di Sergio Todesco
Nel quadro Nuvole a Venezia, un olio del 2012 di Giovanni Iudice, pittore siciliano di rara maestria, viene raffigurato un barcone di migranti che percorre il Canal Grande. Il realismo magico del quadro coniuga la contemporaneità delle migrazioni con un paesaggio metafisico che si nutre di citazioni colte come le vedute di Canaletto. Arrivati in quel luogo quei disperati chissà da dove, ma miracolosamente in procinto di approdare in quelle plaghe, forse dall’alto guidati dalla figura numinosa della quale scorgiamo i soli piedi che fanno capolino dalle nuvole che danno il titolo al dipinto. Noi sappiamo che quell’approdo non ha avuto né avrà mai luogo, che mai alcun barcone potrà giungere a percorrere quella via fluviale, troppo lontana essa si trova dalle ormai tristi rotte della migrazione nel Mediterraneo. Ma su quella medesima via d’acqua barconi di ben più ampia stazza transitano da decenni, senza che la cosa abbia destato scandalo o ripulsa negli amministratori di questa città e (fatti salvi recenti timidi provvedimenti legislativi) nel governo del Paese.
Venezia è oggi infatti la testimonianza vivente di come l’Occidente Eurocolto, il cui regime capitalistico dominante è ormai da decenni impantanato nel tunnel dello “sviluppo senza progresso”, abbia elevato a propria duplice regola il favorire, l’incoraggiare e il proteggere il nomadismo dei ricchi e al contempo l’impedire, lo scoraggiare e il contrastare il nomadismo dei poveri.
Su Venezia sono venuti ad aggrumarsi negli ultimi decenni problematiche connesse alla globalizzazione e all’incremento del turismo di massa, alla gentrificazione e alla conseguente perdita di aura di luoghi che un tempo ne erano dotati, alla radicale mutazione di un angolo di mondo che da territorio fortemente connotato sotto il profilo sociale si è trasformato in non-luogo per il fatto di essersi ridotto a mercato a cielo aperto e rete diffusa e tentacolare di esercizi ristorativi, strutture ricettive e d’intrattenimento tutte poste a servizio di flussi turistici di dimensioni inaudite.
Alcuni anni fa ho scoperto che il mio ceppo ha una storia antica. Una studiosa francese, Patricia Bourcillier, ha pubblicato un volume di 480 pagine, La Mémoire Oubliée des Todesco, nel quale si ricostruisce la storia dei Todesco, di origine cimbra, dall’epoca carolingia fino al XX secolo, scoprendo che alla fine del ’400 un ramo di essi si impiantò in Veneto, a Solagna, da dove si sparse in molti centri della Repubblica Veneta, in particolare nei cosiddetti Sette Comuni. Figlio di padre veneto nato a Marostica, riporto tale notizia non per mero orgoglio familistico ma per affermare il mio attaccamento, seppur da lontano, a quella che considero dopo la Sicilia una mia seconda patria.
Detto questo, affermo che non mi riconosco nel Veneto che avvenimenti degli ultimi anni hanno portato alla ribalta mediatica. Su Venezia si sono in realtà, da sempre, esercitate retoriche in misura maggiore di quanto sia avvenuto per la maggior parte delle città italiane. Forse solo Roma e Napoli riescono a tenerle testa sotto tale fattispecie.
In questa sede mi limiterò a tracciare, più che un excursus coerente e ragionato, una sorta di mappa sentimentale di scarso valore scientifico ma gratificante per chi come me, che l’ho conosciuta negli oltre sessant’anni di sporadiche ma intense frequentazioni, ha sempre colto di Venezia l’aspetto fiabesco collegato alla bellezza dei suoi angoli, ai misteri e ai silenzi delle sue calli, vedendone poi nel corso del tempo sfumare progressivamente l’aura a vantaggio di paesaggi mercantili analoghi ai tanti altri ormai osservabili nel resto del mondo.
Mi rifarò quindi a suggestioni letterarie, cinematografiche, musicali, fotografiche, e a qualche ricordo personale, valevoli tutti a ricomporre l’articolato mosaico di ciò che Venezia è stata per me.
Da dove partire? Forse dalla letteratura e dal cinema, dal patetico Gustav von Aschenbach de La Morte a Venezia di Thomas Mann, splendidamente messo in pellicola da Luchino Visconti, del quale mi rimane impressa, più che la passione per l’efebo Tadzio, il triste suo spegnersi da animale morente al Lido mentre sul volto pallido di cerone cola la tintura con la quale egli aveva inteso costruirsi una nuova giovinezza; o la Venezia orrorifica e medianica del film A Venezia…un dicembre rosso shocking, nel quale la città diviene teatro del dramma di una coppia; o la Venezia fascista e sensuale de La chiave, tratta da un romanzo di Tanizaki, in cui le ossessioni erotiche coltivate da un anziano storico dell’arte sulla vivace sua consorte trovano un loro esito luttuoso, non a caso coincidente con la dichiarazione mussoliniana di entrata in guerra; o la Venezia decadente e malinconica, perciò romantica, di Anonimo veneziano, in cui il morituro Enrico decide di condividere la propria condizione con la moglie ormai da lui separata; o la Venezia onirica e trasgressiva del Casanova di Federico Fellini, in cui la città viene vissuta dall’avventuriero come teatro di imprese eroiche e alchemiche, oltre che essere vagheggiata in sogno.
