetono, si somigliano tra di loro, al di là delle diverse dinamiche e connotazioni storiche e sociali. Contengono le stesse parole, hanno le stesse voci, gli stessi volti, le stesse lacrime e fatiche. Quando nel 2012 io e Laura siamo partiti per la Tunisia, dopo una prima sommaria ricerca in Italia, tra letture di libri e spunti sul web, ci siamo mossi sue due direzioni temporali: cercare le tracce di quella antica emigrazione siciliana e al contempo spingerci a sud fino al confine libico per raggiungere Shousha Camp, un grande campo profughi (oggi non più esistente) gestito dall’UNHCR, con l’intento di realizzare un reportage sui richiedenti asilo politico che vivono all’interno di una enorme tendopoli ai piedi del deserto:“Shousha Camp – profughi nel deserto tunisino” 2012, visibile su Youtube [2].
Questo alternare tra passato e presente ci porterà ad approfondire la complessa realtà dei flussi migratori per comprenderne le dinamiche e registrare le testimonianze. Due storie diverse ma, come dicevo, legate dalle stesse motivazioni. Da una parte le letture dei libri di Marinette Pendola (anche essa protagonista del cortometraggio sopracitato), che narra del suo bisnonno siciliano fuggito da Sciacca con tutta la famiglia su una piccola barca verso Tunisi perché testimone di un omicidio mafioso, dall’altra la realtà della condizione di chi spera pazientemente di ottenere lo status di rifugiato che gli permetterà di proseguire il viaggio della fortuna con le carte in regola, «per apparire più accettabile e non un pericoloso clandestino».
L’esperienza a Shousha Camp somiglia a una trama di un film d’avventura, poiché per accedervi è necessario intessere una serie di relazioni con diversi mediatori, già alcuni giorni prima, e successivamente improvvisare un dialogo con il check-point dei militari tunisini, comprenderne velocemente le piccole provocazioni, far buon viso a cattivo gioco, rispettare i tempi concessi (30 minuti) per poter filmare, assecondare la guida che ci accompagna su un pick-up che corre velocemente tra le dune di sabbia del campo rendendo complicate le riprese. All’ interno del campo incontriamo persone arrabbiate, disperate, rassegnate, alle quali è stato rifiutato lo status di rifugiato, che denunciano l’UNHCR per aver consentito l’accesso a diversi rappresentanti politici dei Paesi dai quali molti profughi fuggono.
Così una famiglia che ci ospita nella loro tenda, unico rifugio di fronte al nulla, ci racconta della fuga dal loro Paese, della persecuzione religiosa e del razzismo per il colore della pelle, mentre fuori spira un vento fortissimo che cancella i percorsi polverosi e sabbiosi che diventeranno dei veri e propri pantani con l’arrivo delle prime piogge. Per quel poco tempo che ci è concesso guardo e filmo tutto. Un uomo cammina al contrario per affrontare la potenza del vento che lo sospinge. I bambini tutti raffreddati, in preda ad allergie e asma, corrono inventandosi giochi. Si fanno code interminabili per ogni cosa: cibo, docce, ambulatorio. Dentro e fuori il campo si vende di tutto, tra forme diffuse di illegalità e compromessi inevitabili. Per molti di loro, come quella famiglia, non ci sono prospettive, soltanto un limbo, una sospensione, un futuro senza futuro.
La Goulette, il porto di Tunisi, era il primo approdo per i tanti siciliani che notte tempo sbarcavano. Quando ci ritroviamo per quelle strade tra vecchie palazzine coloniali con le persiane e le porte azzurre e dai prospetti decadenti, emerge da ogni angolo un passato lontano, ma non troppo, ricco di attività umane, di lingue diverse che si mescolano, di religioni che si incontrano e si tollerano nel rispetto delle differenze, e talvolta si incrociano nel sincretismo di un sentire religioso. Oggi rimane poco o nulla, «la proiezione di un vecchio film da restaurare».
