Nelle mie chiose a Pagella, settima lassa di Testamento [1], cercavo per quanto possibile di individuarne in dettaglio la materia autobiografica (disseminata a piene mani in tutto il libro), rilevandone insieme la costruzione ad anello, aperta e chiusa sulla figura materna. Per decifrare l’epilogo, dove questa figura è appesa a «l’esile penna» e ai «metri ultimi elaborandi», mi ero avvalso di una lettera a Salvatore Spinelli (5 marzo 1949), dove Pizzuto annuncia di trovarsi a Palermo per i funerali della madre, Maria Amico, aggiungendo: «Appena una quindicina di giorni fa scrisse la Sua ultima poesia, incompiuta, che ti copierò e manderò. | Aveva 85 anni» [2].
Mi era parso pacifico associare questa «ultima poesia, incompiuta» ai «metri ultimi elaborandi» di Pagella, e di attribuire quindi alla voce di Maria Amico i lacerti lirici che vi fanno seguito: lo «Scendiamo a valle» (ribattuto da un «A valle. Scendiamo a valle») e soprattutto la sognante clausola «al verde lume dei campi» (musicalmente introdotta da un insolito punto fermo). La mia congettura sembrava perfetta, anche alla luce dei pochi versi conosciuti di Maria Amico (se ne parlerà più avanti), di certi suoi stilemi, e in particolare dell’incipit di Macchietta dal vero («Tra l’ampio azzurro, fra ’l verde dei monti»), prossimo al tono di quel cursus. Tutto sembrava tornare. Ma a questo mondo, disse il poeta, «nulla è mai davvero come sembra | ma almeno sette volte più complesso» [3]. Così un bel giorno il mio ingegnoso castello cartaceo crolla, come suol dirsi, rovinosamente al suolo. Accade quando mi avviene di compulsare, per una diversa ricerca, le Elegie ericine di Ugo Antonio Amico [4], padre di Maria Amico e nonno di Antonio Pizzuto, e di avere un sussulto dinanzi al diciannovesimo dei venti sonetti senza titolo che formano la raccolta. Lo trascrivo, ricordandone la dotta epigrafe («Ad gelidas fontes, ad amoeni jugera campi. – Pamph. Saxi, Carm.»):
Scendiamo a valle. A questi albori, al verde
Lume dei campi, amor laggiù ne invita;
Sente la fiamma de la nuova vita
L’alta foresta, e ’l tronco suo rinverde.
Quello che agli occhi appar, quel che si perde
Inno è di pace: e canta, in sé romita,
La colligiana, e per l’erta fiorita
Ne vola il suono e ’l zefiro lo sperde.
Laggiù fresch’ombre e lucidi zampilli,
E murmuri, e susurri e innamorati
Augei fugaci, e mare ampio, azzurrino.
Scendiamo a valle. Oh! possano i tranquilli
Silenzj, e l’aër dolce, a nuovi, ’ngrati
Dolor sottrarmi, a l’ira del destino.
