di Augusto Cavadi [*]
Oggi siamo propensi ad accettare l’intuizione di Democrito: al posto di “atomi” scriviamo corpuscoli, onde o stringhe, ma riteniamo che la stoffa dell’universo sia omologa per minerali, piante, animali. Tuttavia non è agevole scacciare il sospetto che sia rilevante non solo il ‘cosa’ ma anche il ‘come’: per riprendere il bistrattato Aristotele, non solo la ‘materia’ ma anche la ‘forma’, la struttura, l’organizzazione interna. Nell’uso quotidiano adoperiamo con leggerezza superficiale il verbo ‘essere’ dimenticando che si tratta di un termine intrinsecamente analogo: “In questa stanza ci sono un tavolo, due piante, un gatto e due persone”. Ci sono: ma l’essere si dice pollakòs (in molti modi). È la constatazione fenomenologica più s-pregiudicata a mostrarci come l’azione, il comportamento, l’interazione con l’ambiente… di un tavolo non siano esattamente identici all’azione, al comportamento, all’interazione con l’ambiente… di una pianta; né di un gatto; né di una persona. Le modalità d’essere in tutti questi casi hanno molto in comune, ma molto altro ancora di differente.
Come esprimere linguisticamente questa articolazione di piani ontologici? Tra le molte possibilità se ne potrebbe adottare una: tutti gli essenti siamo, ma alcuni stanno, sus-sistono, in-sistono; altri e-sistono. Ex-sistere è emergere, eccedere, rispetto al mero essere-qua o essere-là. So bene che non è facile individuare il principio che rende possibile tale ex-sistenza , ma questa difficoltà teoretica non giustifica la soppressione della questione. Una conferma ce l’ha offerta la vicenda dell’esistenzialismo: pensatori teologicamente connotati (come Kierkegaard e Marcel), e pensatori di diverso orientamento (come Jaspers, Heidegger e soprattutto Sartre) si sono trovati concordi nel sostenere l’irriducibilità della e-sistenza al piano della semplice presenza.
a) E-sistere come “privilegio” e come “condanna”
Visitare questo orizzonte teoretico ci impone, o per lo meno suggerisce, alcuni paradossi. Il primo dei quali è che nascere come e-sistenti è un privilegio e una condanna. Un privilegio perché ci è consentito attivare un processo di consapevolezza di sé e del mondo circostante che è la radice di quel poco di libertà che possiamo sperimentare in vita. È solo grazie alla distanza (potenziale) fra la mia mente e la mia condizione corporea, familiare, sociale… che posso assumere, rinnegare o adattare tale condizione data. È solo perché e-sisto che posso fare antropologia culturale: sia perché senza questa auto-trascendenza non ci sarebbe un soggetto in grado di narrare (come dall’alto) l’animale culturale che siamo, sia – più radicalmente – perché senza questa auto-trascendenza mancherebbe l’oggetto: non ci sarebbe, infatti, un animale culturale da narrare.
Ma e-sistere è anche una condanna. La pianta può realizzarsi quietamente come pianta, e probabilmente anche la mia gattina come gattina, se si limita a stare, sus-sistere, in-sistere: ma a un nato-per-esistere è precluso di vivere come una pianta o un altro animale. “Sei un broccolo! Non fare il maiale!”: affermazioni efficaci sul piano retorico-performativo, ma scorrette semanticamente. Un e-sistente, per quanti sforzi possa fare, non sarà mai semplicemente, serenamente, un vegetale o un suino: sarà un imitatore dei vegetali o dei suini, ne mimerà il comportamento senza poterlo davvero riprodurre. Ammesso che un e-sistente riesca a vivere, da solo o in branco, come un lupo nella foresta – una possibilità su cui solo storici e antropologi culturali possono informare noi filosofi – sarà, comunque, un lupo per scelta: vivrà la condizione naturale come effetto di una (continua) opzione culturale.
b) E-sistere come “compito”
Privilegio e condanna, insieme, e-sistere è in ogni caso un “compito”. In un certo senso, il compito del nato-per-esistere. La maggior parte dei mortali svolge questo compito in maniera inconsapevole affidandosi per lo più a due coordinate principali: la tradizione (passato) e la maggioranza (presente). Ci sono poi altri soggetti che, pur consapevoli della tradizione e della maggioranza dei contemporanei, vogliono evitare di restarne prigionieri; vogliono inventare modi originali di e-sistere; vogliono affacciarsi al futuro. Per tentare tutto questo non possono procedere a caso, ma devono attrezzarsi: imparare una tecnica che, alla latina, sarebbe un’arte.
c) Come chiamare l’arte di e-sistere?
