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Communauté terrestre: Achille Mbembe fra nostalgia del limite e mito

9782348072383di Francesco Azzarello 

Premessa. Narcisismo e immagine: da Mbembe a Byung-Chul Han 

Qualche mese fa un noto politico italiano di calibro nazionale ha raccontato le bellezze di un edificio storico palermitano di epoca araba che stava visitando con un lungo video girato sul momento e postato su una rete sociale delle tante. Non mi sognerei di parlarne in questa sede se non per due ragioni. La prima: l’autore del video (probabilmente su incarico del politico stesso) ha scelto una focalizzazione narrativa insolita nel genere, già variopinto, della divulgazione turistico–artistica: primo piano del politico, di profilo, mentre guarda (presumibilmente) l’edificio e lo descrive. In tutto il video l’edificio non si vede mai, il volto del politico sempre [1].

La seconda: questo video mi è tornato in mente mentre mi confrontavo con il saggio Brutalisme (2020, che consulto in ebook per cui non potrò fornire il numero di pagina nelle citazioni) del filosofo e storico del colonialismo Achille Mbembe, dedicato insieme ad altri due volumi (La communauté terrestre, 2023 e Politiques de l’inimitié, 2016, anche questi consultati in ebook) agli aspetti più eccessivi, problematici e forse letali della globalizzazione (p.es. il perdurare di logiche coloniali e razziste, la crisi climatica con le sue conseguenze) e alle strategie per venirne a capo. Come riassume lo stesso Mbembe nella premessa all’ultimo volume della trilogia: «Le but de cette trilogie était de proposer, à partir de l’Afrique, une saisie intelligible des principales forces de transformation du vivant à l’âge de la planétarisation». In questo articolo vorrei discutere un aspetto della proposta di Mbembe – in particolare l’invito a noi occidentali a confrontarci con i miti cosmogonici ancestrali dogon e bambara – insieme alla questione del limite in ambito culturale. 

Il video del politico mi è tornato in mente leggendo questa frase: «Aujourd’hui, la sphère publique est devenue le lieu où le sujet s’efforce de faire son autoportrait». Le infinite histoires de soi che riempiono il web (effetto di un narcisismo di massa che arricchisce i pochi che ne rendono possibile l’articolarsi) ridurrebbero secondo il filosofo la sfera pubblica a uno degli spazi di espressione del privato [2]. Le conseguenze di questo eccesso del privato nel pubblico le tira, fra molti altri, il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han, che lo considera parte di un’altra crisi, globale anche questa e ugualmente drammatica: la crisi della narrazione. Afferma questi infatti, sottolineando al riguardo il ruolo degli smartphones: 

«Lo smartphone accelera l’espulsione dell’altro. È uno specchio digitale che porta a un ripristino post–infantile dello stadio dello specchio. Grazie allo smartphone, rimaniamo allo stadio dello specchio, che tiene in piedi un Io immaginario. Il digitale sottopone la triade lacaniana di reale, immaginario e simbolico a una ristrutturazione radicale. Decostruisce il reale ed elimina, a favore dell’immaginario, il simbolico, che incarna valori e norme comunitarie. Il risultato finale è l’erosione della comunità» (2023: 71, trad. mia). 

A magnificare l’Io minimizzando l’Altro (rendendoci sordi alle narrazioni degli altri e incapaci di produrne di nostre) sarebbero insomma i nostri stessi sguardi. Gli occhi puntati sullo schermo segnalano tanto l’attenzione verso il virtuale che la disattenzione verso il reale, ma dietro a entrambi gli atteggiamenti c’è la non–disponibilità e – prima o poi l’incapacità, assicura lo psicanalista e lamenta il filosofo – ad ascoltare l’altro e i simboli che sta mettendo in fila per noi [3]. Messe così le cose la sfera pubblica più che ritirarsi davanti agli eccessi elettronici del privato, si è semplicemente dileguata. Oppure sono i nostri occhi che non ne vedono più la sussistenza o l’opportunità. 

71-rqs-ltol-_ac_uf10001000_ql80_Lo sguardo non puntato su di sé o sui propri pensieri, continua Byung–Chul Han, fa sempre meno parte dei nostri gesti quotidiani: «La scomparsa dello sguardo va di pari passo con la crescente narcisizzazione della percezione. Il narcisismo elimina lo sguardo, cioè l’Altro, a favore dell’immagine speculare immaginaria.» (ivi: 70 trad. mia). Che genere d’immagine restituisce lo specchio? Quella di un Io ipertrofico ma vuoto, o meglio impoverito, privo dell’Altro, perché in fondo radicalmente incapace di quella attenzione, di quella fiducia originaria (Urvertrauen) che chi ascolta (piuttosto che guardarsi continuamente in uno specchio) presta all’essere umano che gli/le sta narrando qualcosa; caratteristica umana di lungo corso, patrimonio acquisito dalla specie sin da quando abbiamo preso a raccontarci storie intorno a un fuoco [4]. Lo specchio (elettronico) ci restituirebbe insomma l’immagine di un Io che poco o nulla sa che farsene della sfera pubblica (pur frequentandola non riesce a vederla), che è sempre più capace di ri–raccontarsi ossessivamente, ma sempre meno di comunità e cultura. E di futuro.

Ma come fa qualcuno (che la teoria postula incapace di simboli) a raccontarsi a qualcun altro (fosse pure a se stesso o a miliardi di anonimi) senza un minimo semiotico condiviso di lingue, artefatti, valori, forme…? E come è possibile neutralizzare del tutto la propria tendenza latente (tutto sommato inevitabile da un punto di vista biologico) a continuare a svilupparsi? Le osservazioni del filosofo tedesco–coreano potrebbero forse risultare a lume di buon senso suggestive ma in fin dei conti un po’ esagerate, interessanti ma prive di solidità storica. Ammessa una certa perplessità è tuttavia possibile tornare a percepirne il giusto peso riprendendo in mano Mbembe: questo assoggettamento culturicida di ogni narrazione al mero dominio dell’ego avrebbe – avverte il filosofo camerunese (che se pensa a Lacan non lo dice) – per strumento linguistico d’elezione l’immagine (cui Lacan attribuisce, com’è noto, un ruolo fondamentale nella costruzione dell’Ideal–Ich [5], l’io immaginario che si vuole diventare, tipico dello stadio dello specchio). Mbembe si riferisce in particolare all’immagine del corpo: quello gaudente del vincitore o quello sofferente della vittima. Un corpo che (e qui Mbembe si rifà esplicitamente allo psicanalista Éric Laurent) per esistere, essere visto e conosciuto (ed è almeno il corpo, insieme al mezzo elettronico con le sue consuetudini, il minimo semiotico condiviso che rende incisive le affermazioni di Byung-Chul Han), deve essere messo in immagine, circuiti cognitivi inclusi: vedere, comprendere, pensare o appunto descrivere quel che vede (come nel video del politico). E visto che il corpo è il primo mezzo di comunicazione che pratichiamo e che un corpo reale ce l’abbiamo tutti (e che molti di noi abbiamo superato lo stadio dello specchio), tutti siamo in grado di comprendere quel che pare succeda a un suo simulacro su un mezzo elettronico. Ma cosa stiamo guardando realmente?