Dunque, la mia ipotesi si dimostrava erronea. Dunque, battersi il petto. Dunque, affrettarsi a ritrattare, con tante scuse per l’abbaglio: è quel che mi affretto a fare in questa accogliente sede. Ma con qualche postilla che, lungi dal giustificarmi, si propone di collocare l’errore in una cornice, per così dire, di più ampia verità. Certo, i versi sono senza dubbio del nonno; e per di più il prelievo è esatto, anche nella reiterazione di quel «Scendiamo a valle» che nel sonetto transita dalla quartina iniziale all’ultima terzina, facendo sulle prime pensare che Pizzuto li abbia avuti sul tavolo, pronti per l’uso, e che la decisione di assegnarli alla madre, anziché al loro legittimo autore, non facesse per lui che rafforzare la temperatura emotiva del passo, riunendo in un unico afflato due persone profondamente amate (e largamente onorate nelle sue opere). Ma non è detto che le cose siano andate proprio in questa maniera. Alla pagina 130 del manoscritto originale del libro, che conserva tutte le lezioni che precedono il testo ne varietur destinato alla stampa, si legge una prima stesura, cassata, del brano, che recita «Andiamo a valle, al verde lume dei campi». Non è quindi da escludere che Pizzuto, in mancanza del libro, abbia convocato un remoto ricordo, di cui la mutazione da «Andiamo» a «Scendiamo» costituirebbe, diciamo così, la variante. Ora la memoria di Pizzuto era leggendaria (Contini dice che aveva «una salute di ferro»)[5], e non è affatto improbabile che i versi del nonno, letti o ascoltati a non molta distanza dalla loro pubblicazione, potessero affiorargli, via via precisandosi, dopo così tanti anni. Ma il fatto è che questo favoloso recupero, se di questo si tratta, non implica necessariamente che Pizzuto fosse in grado di stabilirne con certezza l’autore.
Il fatto è che Pizzuto fu allevato in una casa (quella, mitica, del palazzo Di Napoli, ai Quattro Canti) in cui la poesia era decisamente di casa. La coltivava pubblicamente, anche in ambiti ‘ufficiali’ [6], Ugo Antonio Amico, protagonista della vita culturale palermitana del secondo Ottocento (ma si era formato nel Seminario di Mazara): insegnante in varie scuole secondarie e (negli anni 1892-1912) libero docente di letteratura italiana all’Università di Palermo, pedagogista, cultore di tradizioni popolari, traduttore di classici, corrispondente, fra gli altri, di Giosuè Carducci, Luigi Settembrini, Niccolò Tommaseo, Alessandro D’Ancona, Guido Mazzoni, Mario Rapisardi. La coltivava in privato, talvolta affidandola a esigue edizioni non venali, sua figlia Maria. La coltivò, almeno fino all’adolescenza, con «odi o sonetti nessuno senza l’emistichio “il mio giardino”»[7], lo stesso Pizzuto, anche in forza del fatto che a «mesi 22 e giorni 5» era stato senza saperlo promosso autore (dal nonno «che parla a nome del nepote»), con il nome de plume (o, piuttosto, ‘implume’) di «Bebè», del seguente sonetto Per la solennità onomastica del dottor Giuseppe Pitrè [8] (sì, il celebre antropologo):
Mi disser che, serpendo atro malore
Nelle viscere mie, tu m’hai salvato;
Penso a una voce, che dicea: «Dottore,
Questo figliuolo mio, guardi, è malato!»
Or volgi gli occhi: mi rallegra il fiore
Di salute le guance, io son rinato:
Io dei parenti miei sono l’amore,
E nel bacio di loro io son beato.
A te grazie, Dottor, a te che sai
Ridare i figli ai genitor dolenti,
E in allegrezza mutar pene e guai.
Ed oggi, a te augurando, e non invano,
Io batto le manine, e grido: o genti,
Onorate l’altissimo Sicano.
Tra parentesi, quell’emergenza sanitaria rimase negli annali di famiglia. Pizzuto ne farà un delizioso quadretto di Si riparano bambole (dove l’«atro malore» viene chiamato «febbre infettiva»), restituendo, dopo l’inconsapevole e incolpevole omaggio in versi, un sapido profilo del suo ‘salvatore’:
«La febbre. Il medico di famiglia aveva baffoni grigi in giù, sguardo torvo. Niente di arrendevole in lui; mai sazio di quanto gli spalancassero le bocche, finiva col reclamare il cucchiaio per abbassare la lingua. Quello era il terrore» [9].