Mi sono soffermato a guardare, a prendermi il tempo per farlo, senza fretta. Quando, lasciando Tunisi, ci siamo spinti verso le campagne per cercare i resti della casa di Marinette Pendola e della sua famiglia, che in quel viaggio significava scoprire simbolicamente un tesoro, sentivo che stavo entrando dentro una Sicilia che esisteva oltre la Sicilia ma a poca distanza da essa, dentro un paesaggio mediterraneo che cambia radicalmente se ci si sposta più all’interno, fino a diventare desertico. Incontriamo fichi d’india, olivi e vigne, e ci sembra in alcuni tratti di attraversare il paesaggio delle province di Palermo, Trapani, Agrigento. Molti alberi sono stati piantati dai primi emigranti giunti nel Paese nordafricano che da impiegati nelle “ferme” francesi (le fattorie) si si sono emancipati, hanno comprato le terre, creando piccole aziende familiari, assumendo manodopera locale e impiegando i tunisini che abitavano nei villaggi circostanti.
La casa Pendola la troviamo dopo diverse vicissitudini e diversi ritorni a Oued-el-Khadra, dopo aver superato, non senza difficoltà, strade impraticabili e piene di fango. “Eccola finalmente! è quella con le tegole rosse” esclamiamo, distinzione importante, secondo quanto ci raccomanda Marinette, per identificare le vecchie case dei siciliani da quelle arabe senza tetto spiovente. Intorno ne scopriamo di altre che portano nomi e cognomi a noi familiari. Le tegole rosse adesso sono tutte cadute, ma ci sono gli ulivi che il padre aveva piantato. E quando l’anno successivo ritorniamo in Tunisia con Marinette e suo marito Edouard, filmiamo questo “ritorno” nei suoi luoghi natii, perché si torna sempre per riallacciare i legami, per ritrovare le voci: “Marinette torna a casa”, 2013, visibile su Youtube [3].
Il tema del ritorno è un tema vasto che “ritorna” (in questo voluto bisticcio di parole) più volte nella mia esperienza. In “Kif Kif – siciliani di Tunisia”, Marinette al termine dell’intervista dice: «una cultura migrante esiste? Ma non appare da nessuna parte, perché la cultura migrante copre più mondi, è una cultura che fluttua nel vento. L’emigrante lascia, e lascia per sempre, poi trova, ma non trova definitivamente niente». Il ritorno è un atto doloroso come la partenza, e in mezzo c’è un mondo di sofferenze e fatiche, di gioia e dolore, mitigati dalla riuscita o meno di quanto sognato e progettato. Marinette aveva 15 anni quando con la sua famiglia fu costretta a lasciare il suo mondo, la sua campagna tunisina, le mille storie che ogni giorno la sua fantasia di bambina elaborava e che da adulta è divenuta materia prima per i suoi libri.
L’indipendenza tunisina aveva in un sol colpo distrutto tutto ciò che faticosamente quei siciliani avevano costruito in cinquant’anni: si nazionalizzano le terre e gli italiani si ritrovano al punto di partenza, quello dei nonni quando lasciarono la Sicilia per arrivare in questa terra che adesso loro devono abbandonare, una scelta obbligata, come quella di tanti emigranti in cerca di un futuro altrove. L’esodo degli italiani di Tunisia spacca la comunità e le stesse famiglie a loro interno: c’è chi sceglierà la Francia e chi invece l’Italia, la patria d’origine, che scopriranno poi essere un mondo sconosciuto e per molti versi differente dal loro. In Italia, ad “accogliere” questi siciliani “rimpatriati” sono i campi profughi sparsi tra sud e nord, non dissimili, sotto certi aspetti, da quelli istituiti in questi ultimi decenni dai governi italiani ed europei. A partire da ieri fino ai nostri giorni le problematiche sono rimaste pressoché le stesse, riguardano le politiche migratorie adottate dagli Stati e il conseguente trattamento disumano a cui sono sottoposti centinaia di migliaia di uomini, donne, bambini costretti a vivere condizioni oltre l’accettabile. La stampa dell’epoca si occupò di quegli “strani italiani”, ammassati in quei campi e leggendo gli articoli si ha l’impressione di ritrovarsi nell’inferno dell’odierno Hotspot di Lampedusa, tema attuale di un infuocato dibattito.