Le nuove tecnologie dell’immagine, com’è noto, rendono possibile modificare o trasportare un’oggetto-immagine. Si può insomma estrapolare un oggetto fatto immagine (o una sua parte), p.es. un volto, e astrarlo dal suo contesto figurativo originale per mostrarlo in sé e/o in altro contesto, facendo apparire p.es. la faccia di qualcuno su un corpo di elefante o di gnomo, o su quello di un’altra persona ecc. [6]. Mbembe ne desume che l’immagine del corpo–immagine è separabile non solo da una comunità e da una cultura incapaci di narrare alcunché ma persino dal suo stesso soggetto, tendendo chi si autorappresenta a presentarsi sempre nuovo/a fino a stravolgersi del tutto.

Nell’impotenza generale di fronte alle sfide globali la vera funzione dell’immagine non sarebbe allora quella di rappresentare un ego elefantiaco (capace di superare qualsiasi difficoltà) ma quella di testimoniare l’esserci di quel-che-si-percepisce-guardandola, lêtre–là du ça, l’esserci dell’es. Un es narcisista (corpo-immagine scisso dalla sua comunità e dal suo stesso soggetto) privo di qualunque super-io (e di qualsiasi altro supporto storico o altro richiamo alla coerenza e alla non-contraddizione) che regoli la divisione fra ciò che è e ciò che (non) si vuole o (non) si può apparire. Es che rinvia dunque – prosegue Mbembe – a delle pulsioni ormai libere dalla benché minima necessità di censura. Lo spazio pubblico dell’immagine (privata) diventa così il ricettacolo pronto a tutto (le trou) di ogni sorta di desideri, anche delle peggiori pulsioni di un corpo che oggi più che non esserci qui e ora o non esserci ancora (o non esserci in modo ordinato, direbbe Lacan), in un certo senso non c’è più.

L’esistenza dell’Io-corpo-immagine (talmente privata da non aver mai bisogno di incarnarsi) si articola socialmente: a) non solo in un comprensibile rifiuto delle responsabilità (l’agentività, l’efficacia di individui e attori di piccolo taglio, come gli Stati-nazione, sono molto basse rispetto alle grandi sfide globali); b) ma anche nella brutale e narcisistica eliminazione di ogni mediazione fra il politico e il pulsionale [7].

In uno dei momenti più drammatici della storia umana e planetaria, nell’era dell’iperpotenza tecnologica, sui nostri schermi si svolge un non-dialogo che rasenta la schizofrenia: al narcisismo rinunciatario di un’élite ridotta all’impotenza, che non credendo più in se stessa svende pomposamente il proprio autoritratto, risponde quello omologo nella forma e fatalista nella sostanza dei più. Sulla soglia della rete nulla sembra più possibile, nulla significa qualcosa, tranne l’eccesso. Con queste premesse ogni misfatto (genocidio, guerra, abuso…) dopo una breve riflessione viene serenamente assolto [8]. 

9782348057496Quel che resta del limite

Ma se le storie muoiono, se la politica perde la bussola, la cultura scompare insieme a una società disorientata e in crisi di fiducia, se scompare persino il corpo che rinvia a un soggetto vero e proprio… cosa resta a noi poveri umani per ritrovare la salute psichica e, possibilmente, non rassegnarci alla violenza, all’ingiustizia e all’estinzione? A leggere i due autori che sto discutendo, resterebbe, in fondo, la nostalgia del limite: Byung–Chul Han, constatando la crisi narrativa di una comunità sempre più erosa dalla progressiva espulsione dell’Altro, identifica il limite nell’Altro che non c’è; Mbembe, dal canto suo, alla ricerca di un’etica (foriera di una politica) per un futuro comune, di fronte alla pratica narcisista dell’autorappresentazione sfrenata, osserva (di certo pensando a Nietzsche) che non c’è più alcun limite vero se non quello effimero della tecnica (limite tecnico, non posto da una voce), che nella rappresentazione di sé attraverso la produzione di immagini digitali (parole incluse ovviamente) viene continuamente superato [9].

Entrambi gli autori parlano dell’era planetaria digitale contemporanea ma sanno bene che l’Io si vuole illimitato già da molto prima dell’avvento del World Wide Web (o dell’Illuminismo o del Rinascimento) anche se soltanto adesso è in grado di raggiungere il proprio sogno teologico-politico (comunicida, suicida e cosmicida) di potenza e immortalità: secondo Mbembe il corpo-immagine narcisista si trasfigura su uno schermo tattile in corpo luminoso, incapace di e disinteressato a qualsiasi realtà–narrazione se non quella di sé stesso. Cosa c’è di nuovo allora sotto il sole? Ben poco: sui nostri telefoni, sui nostri tablet e nei nostri cuori circolano, in fondo, nostalgie e sogni millenari [10].

Ora: senza voler sminuire né la portata dell’impatto che le nuove tecnologie digitali hanno sul nostro tempo sfrenato (Mbembe parla al riguardo, credo correttamente, di double du monde) le tendenze individualiste-narcisiste (ma a mio modo di vedere non necessariamente culturicide [11]) della nostra contemporaneità occidentale; perseguendo lo stesso fine di Mbembe (cominciare a delineare un’etica per un futuro comune), mi sembra ragionevole iniziare a riflettere – prima di valutare la proposta di Mbembe – reinquadrando la questione del limite, cui alludono entrambi gli autori, in termini propri ai cultural studies.

Penso che la situazione di oggi si comprenda meglio se si inverte, per così dire, il senso cronologico che entrambi presuppongono: non è certo la prima volta che l’umanità vive una crisi culturale in cui le figure autorevoli tradizionali non riescono più a trasmettere alle nuove generazioni i valori di cui esse stesse dubitano o che esse stesse non riescono più a incarnare credibilmente [12]. Se poi questa crisi crea (l’illusione elettronica di) un’umanità sfrenata totalmente disincarnata, individualista e asociale, tenuta insieme soltanto dalla rete telematica, piuttosto che reiterare pur giuste lamentazioni, preferisco fare un passo indietro sul piano della teoria: che senso ha in questo contesto di crisi culturale planetaria provare nostalgia di un limite?

In effetti, tanto dal punto di vista materiale che da quello simbolico, quasi tutto ciò che viene tramandato – ovvero quel che, visto che siamo esseri liberi anche di rifiutarla, dovremmo poter chiamare in tutta serenità filosofica, dove non fosse possibile quella esistenziale, cultura tradizionale – dà agli esseri umani linee-guida circa le loro azioni e interazioni, ovvero consiglia o sconsiglia (con più o meno forza, più o meno enfasi e soprattutto più o meno coerenza) un particolare comportamento. In altre parole: la cultura pone, come ognun sa, limiti al nostro comportamento, alla nostra libertà (al nostro potere) e lo fa, notoriamente, attraverso la trasmissione e la pratica di artefatti, valori, credenze, regole e ovviamente del linguaggio. La domanda sarebbe dunque stupida: dalla legge del taglione al tabù dell’incesto, dall’uso di mangiare con le posate all’abitudine di scambiarsi gli auguri per Natale, parlando di cultura, un limite c’entra sempre. Provarne nostalgia è naturale. 