La poesia era dunque «di casa» anche perché spesso e volentieri fioriva come prolungamento degli intimi affetti e delle più calde amicizie. Pizzuto ne fu ‘vittima’, non solo nell’occasione appena descritta, ma addirittura alla nascita, festeggiata in un cartoncino di quattro facciate [10], In Antoninum Pizzuto et Amico pridie idus majas MDCCCXCIII natum Epigramma, con forbiti versi latini di Emanuele Armaforte a specchio di quelli italiani dovuti a Ugo Antonio Amico:
Quale sul verde margo, ove discende
Trepida l’acqua, a la stagion novella,
Suole tenera rosa aprir sue foglie;
Così ’l tuo puro viso, or che a la vita
T’affacci, di beltà cara fiorisce,
Blanda gioja a la madre, e al genitore
Cuoricino d’amor, vaga pupilla.
Liban dai tuoi dolcissimi labruzzi
E baci e baci i tuoi parenti, assai
Più che del miele ibleo baci soavi;
Né mai festanti, da la rosea cuna
S’allontanano mai, o che tu pianga,
Fanciul dolce, o vagisca. Il ciel benigno
Possa farti felice; e tuoi compagni
Sïen sempre le gioje, e ’l riso, e amore.
Un indicativo florilegio di questa produzione ‘domestica’ è offerto dai Canti dell’anima di Maria Pizzuto Amico, stampati per le «Nozze D’Alia-Pitrè – XX aprile 1904» (il matrimonio di Maria Pitrè, figlia del «dottore», la «Maria mia», ricordata nell’affettuosa premessa) [11] e in gran parte votati a scene familiari. Versi vivaci e ben scritti, con le ‘buone maniere’ che il bieco Novecento si incaricherà di travolgere, ma fatalmente convenzionali, già d’antan prima ancora d’esser licenziati. Vi trovano posto il «nido pigolante e pauroso», minacciato dal «nibbio insidïoso» che «piomba, e dà di becco!» (Alla fontana), il natìo paesaggio di Erice, con i «corimbi, e i verdeggianti | Rami che serpon su per le ruine» (Ad un ramo d’edera), la «chiesetta | Dell’antico villaggio» (Macchietta dal vero), la «poverella dalla guancia emunta» (Impressioni), i «profumati petali d’un fiore», «l’alma, avvinta da secreta pena» (Così, che darà a sua volta il titolo a un romanzo di Pizzuto) [12], e persino una manierata «Imitazione dal Francese» (Se tu il volessi!). E vi fanno spicco i trepidi bozzetti dei figli colti nelle piccole evenienze della vita quotidiana, come in Nevica!» («È tanto freddo, dicono i bambini»), in Ai miei bambini che dormono («L’aurata | Chioma, a la bimba mia, casca fluente | Sul guanciale; la mano abbandonata | L’altro ha sul petto del fratel dormente»), in I miei bambini studiano («Il mio grandetto [cioè Pizzuto] inteso a le parole, | Cerca aggettivi e nomi: ’l fratellino | Scarabocchia le sillabe, le sole | Ch’or ora apprese, e mette all’i il puntino. || Sopra un foglio di carta la piccina | segna, in azzurro, innumeri fregacci»), un amoroso Ritratto del babbo («Fronte aperta, serena, ove il pensiero | Nettamente si svela: occhio azzurrino, | Rosea guancia gentil, bel naso, altero | Viso, che sprezza l’onta del destino»), l’affranto Pel genetliaco del Babbo, concepito «Dell’alma Roma entro a le antiche mura» e fermato sul rammarico di una separazione sofferta («Ahi! Son lontana! E senza te nel pianto | Vivo e sto così muta e così mesta… | Perché viver non è se non t’ho accanto»), il premuroso auspicio per l’amica pianista (Ad Anna Sofia Amoroso) [13]: «Creatura gentile, che dei suoni | Chiudi in petto la vergine armonia»; «Segui: corri il cammino ove ti chiama | L’onor dell’arte: se ti sprona amore | Non puoi fallire a glorïosa fama!». Ma il pezzo forte della collezione resta per noi Uccellino cattivo!, alessandrini a rima non a caso baciata, diretti in epigrafe «A Baby mio lontano» (sempre il nostro Pizzuto), e non a caso ricordati in Si riparano bambole [14]:
Chiusa nel mio pensiero, dalla muta stanzetta
Guardo cader la pioggia che col fresco m’alletta;
Ché dopo tanta arsura, viene a bagnar la terra
Per avvivare i fiori, che ’l suo seno rinserra.