Tuttavia, malgrado la maggioranza delle famiglie lascerà definitivamente la Tunisia, una parte di quella comunità che si sentiva fortemente radicata è rimasta, specialmente quanti ritengono di poter continuare a lavorare in una rinnovata situazione politica. Jean e Berta Mulè sono tra quelli rimasti, a cui ho dedicato in questi giorni un piccolo ritratto nel breve documentario “Jean e Berta – siciliani di Tunisia”, visibile su Youtube [4]. Parte di questo materiale lo avevo girato nel 2012 ma non era mai stato montato. Fratello e sorella vivevano a Ben Arous, un comune a pochi chilometri da Tunisi. La casa da fuori era diversa dalle altre tutte bianche: aveva il tetto spiovente e le tegole rosse e ocra. Entrare nella loro casa è stato come essere catapultati improvvisamente in un’altra epoca, negli anni ‘50 del secolo scorso. All’interno, per quanto erano presenti alcuni elementi arabi, la casa era come quella delle nostre nonne siciliane. C’era un cortile all’interno, una sorta di piccolo baglio. L’orto di pochi metri quadri, un bel po’ di galline, le uova sempre fresche, tante cose affastellate in mezzo, un tavolaccio con i pomodori ad essiccare, qualche grappolo d’uva penzolante dalla tettoia in canne che faceva quell’ombra ristoratrice nelle giornate afose. Questo piccolo spazio racchiudeva tutta la loro esistenza di contadini. Poi Jean ci ha mostra una cosa di cui andava orgoglioso e che teneva gelosamente custodita all’ombra di un box: era la Fiat 500 che sembrava appena uscita dalla fabbrica.
Quando li incontrammo ciò che più ci colpì fu scoprire che il loro parlare in italiano era fortemente intercalato da un siciliano antico che si mescolava a parole arabe e francesi. Per tutta la vita hanno lavorato la terra per conto di padroni senza mai riuscire a possederne una. Sono racconti semplici di una vita in campagna dove le tradizioni della terra d’origine, il prezioso tesoro che viaggia sempre con l’emigrante, si ritrasformano nello scandire dei rituali quotidiani, dando vita a espressioni e comportamenti nuovi, una contaminazione inevitabile in cui la cucina svolge un ruolo centrale. Nasce una lingua non scritta, il siculo-tunisino, sia nelle zone rurali che a Tunisi.
Le migrazioni sono un Vento che, più o meno forte, porta cambiamenti che si sedimentano e nel tempo trasformano i luoghi e i rapporti sociali. Accade già da tempo specialmente nei grandi centri urbani. Mi interessa osservare la trasformazione di alcune zone del centro storico di Palermo, la città in cui vivo. Molte comunità di stranieri immigrati abitano tra l’Albergheria, il mercato di Ballarò, e il groviglio di stradine che costituiscono l’antico quartiere ebraico del periodo arabo, all’interno del perimetro delle non più esistenti mura della città. È interessante notare come negli ultimi anni parte della via Maqueda, che dalla facoltà di Giurisprudenza arriva fino alla porta ottocentesca (non più esistente) in direzione Stazione Centrale, è ulteriormente mutata fino a somigliare al Corso principale di una città mediterranea, mediorientale e asiatica al tempo stesso, in cui coesistono mondi diversi, gesti, usanze, atteggiamenti, socialità che fino a poco tempo fa era più facile scorgere nei vicoli meno trafficati. Un piccolo spaccato di una trasformazione lenta avvenuta negli anni e poi esplosa nella “pacifica conquista di uno spazio”.
Naturalmente le domande sono tante, e non eludono le problematiche connesse alla condizione sociale nella quale molti stranieri vivono, ai tanti aspetti positivi e negativi che rappresentano e che si intrecciano nella complessa trama sociale ed economica di Palermo, città di attraversamenti da sempre di culture ma anche di diffusa illegalità, di mafia, di arte dell’arrangiarsi, di assenza di visione politica delle istituzioni, dentro un momento storico in cui la paura di un presente-futuro precario e incerto coinvolge le diverse società messe spesso in contrapposizione e competizione da retoriche politico-mediatiche, ma anche da resistenze frutto di pregiudizi che soffiano sul fuoco di nuovi radicalismi, che creano ancora muri fisici, ideologici, religiosi, e che infine nascondono grandi interessi e profitti economici.