81krykiztzl-_ac_uf8941000_ql80_Il limite e tutto il resto 

Si capirebbe tuttavia ben poco della questione se non ci si chiedesse a che pro’ noi esseri umani siamo disposti a sobbarcarci fardelli materiali e ideali che non abbiamo né inventato, né scelto, né fabbricato in prima persona. È ovvio che li accettiamo perché crediamo che a passare o a non passare i limiti culturali che riceviamo ne va del benessere fisiologico e civile di ognuno e ognuna di noi – benessere ambiguo: Adorno e Horkheimer, anche grazie a Nietzsche, hanno ben descritto, quanta vita si perdano (per salvarsi) il borghese Ulisse e i suoi compagni operai con il loro auto/eterocontrollo di fronte alle sirene e al loro canto – ma non solo: quando parliamo di limiti in prospettiva culturale non stiamo parlando soltanto di quel che possiamo o non possiamo fare ognuno di noi in prima persona affinché stia bene ognuno di noi in prima persona (anche obbedendo a un regime di dominio in cui, volenti o nolenti, siamo immersi). In linea di principio i limiti imposti alle azioni di ciascuno di noi all’interno di una cultura hanno come funzione primaria quella di rendere più prospera non solo l’esistenza di chi decide di rispettarli o meno ma anche l’esistenza di… tutto. Per intenderci: Edipo ha inconsapevolmente ucciso suo padre e sposato sua madre? A soffrirne le conseguenze è tutta Tebe. E sarà necessaria l’espiazione di Edipo perché tutto ritorni come prima. Come per il frutto proibito e la cacciata dall’Eden senza il nesso fra il destino di Edipo e quello di tutto il resto la storia non funziona.

Ma cosa è questo tutto cui il limite allude? È proprio tutto tutto? No. Direi, più modestamente, che un limite culturale allude al tutto che conta per i tutti della cultura di turno ovvero (assunta una prospettiva scientifica) alla cosiddetta ecumene (termine tecnico della geografia) cioè allo spazio terrestre abitato da una o più società in comunicazione fra loro, spazio in cui si articolano tutti i tipi di rapporti tecnici che riguardano una (o più) società. Mbembe (che condivide con noi contemporanei e contemporanee un pianeta dolorosamente e forse mortalmente globalizzato) lo chiama (con un termine francese corrente) le vivant e lo intende come qualcosa di più che il mero antropocene (a cui forse chi mi legge starà pensando [13]) giacché vi mette dentro: a) non solo tutti gli esseri umani (tutti, indipendentemente dalle loro divisioni identitarie o geografiche, tutti riuniti in una communauté terrestre di uguali (per ri–citare Mbembee) ancora da costruire; b) l’ambiente naturale antropizzato (e non) ma anche c) le macchine digitali e i mondi (virtuali e non) da esse prodotti [14].

Tutto chiaro no? Non proprio. Bastano pochi secondi di riflessione per capire che se il semema del lessema vivant (il significato o, come si dice in semantica l’intensione ovvero le componenti del significato della parola in astratto) è talmente poco specifico da produrre un concetto pacificamente universale, la gestione pratica della sua dimensione concreta (l’estensione, come si dice in semantica) lo è molto meno. Mente a Wittgenstein: «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» [15]. Voglio dire che il rapporto fra ciò che chiamiamo umano e ciò che chiamiamo non-umano (che insieme fanno, per Mbembe, le vivant) non è un dato empirico di facile assunzione a partire dal semplice uso linguistico di un olonimo (vivant) e dei meronomi che lo compongono (umano e non-umano come mano e braccio sono meronimi dell’olonimo corpo). Se parlare di limiti e del tutto è facile, intendersi è difficile [16]. Ciò che Mbembe sulle pagine di un libro propone di battezzare universalmente le vivant è in realtà oggetto di diverse interpretazioni, implicite per chi a partire da un’ontologia che ha ricevuto dalla propria cultura gestisce il rapporto fra le sue componenti, ma totalmente vaghe per gli antropologi che con arguzia e non poca fatica devono capire come fa a gestirlo. La questione è tutt’altro che accademica perché a seconda di quel che pensiamo del mondo in cui viviamo, a seconda di come pensiamo l’ecumene, stabiliamo e giudichiamo le pratiche culturali che costruiscono il nostro benessere e scegliamo i criteri a partire dai quali trattiamo gli altri, tutti gli altri: umani e non. 

91vfb0phpll-_ac_uf10001000_ql80_Che cosa vuol dire, poi, umano? J. Diamond illustra nel suo The World until Yesterday. What Can We Learn From Traditional Societies? (2013: 124–6) la divisione, presumibilmente databile al Paleolitico fra amici, nemici e stranieri riscontrabile in società piccole di umani. Per farla breve [17]: gli altri nelle popolazioni di questo tipo sono o nemici o sconosciuti radicali giacché amici possono esserlo soltanto persone del proprio gruppo o clan o banda o provenienti da villaggi vicini con cui si è in pace al momento. I nemici appartengono ad altri gruppi o a bande con le quali si hanno contatti al momento marcati da aggressività (attiva e passiva). Gli stranieri, infine, appartengono a popoli o a spazi ai quali non si va mai. Le tre categorie identitarie corrispondono non solo a diversi ethos (e chi sta leggendo può immaginarne da sé, grosso modo, i limiti corrispettivi) ma anche a diversi livelli di una doppia incertezza [18]: una esistenziale (si ritiene di essere più sicuri fra amici) e un’altra semantica: degli amici si sa quasi tutto (nome, parentela, abitudini…), dei nemici alcune cose (come si vestono, che lingua parlano, che armi usano…). Si sa un po’ insomma come prenderli. Ma cosa fare con gli stranieri, di cui, letteralmente, non si sa nulla? E cosa, tornando a tempi e spazi a noi più familiari, dei concittadini e delle concittadine di cui culturalmente (o socialmente) sappiamo, seppur confusamente, qualcosa (p.es. dove vivono e a quali leggi obbediscono) ma di cui (come avverte F. Fabbro [19]) a livello profondo, ci interessa ben poco? Se la tripartizione meronimica (amici, nemici, stranieri) ha ancora un piede nella realtà l’olonimo umano è talmente astratto da risultare debole, evanescente, incapace di limitare in modo chiaro buona parte delle nostre prassi quotidiane, figurarsi quelle extra-ordinarie che la globalizzazione (crisi climatica inclusa) ci impone.

decsolaPassiamo al non-umano: Philippe Descola, (nel suo celebre Par-delà nature et culture, Paris 2005) ha identificato fra gli umani che ci hanno preceduto sul pianeta almeno quattro tipi di ontologie (o mondiazioni [20]): animismo, naturalismo, totemismo, e analogismo. Nella tesi dell’antropologo francese il mondo occidentale dal Rinascimento in poi si troverebbe immerso prevalentemente (non esclusivamente!) in una cultura naturalista dominante che gli avrebbe permesso di portare avanti lo sfruttamento pressoché selvaggio delle risorse (umane e non–umane) del pianeta. In un’ecumene naturalista umani e non-umani vivono infatti in continuità fisico-materiale (tutto è a portata di mano e fra la mano umana e tutto ciò che è alla sua portata non c’è nessuna differenza materiale) ma in discontinuità spirituale (le piante o gli animali, p.es., non hanno spirito, non hanno intenzionalità o moralità, o se ce l’hanno, non sono identiche a quelle umane).