Il carnevale veneziano, al quale non ho mai partecipato, mi è sempre apparso un formidabile evento comunitario che un tempo permetteva alla società locale di decostruirsi periodicamente attraverso il mascheramento, l’inversione dei ruoli e il benefico caos prodotto dall’anonimato. Ho come l’impressione, da quanto scorgo da anni sui media, che l’evento abbia in qualche modo smarrito quelle dinamiche tradizionali consegnandosi al gossip imposto dalla società dello spettacolo.
Assai diverse sono le suggestioni che mi provengono da altre narrazioni. Nella Favola di Venezia di Hugo Pratt, per esempio, la città ritorna a essere un luogo degli incantamenti, un dedalo pronto a rivelare a ogni sua svolta il dischiudersi di porte che sortiscono esperienze di alterità:
«Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti. Uno in Calle de l’amor dei Amici, un secondo vicino al Ponte de le Maravegie, un terzo in Calle dei Marrani, nei pressi di San Geremia in Ghetto Vecchio. Quando i veneziani (qualche volta anche i maltesi) sono stanchi delle autorità costituite, vanno in questi tre luoghi segreti e, aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie» (Favola di Venezia, 1977).
Lo stesso mistero, gli stessi silenzi, le medesime possibilità di meraviglia descritte da Pratt io le ritrovo nelle straordinarie immagini di cortili e angoli veneziani realizzate da un caro amico fotografo ormai scomparso, Ugo Maccà, il cui rigoroso bianco e nero riesce a trasmettere un senso dei luoghi che la città chiassosa e mercantile credo abbia ormai smarrito.
Lo stesso senso dei luoghi credo di aver vissuto anch’io, oltre cinquant’anni fa, allorché aggirandomi per i labirinti veneziani, in Calle de la Mandola scopersi una piccola libreria antiquaria nella quale acquistai il primo fascinoso volume della fascinosa Collana di Studi Religiosi ed Esoterici Laterza che solo decenni dopo sarei riuscito a completare in tutti i suoi centocinquanta testi. Ed emozioni analoghe mi procurò la visita al Cimitero di San Michele, da me raggiunto per la sua particolarità insulare ma aggirandomi nei cui viali mi imbattei nelle tombe di Ezra Pound, di Franco Basaglia, di Igor Stravinskij…
Cosa è rimasta di quella Venezia? Tornato dopo una trentina d’anni in Calle de la Mandola la libreria era scomparsa, e iniziavo a misurare gli effetti di una gentrificazione progressiva che avrebbe fatalmente prodotto la dissoluzione di piccoli esercizi, di botteghe artigianali, di bettole e luoghi di ristoro, non tutti certo scomparsi ma, in qualche modo, fattisi diversi, “incartati” a beneficio di un’utenza vorace, composta più da turisti mordiefuggi che da viaggiatori curiosi e appassionati.
Certo, esistono ancora il Lido con la sua Biennale del Cinema, il Museo Guggenheim con i suoi capolavori, la Biennale d’Arte e tanti altri luoghi della cultura “ufficiale”. Riesce forse difficile trovare tracce di una cultura locale che possa ancora dirsi genuina e non spuria, per usare termini resi noti da Edward Sapir.
Un poeta dei nostri tempi, Francesco De Gregori, pare aver colto anche lui questa sorta di mutazione antropologica della città in un brano (Miracolo a Venezia) del quale non saprei se apprezzare più la musica o le parole:
Venezia sta sull’acqua, manda cattivo odore
La radio e i giornalisti dicono sempre “Venezia muore”
Cadono tutte le stelle, si spengono una a una
E sembrano caramelle che si sciolgono nella laguna
Cadono tutte le stelle, tu lasciale cadere
Lascia che si nascondano, se non le vuoi vedere
Venezia sta sull’acqua e piano piano muore
Il cielo sopra le fabbriche cambia colore
Le nuvole sono fumo sopra a Marghera
Dove non c’è nessuno, nessuno esce la sera
Mentre al lido davanti al cinema pastori ed operai
Fanno a gara su quelle gondole che non avevano preso mai
E navigano fino all’Africa senza motore
Tanto poi finisce il cinema e ricomincia il rumore
Venezia sta sull’acqua e muore piano piano
Un uomo sotto il cappotto nasconde un coltello e un geranio
Galleggiano i nostri cuori come isole per la via
Venezia, luogo comune della malinconia…
(Qui il link del brano: https://www.youtube.com/watch?v=rd04usJmeIs)
È stato lo stesso De Gregori a riproporre alcuni anni fa, insieme alla grande Giovanna Marini, quella struggente O Venezia che sei la più bella, canzone risorgimentale nella cui ultima strofa pare adombrarsi un sogno di unità d’Italia. Un sogno tristemente contraddetto da quanti oggi sono tornati a sognare l’Italia di due secoli fa!
O Venezia che sei la più bella
e te di Mantova che sei la più forte
gira l’acqua d’intorno alle porte
sarà difficile poterti pigliar.
L’altra notte entrando in Venezia
vedevo il sangue scorreva per terra
e i feriti sul campo di guerra
e tutto il popolo gridava pietà.
O Venezia ti vuoi maritare
ma per marito ti daremo Ancona
e per dote le chiavi di Roma
e per anello le onde del mar…
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).
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