Sulla storia della comunità siciliana in Tunisia emergono letture diverse e contrastanti anche tra i protagonisti di quella esperienza, discendenti dei primi arrivati. Spesso prevale la narrazione di una convivenza pacifica e solidale tra le classi più povere di quel tempo, stranieri e tunisini, che sicuramente riguarda il periodo di flussi migratori più intensi tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento quando a sbarcare su quelle coste erano i poveri tra i più poveri. Tuttavia altri sostengono che le differenze negli anni diventarono più marcate, a seconda se si vivesse in aree urbanizzate o nelle zone rurali. Fausto Giudice (sempre in “Kif Kif – siciliani di Tunisia”), cresciuto a Tunisi, parla di una “società compartimentata”, in cui le diverse comunità mantenevano le proprie tradizioni e le proprie regole, in un contesto sociale in cui i tunisini erano gli ultimi della scala sociale, relegati per la maggior parte a vivere dentro le mura della medina. Certamente queste poche righe non bastano a delineare gli aspetti complessi di una comunità e di una società intera, le cui trasformazioni sono strettamente legate anche ai cambiamenti storici e politici che si susseguivano in Europa, che condizionarono in parte le scelte di chi viveva all’interno della colonia.
Una storia affascinante e tragica al tempo stesso è quella di Mario Scalesi, un poeta poco conosciuto ancora oggi in Italia, recentemente rivalutato in Francia. Tunisi sin dai primi anni del Novecento viveva un grande fermento culturale in cui, oltre alle élite francesi, anche una certa classe colta italiana, già presente ben prima del protettorato, partecipava attivamente. La vicenda di Scalesi (1882-1922) è espressione del tentativo di chi vuole affrancarsi dalla miseria e dalla subordinazione. Proveniente da una famiglia povera, per metà siciliana e per l’altra maltese, ha cercato di farsi largo tra gli intellettuali francesi. Fisicamente sofferente a causa di un grave incidente da bambino che lo aveva menomato, si muoveva a fatica tra i vicoli di Tunisi, deriso da folle di bambini che lo insultavano. Mario aveva però le idee chiare: voleva a tutti i costi essere riconosciuto da quei francesi che contavano e che rappresentavano la sua speranza. Il suo progetto riuscì ma ebbe una durata breve come la sua vita. A causa dell’aggravarsi delle condizioni fisiche e psichiche, considerato schizofrenico dai referti medici dell’epoca, fu trasferito a Palermo presso la Real Casa dei Matti della Vignicella dove morì solo e disperato di lì a poco.
Dalle pochissime foto esistenti, quella scattata al momento del ricovero mi ha colpito di più. L’ho guardata tante volte per cercare di stabilire una sorta di contatto, di empatia. Un bel ragazzo, con uno sguardo intelligente, vivo, un volto intrigante. Giovane e scapigliato sogghigna, come a sfidare chi lo ha portato a forza in un luogo a lui sconosciuto. Forse comprende immediatamente che da lì non uscirà più, non vedrà più la sua “Ville Blanche”, Tunisi la città amata. Grida, fa sentire la sua voce, perché lui è un poeta, ma per tutti è soltanto un povero matto da gettare presto in una fossa comune. Le poèmes d’un Maudit (“I poemi di un maledetto”), l’unico libro che raccoglie le sue poesie verrà pubblicato postumo da quei suoi amici letterati francesi di Tunisi che videro nei suoi occhi profondi e scuri e nei suoi versi qualcosa di speciale. Mi piace immaginarlo tra questi passaggi strettissimi dei mercati di Tunisi che per certi versi somigliano ai mercati storici di Palermo, il Capo e Ballarò. Vorrei farci un film, a metà tra documentario e finzione. Scrivevo qualche anno fa in una bozza rimasta sospesa:
«Il racconto del film si snoda attraverso un percorso atipico in cui la vicenda personale e poetica di Scalesi è re-immaginata attraverso “il ritorno sognato” del poeta a Tunisi (desiderio ardente negli ultimi giorni della sua vita nel manicomio di Palermo), che ricerca se stesso attraverso i cambiamenti e la storia recente della Tunisia. Il poeta non si vede, ma se ne avverte costantemente la presenza, come il reporter in cerca di qualcosa su cui costruire un racconto, come il volto stesso dei luoghi vissuti e in fondo non troppo cambiati, come il microfono delle voci dei personaggi disperati che incontra, in cui si riconosce, come l’occasione interrotta di un sogno spezzato.