In un’ecumene animista (o animica come preferisce dire Descola, autocorreggendosi) si dà l’esatto contrario: continuità spirituale (animali, piante ecc. hanno un’interiorità identica a quella degli umani) ma discontinuità fisica (il loro corpo, p.es. di volatili, li colloca in mondi materiali fisicamente diversi dal nostro). In un’ontologia animista varrebbe insomma il contrario della massima wittgensteiniana: i limiti del mio mondo significano i limiti del mio linguaggio. Per poter comunicare con gli umani i non–umani hanno dunque bisogno di cambiare forma (e viceversa).

Gli animisti (che, beninteso, sfruttano anche loro le risorse ambientali umane e non-umane) trovano, così, perfettamente naturale comunicare con quelle non-umane sul piano delle rappresentazioni simboliche (i non-umani possono comunicare con gli umani p.es. attraverso i sogni o attraverso metamorfosi, che permettono loro di superare i limiti imposti dalla loro corporalità). I naturalisti dal canto loro non solo non credono possibili le metamorfosi ma, anche se lo facessero, nel loro mondo le metamorfosi faticherebbero ad acquisire senso. Quando si tratta di gestire il non-umano, i naturalisti passano direttamente alle vie di fatto: nel tutto naturalista le rappresentazioni simboliche non competono al non-umano. Il non-umano in un’ecumene naturalista, direbbe Lacan, non riesce mai a essere l’Altro di chi ha superato lo stadio dello specchio. Se non a livello personale: chi parla col proprio cane o con le proprie piante non lo fa certo di nascosto ma non si sognerebbe mai di raccontare (seriamente) al proprio vicino che il cane o la pianta ha reclamato a gran voce diritti sindacali. Non appena si passa al piano politico (p.es. se si propone di conferire personalità giuridica a regioni o specie o si accenna al fatto che l’empatia si può estendere materialmente anche verso il prossimo ecumenico non-umano) le rappresentazioni simboliche diventano talmente dubbie da risultare (nel migliore dei casi) radicalmente marginali [21]. In un mondo naturalista se ne può insomma fare tranquillamente a meno [22].

Ma se nelle nostre prassi fatichiamo a concedere l’aggettivo umano a chi non fa parte del nostro gruppo (e sempre più persino a chi ne fa parte, vista la dissoluzione della sfera pubblica e la perniciosa commistione fra il politico e il pulsionale cui ho accennato nella premessa), se sul non-umano abbiamo (avverte Descola) idee talmente variegate (per non dire incompatibili) da suscitare e giustificare incomprensione e violenza (così che qualcuno riassume il genocidio dei nativi americani con l’espressione conquista del west), si può ben confermare che la crisi culturicida/umanicida che stiamo vivendo è nuova per quanto riguarda la sua scala quantitativa e il piano mediatico su cui si dispiega (dimensioni funzionali dell’essere umano, non costitutive della sua essenza) ma non lo è nella sua natura profonda. Non è il post- o transumano che si rivela minaccioso alle soglie dell’estinzione della specie ma l’umano all’ennesima potenza che: a) per rendersi immortale supera il limite della vita stessa; e b) accortosi di perdere il controllo preferisce rifugiarsi nel narcisismo e andarsene con lo stile sfavillante che la tecnologia gli permette. E come trovare, allora, il bandolo della matassa ovvero dei limiti accettabili all’agire di tutti laddove i nostri sforzi concettuali faticano a trovarne di univoci e la nostra stessa natura, quando li incontra, tende a toglierseli di dosso? 

9782707188182La proposta di Mbembe

Nell’ottica di Mbembe è necessario, perché tutto sopravviva, imparare a interagire in altro modo e con tutto l’umano (nemici e stranieri inclusi) e col non-umano da cui dipendiamo. Ritenendo, forse, che la gravità della situazione imponga di superare ogni esitazione di fronte a un panorama teorico variegato e incerto, il filosofo taglia corto e propone per il futuro di una nuova communauté terrestre di superare gli ultimi due limiti che ci restano (e ci restano perché non sappiamo di averli): a) il naturalismo (cui imputa la combustione del mondo; e b) l’ossessione identitaria. Come? Decidendo di allargare la memoria del mondo dominante a quella dell’Altro dominato. La risposta – spiazzante nella sua semplicità – ha il pregio (inconsapevole) di superare la crisi narrativa descritta da Byung-Chul Han invertendone i termini del ragionamento: per riguadagnare un Altro reale (della cui esperienza e quindi di ogni narrazione il nostro narcisismo ci priva) bisognerà ascoltarne le storie ancestrali animiste. In termini meno tecnici: un conto è dire che apparteniamo tutti alla comunità terrestre (come molte persone di animo buono sarebbero prontissime ad affermare), ben altro vedere negli africani degli umani come noi (nel senso di Diamond ovviamente!) se non sappiamo nulla di loro perché con loro non comunichiamo, vuoi perché non vogliamo, vuoi perché non ne siamo più capaci, vuoi perché nel nostro narcisismo siamo convinti di sapere già tutto [23]. Riecheggiando blandamente Heidegger, Mbembe sostiene che il confronto con i miti cosmogonici dogon e bambara ci permetterà di uscire dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati (e abbiamo messo gli altri), mettendo in discussione i dualismi classici della cultura occidentale naturalista (p.es. anima-corpo, natura-cultura, umano-animale alla base di un’ecologia regolata dal calcolo e al dominio) e di vagliarne altri (aperto-chiuso, visibile-invisibile, vulnerabile-duraturo), alfine di valorizzare l’interdipendenza di tutto il vivant.

Ascoltare i loro miti cosmogonici ancestrali ci offrirebbe insomma non solo l’occasione di prendere una certa distanza critica verso noi stessi (vedendo p.es. che ci sono culture che comunicano col non-umano e che non sono, per questo, minori) ma anche di scrutare nell’animo di chi ne è erede, di orientarci nella sua cultura e quindi, se è il caso, ri-oerientare la nostra. Possibile? Mbembe è ottimista ma a qualcun altro/a la faccenda ricorderà un dialogo fra sordi. Che a spuntarla potrebbe essere Mbembe ce lo dice la psicanalisi. Secondo (per non citare che un solo psicanalista) J. Arlow (1961: 371–93) il mito non servirebbe essenzialmente a segnalare (descrivere o diagnosticare) una nevrosi ma ad agevolare un normale sviluppo psichico. E riguarderebbe certamente l’es (e le sue pulsioni) ma anche l’ego (per quanto riguarda la difesa e l’adattamento) e il superego (per la rinuncia e l’autocontrollo). Essendo il mito parte e resoconto di un’esperienza comune, raccontarlo concernerebbe tutti (non solo i nevrotici e le nevrotiche) e riuscirebbe a mettere in comunicazione chi vi si accosta con il resto dei soggetti che lo hanno prodotto o trasmesso o che lo stanno anche loro ascoltando, chiarendocene bisogni, paure, rimedi e soprattutto strategie di adattamento e superamento dei complessi.