Quando, sulla grondaja, vicino alla finestra
Posa un vago augelletto, bruno dall’ala destra.
Pulisce il roseo becco, ed arriccia le piume
Secondo il caro, bello, civettuolo costume.
Della pioggia, che ingrossa, egli non ha paura,
Non s’accorge che l’aria si fa sempre più scura…
Lo guardo e chiedo: Augello, volando fra l’azzurro
Hai sentito, per l’aere, qualche vago susurro?
Qualche mite saluto, soffocato dal pianto
Del mio picciol tesoro, che non vedo da tanto?
Cui sempre penso e chiamo con segreto desio
Dal giorno che, baciandomi, disse: Mammina, addio?
Hai visto, dietro i vetri, un visetto gentile,
Un nasino imperioso, un occhio assai simile
A quei che gli angioletti hanno dipinti in chiesa,
Lo dico senza vanto, né per recare offesa,
Il visetto, domando, era lieto o dolente?
Guardava a questa parte, o vagava nel niente?
Vedendo te, augelletto, sì destro nel volare,
Dimmi: ti disse forse, che mi volea baciare?
Ti disse che, da tanto, non mi vede e m’abbraccia;
Che vuole sul mio seno nascondere la faccia?
Ti disse che, fra i baci, le carezze del core,
Mi cerca sempre, sempre, con costanza ed ardore?
Ti disse quel che ha fatto, stando da me lontano,
Da me che, con lo sguardo, l’ho ricercato invano?
Se, leggendo o giocando a fare il soldatino,
Ha posato lo schioppo, per venirmi vicino?
T’ha detto forse, voglio la cara mamma mia…
Oh! dimmelo, cattivo, non ten volare via…
Ma l’uccellino è intento a beccare, a beccare
Non si volge, né muove la testa per guardare…
Egli pensa che ha fretta di andare alla nidiata,
Ove la beccatina è con ansia aspettata…
Becca, ribecca, drizza l’aluccia, e via sen vola…
Uccellino cattivo! tu mi hai lasciata sola!
Ugo Antonio Amico non era da meno; era anzi il precursore e il modello di questa innocua ‘perversione’. Anche a scorrere le sole Elegie ericine, la predominanza delle res familiares salta subito all’occhio, a partire dal sonetto d’esordio, che rimpiange la «felice | Età, quando le mie voglie moleste | Con carezze acquetò la genitrice», e ne evoca le sante parole («Sospirando dicea: Frena quest’ire, | Così tormenti di tua madre il core… | Figliuolo mio, così mi fai morire»), proseguendo con l’epicedio del «fratel mio» (il cognato Rocco La Russa caduto in una battaglia garibaldina: «E tu prode tra i forti | Muori! Bell’è morir nel campo, quando | Vivere in servitù val mille morti»), con la «Casa del padre mio», dove «è la mia madre | Che a sé mi vuole, e in mezzo a le sorelle | Vien, battendo le palme, il vecchio padre», fino al ‘ritratto di famiglia’, dove trovano posto le figlie Bice e Stella, tristi per l’assenza di Maria andata sposa: «ella ne l’amor del suo Giovanni | Gode, e tra il verde di montana villa | C’invita de le pergole a l’ombria», e alla poesia epilogale, consacrata ai «figli» e alla «dolce consorte»: «Voi de la vita mia siete ghirlanda! | E così dal piacer l’anima è vinta | Che in mezzo a voi saria dolce la morte!». Vi si aggiunga l’amorevole plaquette allestita per lo sposalizio di Maria [15], suddivisa fra la traduzione in endecasillabi sciolti di un frammento dall’Africa del Petrarca (Siface) e due apposite poesie, la prima delle quali, un sonetto, si conclude: «Pur, divisa da me, non sarai sola; | Perché lassù, per quella piaggia aprica | L’anima mia ti segue, o mia figliuola» [16].