Nella storia delle civiltà sono state proposte categorie numerose: l’educazione (paideia), la saggezza, la religione, la filosofia, l’etica, la morale…Ciascuna di queste proposte presenta vantaggi e svantaggi. Nell’attesa di una proposta più convincente, senza contro-indicazioni o con contro-indicazioni limitate, mi sono convinto che – nel contesto linguistico contemporaneo – il semantema meno inadeguato potrebbe essere “spiritualità”. So bene che il vocabolo evoca concezioni incomplete o addirittura fuorvianti, ma proprio l’esame di alcuni frequenti malintesi può aiutarci a evidenziare le accezioni semantiche migliori.
Chi nomina la spiritualità spesso pensa a una dimensione meta-materiale, meta-corporea. Ma lo spirito è tale in quanto influssa una carne, la permea e la vivifica: una spiritualità autentica, lungi dall’adagiarsi sui dualismi ontologici e antropologici, ne sanziona il superamento definitivo.
Una vita spirituale, come non può dunque essere sessuofobica, schizzinosa, così non può essere individualistica, intimistica. Secondo Hegel, addirittura, è solo nel “noi” collettivo, sociale, che si manifesta lo spirito in quanto tale. Senza necessariamente aderire al suo collettivismo, non possiamo comunque limitare la spiritualità alla sfera interiore del soggetto: silenzio, raccoglimento, concentrazione sono indispensabili quanto insufficienti. L’apertura all’altro, la relazionalità, sono altrettanto costitutive: senza di esse la dimensione spirituale non ha modo di esercitarsi né di esternarsi.
Né spiritualismi unilaterali, dunque, né solipsismi autistici: ancor meno parassitismi. La persona davvero spirituale, integralmente spirituale, avverte l’esigenza di lasciare un segno nella storia, di fecondare la natura e la società con la propria azione: si pensi soltanto all’insistenza dell’idealista Platone sulla necessità di “procreare nel bello” o mettendo al mondo figli mortali o, più ancora, opere (tendenzialmente) immortali.
Spiritualità equivale, insomma, alla formula di Martha Nussbaum circa la “fioritura della persona”: tanto più esistenza spirituale quanto più si attualizzano le proprie potenzialità umane. Un’esistenza spirituale è un’esistenza consapevole, critica rispetto a sé e al contesto sociale, memore del passato ma attenta al presente e proiettata sul futuro, aperta ai godimenti fisici e psichici ma pronta ad affrontare sofferenze proprie e altrui. Nel mio Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova, antichissima spiritualità (2015) ho cercato di articolare, e dettagliare, i lineamenti essenziali di una spiritualità autentica. La proposta di denominare “spiritualità” l’arte d’e-sistere origina dal desiderio di chiarire che essa non può non avere caratteri di “laicità” e di “polifonicità”.
Di laicità perché designa una costellazione di atteggiamenti condivisibili e praticabili, anzi auspicabili, dalle donne e dagli uomini di ogni area del pianeta e di ogni orientamento culturale: per individuarli e tematizzarli basterebbe esercitare, in un’ottica di confronto comunitario, la ragionevolezza non offuscata da eccessivi egoismi. Designa una sorta di galateo universale, di grammatica elementare: là dove una simile base di vita spirituale difetta, è lecito dubitare di chi avverte sentimenti religiosi o di chi professa, addirittura, una fede in senso confessionale. No, senza una “spiritualità” laica, “religiosità” e “religione” degenerano in superstizione e in fondamentalismo.
Di polifonicità: una vita spirituale, in senso laico, non può autointerpretarsi come definita, conchiusa. Costitutivamente parziale, cerca stimoli e integrazioni per correggersi, purificarsi, ampliarsi, approfondirsi: quasi uno strumento musicale consapevole di quanto possa essere valorizzato se inserito in una logica orchestrale. Nessuna tradizione spirituale del mondo può illudersi di essere la spiritualità umana: ognuna è piuttosto un piccolo corso d’acqua che porta in sé molto fango e qualche pietra preziosa. Chi si riconosce all’interno di una di queste tradizioni (l’induismo, il buddhismo, la filosofia greca, l’ebraismo, il cristianesimo, l’islamismo, il liberalismo, il socialismo…) ha il compito, dunque, di attivare un’auto-critica, di rinnegare il fango, di recuperare la propria pietra preziosa e di metterla a disposizione di una sintesi (per quanto provvisoria) planetaria. La spiritualità, come arte dell’e-esistere, non è alle nostre spalle. Né, pronta-da-portare, in qualche angolo del nostro presente. È piuttosto l’u-topia che dà senso alla nostra ricerca, intellettuale ed esperienziale, individuale e collettiva.