Certo: quel che funziona in psicanalisi, non è detto che funzioni sul piano della realtà. La traduzione della nostalgia del limite in una proposta così pragmatica, originale e creativa potrebbe sembrare a qualcuno una provocazione ingenuamente ottimista. Quasi naif. Eppure, osserva Mbembe, il vuoto lasciato dal modello culturale universalista eurocentrico è già stato riempito da una spinta al decentramento, le cui conseguenze se fossero assunte da tutti permetterebbero all’umanità di ritrovare la trebisonda. Ecco come Mbembe interpreta, evangelicamente parlando, i segni del tempo: secoli di colonialismo predatorio e violento hanno lasciato sul pianeta una domanda di giustizia la cui urgenza e inesauribilità non saranno mai cancellate né dal fatto che i danni sono incalcolabili né dal fatto che sono al postutto irreparabili. Di conseguenza l’unico modo di iniziare a interagire costruttivamente è rivedere i criteri che orientano le nostre relazioni, subordinando le dimensioni contrattuale e identitario-nazionale (che presuppongono e costruiscono gruppi umani amici, nemici o stranieri… alla fin fine irreconciliabili) a quella comunitaria. Aggiunge Mbembe: una comunità che cerca giustizia ha bisogno della presenza di tutti al tavolo comune ma di una presenza attiva, capace di comunicare. La nuova communauté terrestre dovrebbe essere fatta da soggetti che si sentono obbligati a rispondere a ogni situazione, coscienti che la terra è in comune a tutti i suoi abitanti e che tutti le sono legati da un debito inesauribile. 

51qae19jnalIl limite del debito alla terra e il mito: obiezioni e controbiezioni 

È il paradiso in terra? Il regno che è già qui – per rimanere in metafora – ma nessuno lo sapeva? Come credere che alcune storielle (vengano da dove vengano), sulla soglia dell’estinzione, ci faranno ritrovare il cammino verso una gestione (condivisa) del tutto, pacifica, giusta e non inesorabilmente diretta alla catastrofe finale? Credo che questo (comprensibile) scetticismo nasca da un equivoco anche lui comprensibile (perché giustificato da una solida tradizione, che animata da nobilissimi intenti, semplificava il mito al fine di evidenziarne il lato esistenziale [24]): l’idea che i miti siano sostanzialmente dei testi. Se è vero che Mbembe non si cura di definire il senso in cui usa il termine mito a me pare che, in linea con tutta la letteratura scientifica odierna, consideri i miti se non parti vere e proprie almeno sintomi di pratiche umane più complesse. Che certamente contengono dei racconti. Ma non solo. In genere questi racconti 

– accompagnano (o rappresentano) non soltanto i riti ma anche tutte le attività umane fondamentali, quali l’alimentazione, il lavoro, il matrimonio, la saggezza…[25]; 

– svolgono, sia a livello sociale che a livello individuale (ma questa differenza non riguarda tutte le società) una funzione pedagogica e psicologico–cognitiva di memoria, orientamento e consolazione; 

– cercando di rendere ragione al nostro spirito perplesso — per dirla con Dante — del vivere che è un correre alla morte, evento che viviamo da sempre (cioè da quando la nostra specie è apparsa in Africa) come qualcosa di innaturale e contraddittorio e che, probabilmente, è all’origine della nostra produzione mitica nella sua integralità [26]. 

È noto che diversi motivi si ripetono identici o analoghi ai quattro angoli del globo. J. d’Huy ha applicato un metodo di marcatura binaria (1–0) dei più piccoli dettagli di varie versioni di vari miti provenienti da tutto il mondo (combinandoli con dati genetici e archeologici) al fine di dimostrare che la presenza dello stesso motivo o dello stesso mito in diverse aree geografiche-etnologiche-culturali non è dovuta alla natura archetipica del mito ma a vera e propria parentela (diffusiva) [27]. 

Che le cose stiano in un modo o in un altro, la sostanza del consiglio di Mbembe non cambia: il filosofo afferma di averci indicato i miti cosmogonici ancestrali dogon e bambara per farci iniziare da qualche parte, non perché ritenga un confronto con le altre cosmogonie del continente africano meno proficuo. Per questo motivo in questo articolo non procederò ad analizzare nessuna storia mitica. Penso, ancora, che il consiglio di Mbembe non contenga solo l’invito a continuare ad analizzare i miti africani a livello letterario, psicologico o antropologico (cosa che già facciamo da molto tempo) ma anche quello di cominciare ad ascoltare in un contesto reale chi può raccontarceli, cioè una persona viva in uno spazio che condividiamo. Sarebbe un peccato scambiare la proposta di Mbembe per un avviso agli eruditi. Credo si tratti di una provocazione bella e buona alla pratica interculturale urbi et orbi…– per usare una sua espressione – a partir de l’Afrique.

Che questa pratica sia urgente lo si capisce ragionando sulle pratiche discorsive triviali e meno triviali, relative al cambiamento climatico: dalla frequenza un po’ sospetta dell’espressione energie rinnovabili nelle esternazioni di politici di ogni sorta (a sentirne qualcuno è come se avessero idee chiare al riguardo e non si capisce perché continuiamo a far benzina) ai prodotti visuali facilmente reperibili su Netflix o Prime, strapieni di miti con tutti i crismi (e composti nell’alfabeto delle immagini, caro al gusto contemporaneo): dai supereroi ai tricksters fino alle apocalissi e alle seconde creazioni per pochissimi eletti. Questi miti moderni dell’industria audiodivisuale (sport compreso, epopea del corpo per eccellenza) in genere celebrano il valore salvifico della tecnologia e il ruolo fondamentale dell’eroe, nella sua classica dialettica fra individualismo e servizio alla società (sacrificio compreso) [28]. In queste storie si fa esperienza ludico–discorsiva della speranza in nuove tecnologie mirabolanti (spesso anche armi), dando a intendere che dovrebbero ma non possono essere per tutti e che sono talmente importanti da giustificarne la difesa (o la rapina) anche a costo di versare sangue altrui.

Questi miti – direbbe Mbembe – raramente incarnano fino in fondo valori comunitari planetari. Dietro all’aura di novità rivoluzionaria che portano con sé, nascondono un’anima antica e pugnace, che si manifesta p.es. in molti aspetti non encomiabili e distruttivi del movimento ecologista contemporaneo (visibilità fine a se stessa e giovanilismo inclusi). Attingere a un legato mitico non ancestrale, maggiormente orientato all’abitabilità e alla durabilità della terra e meno al culto dell’ego e alla violenza, potrebbe far bene alla nostra mente che, allarmata dalla situazione d’incertezza e impotenza che sta vivendo, ha fame di storie. E si accontenta di quel che trova (specie se la ricetta che le sue élites le propongono è il narcisismo sfrenato di chi vuole sembrare grande ma non lo è).

Nondimeno, obietterà qualcuno, quotidiane e necessarie quanto si vuole, sempre di favole si tratta. E su quali basi dovrebbe una mente occidentale, dopo 2.400 anni di storia e filosofia (i due elementi che fondano la scienza), tornare a rivolgersi al mito, a una narrazione che cosciente di parlare di cose inverificabili, totalmente incurante di distinguere il vero dal falso, si pretende portatrice di messaggi, se non universali, almeno ecumenici (e per di più vitali, nel senso di rigenerativi o addirittura terapeutici secondo alcuni antropologi [29])? Obiezione sensata, ma a mio modo di vedere miope. La proposta di Mbembe non si riduce al ricorso al mito. La sua sostanza è una rivoluzione valoriale. I valori utili a costruire la nuova comunità terrestre, valori che Mbembe auspica noi occidentali vorremo importare a partire dai miti animisti dogon e bambara, si possono riassumere in quattro punti essenziali: 

a) Gli esseri umani non sono né i dominatori né i proprietari della terra (come in fondo sono in un’ecumene naturalista); 

b) Le risorse naturali non vanno trattate a uso esclusivo degli esseri umani (anche qui il bersaglio è il naturalismo); 

c) La tecnologia dovrebbe essere al servizio della vita e del suo sviluppo (non della sua mortificazione a base di edonismo, violenza identitaria e narcisismo); 

d) Il futuro di tutto dipende dalla nostra (di tutti gli esseri umani) capacità di condividere la terra e di farne un luogo abitabile e respirabile per tutti (umani e non-umani… finalmente tutti autoctoni). 