E non era da meno il figlio e «nepote», di cui rimane una coppia di eleganti sonetti, probabilmente vergati in età non adulta, anche se imprecisabile (guarda caso «Festeggiandosi l’onomastico della Poetessa Maria madre del Poeta Baby»), e ben ripartiti fra un Pensiero del figlio e una Risposta a lui delle rose in cui lo ‘stile di famiglia’ impera sovrano, dalla prima quartina del primo («Ti saluti il bel sol ridente e d’oro | ne l’aura settembrina intiepidita, | e brilli come ’l sol questa tua vita | sì fatta di virtuoso almo decoro») al microfono argutamente offerto, nel secondo, ai fiori donati: «Figliuol, noi siam sei trepide sorelle | che il vivo sole e ’l dì lieto sorprese; | portaci a Lei, è gentil, le rondinelle | ci hanno beccate con le alucce stese!» [17]. A queste antiche imprese sarà ricondotto l’autobiografico Pofi di Si riparano bambole, quando, costretto, a «denari contati, e avaruccio altresì», a un regalo di nozze, si risolve a «comporre un acrostico, un sonetto acrostico per gli sposi»:
«Anna e Giovanni, ma erano tredici lettere. Orbene, gli bastava aggiungere una d alla congiunzione, invertire i nomi, Giovanni ed Anna, e venivano fuori tutti quattordici versi. Svelto egli si fece venire un po’ di estro, incominciò con Gaudio sovran. Li trascrisse su buona carta, in rosso ben grandi le iniziali, e con ragionevole spesa si beccò un pranzo».
Per inciso, l’autoironica ripetizione di questa consuetudine ‘tribale’ non fa qui che confermarne la persistenza: i nomi degli sposi di cui si parla sono quelli del figlio e della nuora di Pizzuto, unitisi in matrimonio durante la composizione del libro e quindi vivi referenti sia del ricercato «sonetto acrostico» che dell’episodio in cui si incastona. Persistenza che si dirama in certe prestazioni di Pizzuto narratore, ad esempio in Vaud [18], ‘inno’ all’ospitalità dell’amica Madeleine Santschi, o in Tre case [19], ‘ringraziamento’ per un felice soggiorno milanese.
Potrei continuare. Ma è chiaro che siamo in presenza di un singolare consorzio, certo diverso dalla Dead Poets Society di L’attimo fuggente, ma ugualmente solidale, ugualmente devoto a una liturgia trasmessa di generazione in generazione (e officiata a suo modo anche dalla figlia di Pizzuto) [20].Una pratica assidua, che è sì un retaggio di certo Ottocento (quello che celebrava il culto dell’eterna bellezza, che adornava di eletti pensieri i fogli d’album, che venerava biblioteche e musei, che si riuniva intorno a un pianoforte per ascoltare romanze del Tosti o arie di Francesco Cavalli) [21], ma che ha anche, come si è avvertito, un aspetto mitemente ‘patologico’. Un’ex allieva di Ugo Antonio Amico ricorda:
«dopo una lunga carriera di insegnamento conforme da un anno all’altro ancora gli si velava la voce di commozione se mormorava: Chiare, fresche e dolci acque; gli si riempivano gli occhi di lacrime quando un’allieva dalla voce argentina iniziava il canto dantesco: La gloria di colui che tutto move» [22].