Gli occhi di Mario scrutano il paesaggio fisico e umano della Tunisia, dei quartieri di Tunisi, si imbattono nelle speranze di chi si imbarca per la Sicilia, (così come al contrario, due secoli prima, fecero i suoi genitori, e migliaia di altri siciliani), cercano i resti della Rivoluzione dei Gelsomini, i sogni infranti e le prospettive sospese, attraversano i muri di periferie spruzzate di vernice, di bit digitali e rabbia, incontrano i loro autori, giovani artisti che resistono, orecchi che si prestano all’ascolto e miscelano i suoni al canto della sua poesia in voice-over dentro strade strettissime, quelle che percorreva cercando di sfuggire alle cattiverie dei monelli che lo irridevano e lo ingiuriavano. Infine bisogna fermarsi in qualche luogo, guardare il mare, sentirlo, scrutarne l’orizzonte, calmarsi».
Non vado in Tunisia da diversi anni e non conosco l’attuale stato delle cose, se non attraverso le informazioni di amici che ci vivono o dalla lettura di articoli più o meno approfonditi. Non sarò certamente io a dire cosa sia la Tunisia oggi, ma certamente posso dire cos’è l’Europa. Anni fa realizzai un breve reportage sull’arrivo a Porto Empedocle delle bare di centinaia di persone affogate nel Mediterraneo il 3 ottobre del 2013, uno dei più grandi naufragi di questo quarto di secolo, che intitolai “Superstiti e bare: il tradimento dell’Europa” [5]. In quella giornata di dolore carica dell’odore di morte che proveniva dalle bare sistemate sul ponte di una nave militare non perfettamente sigillate, scaricate da alcuni muletti industriali e ricaricate su un camion, nella cadenza ritmica e spietata di una ritualità senza vergogna, l’Europa mostrava al mondo intero l’ipocrisia e il volto bieco del tradimento. A distanza di anni le cose non sono cambiate, semmai peggiorate dalla crudeltà e dal cinismo di un’umanità smarrita, perduta, in preda ad angosce e paure.
L’esperienza della comunità siciliana in Tunisia certamente appare come una storia piccola in confronto alla complessità dei massicci movimenti migratori che si spostano oggi da ogni parte del mondo e che incontrano nel loro cammino più muri e fili spinati, più guardie di confine e di polizia, più trafficanti e assassini, più centri di concentramento di carne umana che ancora ci ostiniamo a chiamare d’accoglienza e che di fatto sono immense gabbie dove vengono ammassate persone, qualsiasi sia l’età e il sesso, costretti a vivere nelle peggiori condizioni in nome di leggi e norme che prima o poi la storia condannerà come criminali.
Ma le migrazioni sono come il vento che nessuno può arrestare. Si possono fermare le nuvole? «Vanno, vengono, a volte si fermano…vanno, vengono, ritornano», scriveva De Andrè.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] https://youtu.be/uvr_XJjfW1I?si=NxX4cKPNigebS5x0
[2] https://youtu.be/Jc_ vHHKprrs?si=hCePAUP5PMJ3eQpw
[3] https://youtu.be/ n2tzVxsO3Tg?si= baPrHEr1POmYsr1Z
[4] https://youtu.be/ yG2yjQqtpHc?si= DxwG3jWaFGwUNPMo
[5] : https://youtu.be/ yIl4In3QMvk?si= dfOKJ98C1hAryxFF
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Enrico Montalbano, nato ad Agrigento, vive e lavora a Palermo. Filmmaker e reporter freelance, ha realizzato, tra gli altri, diversi reportage e documentari sulla tematica delle migrazioni. Sulla storia dei Siciliani di Tunisia ha girato alcuni cortometraggi che sono stati selezionati e premiati in svariati festival. Ha collaborato con diverse emittenti televisive italiane e straniere, con testate giornalistiche, realizzando immagini sugli sbarchi, sui centri di accoglienza e sulla raccolta stagionale della manodopera migrante in Sicilia. Ha un canale su youtube dove sono visibili molti lavori realizzati: www.youtube.com/enricomontalbano.
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