51vrgmqxhl-_ac_uf10001000_ql80_Anche se non ho potuto fare a meno di presentarli attraverso frasi esplicite è noto che i valori nelle culture non corrispondono a giudizi expressis verbis ma a convinzioni. Posizioni etiche ricevute (cioè trasmesse culturalmente) e sempre in bilico fra l’ideale e il reale, fra il discorso e la prassi: se i fatti non seguono alle parole, la memoria collettiva prima o poi li manda in soffitta. Il che giustifica l’ennesima obiezione: se i valori vengono insegnati da sanzioni positive e negative, da relativi sensi di colpa e sensibilità morali ma soprattutto da comportamenti, è sensato sperare che i miti africani, in assenza di un contatto umano assiduo e giusto con chi potrebbe trasmetterceli, ce la faranno a farceli assumere? La risposta è sì, giacché il mito corrisponde a una pratica comunicativa specifica – quella della narrazione – in cui alle parole seguono sempre i fatti [30]. Come avevano giustamente osservato Platone e prima di lui Senofane (lamentando che i miti che criticavano parlassero di dèi falsi e bugiardi [31]), si basa sull’ascolto della voce di chi narra, cui segue l’identificazione emotiva di chi ascolta con i soggetti di cui si narra e infine l’imitazione da parte di chi ascolta delle azioni narrate. La pratica comunicativa del mito si basa, indipendentemente dal livello del contenuto, sulla specularità (la transitività spontanea) fra la vita e il narrato. Tanto è vero che lo stesso Platone nella sua opera ha fatto ricorso a diversi miti politici (e non), vuoi per esporre quel che proprio non si sarebbe potuto argomentare concettualmente, vuoi per convincere i propri lettori ad assumere un determinato atteggiamento [32]. In altri termini: vista la sua efficacia nel catturare l’attenzione di chi lo ascolta, la sua enorme capacità di esprimere quel che la ragione fatica ad afferrare, di muovere e di commuovere, vista la sua stessa fenomenologia (lo si ascolta senza interrompere per poterlo capire), non è possibile rinunciare al mito quando si sta cercando di costruire una comunità.

Si dirà: Platone e Senofane parlavano della trasmissione di miti propri a una sola comunità già esistente. Non è detto che ascoltare miti stranieri riesca a muovere le menti e il cuore di nessuno. Vero. Ma, come in tutti i processi comunicativi, la probabilità di successo risiede in larga parte nella disponibilità degli interessati a interessarsi, ad ascoltare [33]. Il miglior modo di perdere la paura di farlo è, a mio modo di vedere, ricordare che ascoltare, (com)muoversi, identificarsi ecc. non deve necessariamente tradursi in sospensione della capacità critica, vera sede della libertà. Mantenuto questo punto fondamentale, ogni contatto culturale e ogni esperimento mentale (che altro è confrontarsi con il falso?) risulterà non soltanto possibile ma probabilmente anche proficuo. Del resto, neanche Platone pretendeva di soppiantare il falso del mito orale con la verità scritta della filosofia. Non si tratta nel confronto con questi miti africani di tornare all’oralità (per cui non si interrompe il poeta di turno che incanta una folla anonima che si precipita a eseguirne le direttive, p.es. correre a incollarsi sull’asfalto). Tantomeno di abbandonare la scrittura (che peraltro Platone stesso giudicava insufficiente), cioè la scienza, il ragionamento. Mbembe sembra costruire e rivolgersi a esseri umani capaci sì di oralità – relazione simbolica che tendenzialmente rifiuta il narcisismo – ma di oralità dialettica (intellettualmente attiva, desiderosa di interrogare e disposta a rispondere), da applicare – per tornare a Platone – tanto al ragionamento per concetti (logos) che a quello per immagini (mito) [34].

Non vivendo sulla luna il filosofo greco sapeva che soltanto il mito (ovvero la narrazione che non è preoccupata dal vero e dal logico ma soltanto dall’essere memorabile ed efficace socialmente) può rispondere alle cose dell’esserci, al livello dell’esistenza, alla vita e ai problemi ad essa connessi (anche se lo fa in maniera concettualmente insufficiente e in via del tutto provvisoria [35]). In particolare i miti cosmogonici hanno per tema l’esistenza stessa delle cose (di tutti/e e del tutto) che inevitabilmente ci appare fragile e contraddittoria. Una storia cosmogonica narra l’esperienza umana di questa contraddizione: p.es. – pensando al Genesi – l’esperienza della morte, della vergogna, del lavoro faticoso, ripetitivo e spesso inutile, della servitù volontaria, del rischio mortale di partorire… Di fronte a tanta incertezza gli esseri umani, per orientarsi, compongono storie, (immagini di corpi che interagiscono con l’ecumene) [36]. Ricorrere a delle storie in questo clima di incertezza assoluta ed estinzione imminente corrisponde a chiederci il senso della nostra stessa fine, a ri-porci le domande terribili che ci hanno tormentato e accompagnato fin da quando, uscendo dall’Africa, abbiamo popolato tutta la terra [37]: dove va il dolore del mondo? Chi è il responsabile? Come uscirne? … Se attualmente nessuno ha trovato la tecnica giusta per venirne a capo, reprimerle o affogarle nell’edonismo permessoci da una ricchezza in buona parte ingiusta può certamente addolcire la pillola ma non le rende meno reali. 

Achille Mbembe

Achille Mbembe

Conclusione: Europa, Africa, violenza e democrazia 

La proposta di Mbembe, oltre ad assecondare la pratica delle immagini e la sete di miti con cui la nostra contemporaneità sta rispondendo alla situazione incerta che tutti conosciamo, ha il doppio merito di presentarsi in forma di libro e di non voler restare mero esercizio d’accademia. La sua è una proposta pratica (ovvero politica nel senso più alto del termine), che è frutto di precedenti e si vuole preludio di ulteriori iniziative ragionate. Non è infatti possibile, per parafrasare uno degli ispiratori di Mbembe – l’accademico e musicista, romanziere e saggista senegalese F. Sarr – habiter un nouveau monde o abitare quello vecchio in modo diverso, senza operare una rivoluzione culturale che porti a un rinnovamento delle strutture psichiche della comunità umana (che vive di teoria e di prassi) [38]. L’azione dimostrativa, di forte impatto mediatico ma di poco spessore intellettuale (anche se supportata da una pletora di dati [39]) non può ovviamente bastare. Vivere umanamente esige lo sforzo di quel che Byung–Chul Han (con un’intera e prestigiosa tradizione) chiama Geist, spirito. Una forza attiva, raramente animata da intenti puramente definitori ma che, per essere veramente efficace, ha bisogno di mettere insieme molte tesi (immagini e concetti) e diversi punti di vista prima di passare all’azione, traducendo i propri sforzi psichici in gesti limpidi.