Lacrime che Pizzuto, erede e complice di questa sensiblerie (di cui fu testimone Gianfranco Contini) [23], si vide forse spargere sulla cartellina in cui incideva il finale di Pagella. Nel loro eloquio obsoleto, nella candida fede che li impregna, quei poveri frammenti erano le sue madeleines, facevano prodigiosamente rifiorire per lui, e per lui solo, tutto un mondo scomparso, tutta la perduta felicità della sua belle époque ormai travolta dal Tempo. E a questo punto l’attribuzione di quei versi ‘ritrovati’ importa poco. Quel che importa è che le modeste, adorabili spoglie sono i ‘nomi tutelari’ di un dolcissimo viaggio, la ‘discesa’ che lo ricongiunge ai suoi poeti morti. In questa penombra il poeta vivo, e già virtualmente morto nel suo Testamento, le ricompone. Leggiamo:
«Nelle deserte stanze ancor attardavano i più pazienti o gli svisti minimi suoi beni, non pur potesse tornare ella a riprenderseli, tal palmata rosta, l’esile penna, i metri ultimi elaborandi: Scendiamo a valle, pagella malcontenta, interrotta, incerta, ripresa. Quell’inchiostro violetto. A valle. Scendiamo a valle. Sì oscuro. Germinale. Tegnente. Postumo. al verde lume dei campi» [24].
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Vd. Antonio Pizzuto, Testamento, commento di Antonio Pane, Firenze, Polistampa, 2009: 177-185.
[2] Vd. Antonio Pizzuto – Salvatore Spinelli, Ho scritto un libro… Lettere 1929-1949, a cura di Antonio Pane, introduzione di Lucio Zinna, Palermo, Nuova Ipsa («Scrittura mediterranea»), 2001: 182.
[3] Lo stupendo finale di Al Figlio, (in Alessandro Fo, Corpuscolo, presentazione di Maurizio Bettini, Torino, Einaudi, 2004: 104).
[4] Ugo Antonio Amico, Elegie ericine, Firenze, Tipografia di G. Barbèra, 1892 (pp. non numerate).
[5] Vd. Antonio Pizzuto, Ultime e Penultime, edizione critica di Gualberto Alvino, Nota per l’ultimo Pizzuto di Gianfranco Contini, Napoli, Cronopio («tessere»), 2001: 275.
[6] Fra i molti versi celebrativi, l’ode Alla maestà di Margherita di Savoia. Nella solenne premiazione delle scuole femminili. 8 gennaro 1881 e l’inno A Vittorio Emmanuele re d’Italia.
[7] Vd. Antonio Pizzuto, Sul ponte di Avignone, a cura di Antonio Pane, postfazione di Rosalba Galvagno, Firenze, Polistampa, 2004: 6.
[8] Cartoncino a stampa conservato dalla Biblioteca Nazionale di Palermo (oggi Biblioteca centrale della Regione siciliana «Alberto Bombace»), con la scritta «Dono della famiglia Amico 1938»).
[9] Vd. Antonio Pizzuto, Si riparano bambole, a cura di Gualberto Alvino, Palermo, Sellerio («La memoria»), 2001: 29-30 (la citazione: 29).
[10] Conservato presso la Fondazione Antonio Pizzuto.
[11] Maria Pizzuto Amico, Canti dell’anima, Palermo, Tip. C. Sciarrino già Puccio, 1904 (pp. senza numerazione), conservato dalla Biblioteca Comunale «Carvini» di Erice. Uno dei testi, il sonetto Ave Maria, fu ristampato, dai figli «Baby, Ugo, Nelly», in un cartoncino in memoria della madre scomparsa (conservato fra le carte di Salvatore Spinelli). Di lei sopravvivono anche la poesia augurale, Parlano i fiori…, impressa, con la data «10 giugno ’907», per gli sposi Rosina Pitrè ed Enrico Bonanno (conservata dalla Biblioteca Comunale di Palermo) e l’ode saffica, anepigrafa, per l’«Ordinazione Sacerdotale» di Padre Antonino Franco Carmelitano, impressa con la data «12 giugno 1910» (conservata dalla Biblioteca Comunale «Carvini» di Erice), entrambe senza indicazione della tipografia.