In un articolo pubblicato il 5 ottobre 2022 su Le monde dal significativo titolo redazionale Achille Mbembe, philosophe: «Le recul de la démocratie en Afrique est aussi le résultat dune formidable atonie intellectuelle», Mbembe ha annunciato la nascita della Fondation de linnovation pour la démocratie con sede a Johannesburg, il cui scopo è quello di provocare e accompagnare un profondo rinnovamento del pensiero e delle pratiche democratiche sul continente africano attraverso corsi di formazione alla democrazia e progetti pedagogici autoctoni (tradizionali e non), volti a contrastare la forte tendenza antidemocratica che attraversa quasi tutto il continente e che Mbembe scorge non solo nelle nefaste prassi politiche (presidenze a vita, successioni di padre in figlio, sindrome del terzo mandato, elezioni truccate) ma anche nel culto alla violenza militarista-eversiva e ai suoi colonnelli tributato «da una gioventù disorientata, disoccupata e pronta a rischiare la vita sulla via della migrazione»; e ancora «nelle reti sociali, sempre più piene di xenofobia, razzismo e complottismo mascherato da panafricanismo» (trad, mia). Segno che Mbembe non si fa (né vende) illusioni circa lo stato del suo continente e non attende, per dirla con Bonhoeffer, grazia a buon mercato: se gli e le occidentali devono avvicinarsi agli africani e alle africane e attingere dall’Africa risorse spirituali, anche questi ultimi e queste ultime, per contribuire attivamente alla costruzione della communauté terrestre, avranno il loro da fare nell’integrare in se stessi e se stesse il meglio che la cultura occidentale ha saputo dare al mondo. Lascio a Mbembe la conclusione con due frasi tratte dallo stesso articolo dedicato all’Africa ma che a me sembrano perfettamente applicabili all’area del mondo in cui mi colloco: «Tout se passe en effet comme si […] agir sans penser était la norme. […] Le futur de la démocratie […] réside dans l’invention de nouvelles méthodes d’animation de l’intelligence collective». 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023 
Note
[1] È possibile che il politico non avesse il permesso di riprendere il monumento ma allora perché fare un video (e in primo piano permanente) invece di scegliere un qualunque altro modo di documentare e trasmettere quell’esperienza?
[2] Per una visione del web meno riduttiva e tutto sommato più positiva si veda il saggio dello psicologo R. Neuburger (2014-2023: 117-127). Per una molto più allarmante (e più ricca di dati ma, come la prima e nonostante il titolo, priva di toni apocalittici) il volume del sociologo G. Bronner (2019).
[3] Uso i termini virtuale e reale, qui, come li usano Mbembé e Byung-Chul Han (che ricalcano il senso corrente) non nel senso esatto riferibile a Lacan. Ma la sostanza non cambia: la disattenzione per l’Altro (per la sua voce, direbbe Lacan) priva il soggetto infantile (già a 18 mesi stando allo psicanalista!) di crescita ulteriore.
[4] V. K. Mellmann (2017: 308-317).
[5] I simboli, attraverso l’Altro che mi parla e con il quale mi identifico aiuterebbero invece secondo Lacan a costruire il cosiddetto Ich-Ideal (ovvero un altro sublimato nel linguaggio che costituisce il mio io immaginario), necessario alla costruzione della comunità. V. Lacan (1975: 93-161).
[6] O è possibile semplicemente cambiarsi i connotati (la forma o il colore degli occhi, lo spessore delle labbra…).
[7] Come esempio di pulsionalità politico-mediatica vorrei ricordare un altro video girato qualche anno fa da alcuni politici italiani di un partito secessionista, vagamente neopagano (ma sedicente tradizionalista e cattolico), che in gita in Baviera si sono ripresi, evidentemente ebbri, mentre urinavano sull’altare di una chiesa. Significativo mi sembra anche il il fatto che a postarlo sulle reti sociali sia stato uno di loro.
[8] È evidente che l’uso di likes e affini, commenti in chats ecc. costituisce in certa maniera una reazione simbolica, che però molto spesso si limita al pulsionale o al puramente emozionale averbale e in ogni caso resta politicamente inconcludente: la voce che gli atti linguistici digitali correnti dovrebbero incarnare non riesce ad avere, direbbe Lacan, forza di legge. Esclusi i casi più tristi – riferibili sostanzialmente al privato – di vilipendio, mobbing, diffusione non autorizzata di immagini intime di adulti o giovani e via dicendo l’impatto sociale della comunicazione elettronica è paradossalmente modesto, rispetto a tutto il rumore che fa.  
[9] Con che stato d’animo di fondo presentano i due autori questa nostalgia? Difficile dirlo. A giudicare dal tono dei loro scritti Byung-Chul Han suona lucidamente elegiaco mentre Mbembe appare mortalmente serio ma in fondo ottimista. Tono a parte, è ovvio che altri soggetti (meno preoccupati del futuro di tutti ma molto del proprio), se affetti dalla stessa nostalgia, finirebbero probabilmente per cercare un uomo della provvidenza.
[10] Sull’anzianità dell’elaborazione mitica della morte ovvero del sogno dell’immortalità v. J. d’Huy (2023).
[11] Non mi pare che nei supporti digitali si smettano di usare simboli, né Lacan si era mai sognato di limitare il narcisismo al solo stadio dello specchio. Narcisismo non esclude società. Un narcisista in genere opera in termini socialmente misurabili (e persino encomiabili per qualcuno, come nel caso dell’industria dello spettacolo).
[12] Suggerisco al riguardo di consultare, p.es., F. Furedi (2013) o di riconsiderare l’ultimo lavoro di Cassirer (1946), o di leggere una qualunque linea di Nietzsche o semplicemente di ricordare il ’68.
[13] Il concetto di antropocene, notoriamente discusso, indica l’era geologica in cui (c’è chi pensa ancora per poco) ci troviamo, caratterizzata dall’impronta generale e irreversibile che gli esseri umani e le loro attività hanno lascito e lasciano sulla terra. Abbastanza semplice passare da un’era a uno spazio. V. J. Guyot-Téphany (2020: 57-61). Sulla fine dell’antropocene grazie all’intelligenza artificiale e la necessità di limiti v. M. Suleyman / M. Bhaskar (2023).
[14] Avverto lettori e lettrici che Mbembe indica a questa comunità terrestre anche un itinerario politico e lo fa attraverso concetti affini all’ecumene: quello di Tout-monde (riprendendolo dallo scrittore Édouard Glissant) e quello di Tout-planetaire. Fra le sue fonti politiche più importanti segnalo anche F. Sarr (2017). Tutte fonti e questioni cui posso in questa sede solo accennare per evidenti motivi di spazio.
[15] «Die Grenzen meiner Sprache bedeuten die Grenzen meiner Welt» (Tractatus logico-philosophicus, proposizione 5.6, (trad. e cors. miei).
[16] Come quando, parlando con non-italiani, sentiamo dire che l’Italia è bellissima ma poi scopriamo che i nostri interlocutori conoscono appena il lago di Garda o ce la prendiamo con i francesi o chi per loro se la luna gira storta: tutti i francesi o qualcuno? Noti o ignoti a chi sta parlando e/o ascoltando?
[17] Diamond (che di formazione è un biologo e non un antropologo) in questo passaggio da un lato semplifica e dall’altro generalizza quel che ha riscontrato in Nuova Guinea ma la sua è una sintesi molto efficace di questioni molto complesse. Per farsene un’idea (tutt’altro che esaustiva) rimando a J. Rabain-Jamin (1991: 571-3) e a B. Lahire (2023: 860-4).
[18] Sul concetto di incertezza cf. n. 37.
[19] 2018.
[20] Lo stesso Descola definisce in questo passaggio il concetto di mondiation (cors. mio): «[…] il y a différentes manières, traditionnellement dites « culturelles », de rendre compte du monde alors même que tous les êtres humains sont dotés des mêmes outils cognitifs et sensori-moteurs […] La mondiation, c’est-à-dire la stabilisation de certaines caractéristiques de ce qui nous arrive – pour rester dans l’esprit de la définition du monde par Wittgenstein – dépend aussi, et peut-être surtout, de la prédication ontologique. […] L’opposition entre le monde en tant que totalité de choses et les mondes multiples de la réalité sentie est trompeuse, et ce, même si l’épistémologie moderne la voit comme un dogme élémentaire. Ce qu’il y a, indépendamment de nous, ce n’est pas un monde complet et autonome qui attend qu’on le représente et qu’on en rende compte selon différents points de vue, mais, plus probablement, un grand nombre de qualités et de relations qui peuvent être actualisées ou non par les humains, en elles-mêmes ou au-dehors, selon la manière dont elles répondent à certains choix ontologiques élémentaires» (2011 : 97-104).
[21] Per completare la teoria di Descola ecco l’essenziale del resto dei concetti. L’analogismo (tipico della cultura cinese ma anche del nostro passato medievale) e il totemismo (tipico p.e. delle culture aborigene australiane) combinano le opposizioni continuità-discontinuità e materiale-spirituale in questo modo: analogismo: materialità e spiritualità discontinue (il leone e il re sono due cose ben diverse ma hanno in comune il coraggio o la maestà), totemismo: materialità e spiritualità continue (piante, animali e gruppi etnici, luoghi… precisi sono uniti genealogicamente o condividono caratteristiche sia fisiche che morali, per cui si può essere in un certo senso parenti  p.e. dei lupi ma non dei koala, di una montagna ma non del fiume che le passa vicino ecc.).  
[22] Fatta salva la più che comprensibile antipatia di Descola per il termine natura (vista la sua lunga storia, così ricca da renderne il significato troppo elastico), è facile scorgere dietro il suo concetto di naturalismo parte della critica di Horkheimer e Adorno all’Illuminismo, come mi ha fatto notare l’amico S. Fazzi. Sul termine natura v. B. Latour, (2015 / 2023: 15-55).
[23] Mbembe fa partire la sua argomentazione dall’idea megalomane (nata in Occidente) di un linguaggio capace di dire tutto il mondo. In occidente ne sono nate anche altre, meno ambiziose, più realiste e più apprezzate dagli esperti in materia, ma il punto è chiaro.
[24] Da Bultmann a Jonas passando per Camus (per non citarne che i più famosi).
[25] Cf. M. Eliade, (1989/2001: 1177-1181).
[26] Sul tema della morte nel mito e persino sulle opinioni dei nostri antenati sapiens al riguardo v. J. d’Huy, (2023: 328-37). V. in particolare l’elaborazione della base cognitiva dei miti sulla morte e dei simboli luna e serpente.
[27] (2020). La marcatura binaria permette di stilare alberi fenotipici delle varie versioni sulla base della probabilità di incidenza dei più piccoli dettagli. Lo studio di d’Huy è talmente recente che ci vorrà del tempo perché la comunità scientifica lo vagli in profondità. Attualmente mi sembra ancora tradizionalmente divisa fra universalismo psicologico e parentela genetica.
[28]  W. Wright (1975) ha fornito p.e. un’ottima analisi del gun hero del Western come eroe individualista-capitalista.
[29] P.e. Eliade e Jung.
[30] Questa formula vale certamente per tutte le narrazioni mitiche. Per quelle storiche i fatti non dovrebbero seguire ma precedere le parole.
[31] Su questo punto è stato scritto moltissimo. V. L. Brisson (2004, cons. in ebook).
[32] Per un’esposizione dei miti usati da Platone v. G. Reale (2019: 401-30). La stessa fonte descrive alle p. 375-400 il rapporto di complementarità (non di esclusione) in Platone fra mythos e logos. Che entrambi fossero veicoli di verità per la mentalità greca (come, con quale dialettica all’interno di un sistema lessicale molto ampio e attraverso quali figure di autorità) è magistralmente spiegato dal celebre M. Detienne (1967). L’aspetto religioso del mito (relativamente alla Grecia antica) è affrontato da J.P. Vernant (1990). Sulla pratica comunicativa del mito v. P. Veyne (1983).
[33] Questo è forse il punto di maggiore ingenuità della proposta di Mbembe.
[34] Immagini, nei miti platonici, composte da simboli verbali.
[35] È nota l’insistenza dei miti cosmogonici sul corpo e sulle sue supposte capacità creative (come pure il ruolo del corpo in molti riti). Parte della longevità del mito come forma di memoria, rispetto all’univocità effimera di molti strumenti tecnici, si deve alle sue duttilità materiale (varianti libere) e ambiguità semantica, che genera ovviamente, accanto al fiume carsico della propria trasmissione, il corso ermeneutico parallelo della propria interpretazione.
[36] Sul concetto terribilmente importante di incertezza v. G. Bronner (1997). Che si tratti di incertezza di risultati (mangerò, dormirò, troverò un lavoro/partner…?) o di incertezza di contenuti (c’è una vita dopo la morte? Napoleone era italiano?…), per raggiungere i nostri obiettivi, tendiamo a cercare dati (o a immaginarceli) e a riportarli in un contesto di cui ci sentiamo padroni. Secondo Bronner di fronte a contesti incerti applichiamo tre precise strategie psicologiche (e culturali) di riduzione dell’ignoto al noto: rappresentatività (cerchiamo nella realtà enigmatica elementi tipici di un modello concettuale tratto dal nostro o da un passato altrui che ci aiuti a trovare il bandolo della matassa: se guardo qualcuno fare un solitario che non conosco per interpretare la partita potrei usare le regole di un altro che conosco), disponibilità (cerchiamo nella nostra memoria elementi simili a quello che stiamo vivendo: se vedo della gente giocare a pallamano, ma io non lo so perché non conosco questo gioco, per uscire d’impiccio potrei concentrarmi su quel che vedo: due squadre, un campo da gioco, una palla, delle porte…  ), ancoraggio (se ho pochi anni e non so dove è finito il mio vecchio zio tanto simpatico recentemente defunto, mi oriento a un punto che dichiaro fisso, p.e. un proverbio, un i miei genitori dicono che.. ,un ho letto in internet che…, oppure un mito, o qualunque altro dato-nozione che do per certo) .
[37] V. n. 26 e 27.
[38] V. n. 14.
[39] Cf. Byung-Chul Han (2023: 74). 
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Francesco Azzarello, è stato segretario della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, ha partecipato a varie attività antimafia collaborando con diverse associazioni palermitane. In Germania dal 1997, ha studiato Filologia romanza e Filosofia a Colonia. Dal 2003 insegna Filologia romanza a Friburgo. Oltre alle pubblicazioni accademiche in linguistica, letteratura e storia della cultura ha scritto di mafia, filosofia, teologia interreligiosa e altro. Dal 2015, con alcuni amici, accompagna diverse famiglie di profughi nel percorso di integrazione in Germania.

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