[12] Antonio Pizzuto, Così, a cura di Antonio Pane, Firenze, Polistampa, 1998.
[13] Che sarà commemorata anche dal figlio. Vd. Antonio Pizzuto, Si riparano bambole, cit.: 21 («Ad Anna Sofia, la pianista che conosceva ogni cosa su Rubinstain e Sciuma, ma era ignara di certi fatti o non se ne interessava, tutto fu susurrato all’orecchio»).
[14] Vd. Antonio Pizzuto, Si riparano bambole, cit.: 62 («Ella scriveva bei versi. La lontananza da Pofi le ispirava piccole elegie, come quella dell’uccellino cattivo, posatosi tra i gerani in finestra, ma sordo alle domande sul figlio, e poi alle premure di recargli un messaggio, volandosene senza ascoltarlo via») e 109 («Sei una poetessa, oh se mi hai fatto piangere con l’uccellino cattivo»).
[15] Con la dedica «A Maria Amico | nel giorno faustissimo | delle sue nozze | Coll’Avv. Giovanni Pizzuto Viola | i genitori e le sorelle | questa memoria | consacrano».
[16] Il dono, stampato a Palermo, Tipografia dello Statuto, senza anno di pubblicazione, reca tuttavia la fausta data «I. GIUGNO MDCCCLXXXIX» (è conservato dalla Biblioteca Nazionale di Palermo).
[17] Vd. Antonio Pizzuto, Due sonetti infantili, in «La taverna di Auerbach», n. 2-3-4, 1988, numero monografico su Pizzuto a cura di Gualberto Alvino: 104-105.
[18] Vd. Antonio Pizzuto, Vaud «Paragone – Letteratura», a. XX, n. 238, dicembre 1969: 102-104. Ora in Antonio Pizzuto, Narrare. Tutti i racconti, a cura di Antonio Pane, postfazione di Gabriele Frasca, Napoli, Cronopio («lingue»), 1999: 81-84.
[19] Vd. Antonio Pizzuto, Ultime e Penultime, cit.: 67.
[20] Con i versi di Assòlo di tromba, prefazione di Marino Piazzolla, disegni di Giovanni Omiccioli, Bologna, Cappelli, 1955, e di 999, con un saggio di Gualberto Alvino, fotografie di Nosrat Panahi Nejad, Palermo, Nuova graphicadue, 1999.
[21] Vd. Antonio Pizzuto, Ravenna, a cura di Antonio Pane, postfazione di Giancarlo Alfano, con una testimonianza di Andrea Camilleri, Firenze, Polistampa, 2002: 139 («oh tutto il bel canto del nostro seicento, e Caldara e Cavalli»). In una lettera inedita a Salvatore Spinelli (14 agosto 1967) Pizzuto scrive: «ti rammenti di queste nostre ariette? quando me ne sonavi qualcuna? quello “Spesso vibra” di Salvator Rosa con tutte quelle terzine meticolose, via via fino all ff. E Caldara, la Caccini, Francesco Cavalli, Alessandro Scarlatti, il nostro carissimo Pergolesi, Danza, Già il sole dal Gange, Chi vuol la zingarella, etc. etc.?».
[22] Vd. Amalia Bordiga, Carducci e Ugo Antonio Amico, «Giornale di Sicilia», 28 agosto 1956: 3.
[23] «L’ho visto ascoltar musica, e si dibatteva come in preda all’orgasmo, in senso tecnico! Non so, l’ho visto ascoltare Beethoven, torcendosi. La sua partecipazione era veramente viscerale», in Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Milano, Mondadori, 1989: 41. Maria Pizzuto mi ha riferito di pianti dirotti, irrefrenabili del padre durante letture, pubbliche e private, delle sue pagine.
[24] Antonio Pizzuto, Testamento, cit.: 46.
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
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