di Aldo Gerbino
Bisogna inginocchiarsi nell’erba alta /quando tira il vento, così che l’erba superi la nostra testa / e le vipere e gli orbettini scivolino / tra i nostri piedi, e allora / nell’energia contorta dei tuoi spaventevoli rami, / si ascolta la voce della scienza, / che ha il volto rupestre di Dio.
[Pier Luigi Bacchini, da “Preghiera sotto la quercia” in Scritture vegetali, Milano 1999]
La sensazione che sia assolutamente necessario un cambio di paradigma sul rapporto natura-cultura si avverte, con maggiore pregnanza, rileggendo il «Manifesto di Rio Negro» del critico d’arte Pierre Restany. A ventuno anni dalla sua scomparsa (Amélie-les-Bains-Palalda, 22 giugno 1930-Parigi, 29 maggio 2003) è rimasta intatta la sua capacità di trasmettere una forza propulsiva disposta nella permeante forma di un’onda di ‘commozione’ lanciata, senza alcuna riluttanza, nell’intima struttura del mondo. Un mondo stretto tra il monopolio della metafora, come lo stesso Restany ha avvertito, e l’asfissia di una urbanizzazione e d’una accelerata civiltà verticalista la quale ci impone il non poter guardare la forza pervasiva di quel verde ‘primigenio’ che dipinge il nostro pianeta in un’ampia cromia di significati e di esiti.
Ricordando la presentazione del Manifesto tenutasi a Milano, nella barocchetta atmosfera di Palazzo Sormani Andreani, nel lontano 13 febbraio del 1979, ci si riappropria – nell’odierna discrasia delle posture etiche – del narrare di Pierre, della sua esperienza con la natura nel momento in cui l’uomo-cittadino e i suoi compagni di viaggio, Sepp Baendereck e Franz Krajcberg, impattano, in un battello navigante nello spazio fluviale per quarantacinque giorni, con la possanza biologica e fisica del Rio Negro. Restany, per tale commosso urto subisce, a suo dire, uno shock capace di determinare una vera e propria estensione del suo pensiero critico sull’arte a lui coeva. «La natura, la grande natura, – afferma – che dà proprio tutto il suo significato al concetto di Naturalismo Integrale, deve essere considerata, almeno per me, come un fattore di igiene mentale e come un metodo di percezione globale». Si è, di certo, in una fase iniziatica che spinge e sollecita l’evoluzione del suo pensiero critico-estetico spostando l’asse di attenzione e partecipazione, – punteggiata da suoi transiti compresi tra l’Arte biodegradabile di Filippo Panseca sostenuta dal critico Guido Ballo e la Mec-Art di Rotella e Alain Jacquet, – dalla teorizzazione del ‘Nouveau Réalisme’ al ‘nuovo approccio percettivo del reale’, vale a dire al germinante nòcciolo del ‘Naturalismo Integrale’.
Il Nouveau Réalisme, movimento nato il 27 ottobre del 1960 e promosso dal critico e scrittore Pierre Restany (l’intelligentissimo per Giulio Carlo Argan), s’irradia, dal suo Gruppo originario, nella drammaticità ambientale dell’oggi, restituendoci, in pienezza comunicativa, la loro visionarietà, quel loro essere stati premonitori del disastro e dell’ingresso delle molteplici e destruenti dinamiche nell’attualità del nostro antropocene. Il diorama è palmare: da Yves Klein (1928-1962) con il blu oltremare ad Arman Fernandez (1928-2005) e i suoi rifiuti di scatolette e bidoni a François Dufrêne (1930-1982), teorizzatore di un alfabeto di suoni ultra-lettristi (ben descritti per mezzo di segni grafico-pittorici proprio a seguito del ‘lettrismo’ di Isidore Isou) in cui, obliando le parole scritte, si fa spazio al suono, all’onomatopea, travasando poi nel retro dei manifesti stracciati e incollati su tela. Oppure, con Raymond Hains, (1926-2005), scorrere lungo lacerazioni e legni dipinti o, con Martial Raysse (1936), poter raccogliere gli assemblaggi di scarti sublimati tra pedane di ritratti dal deciso cipiglio oscillante tra il proto-neo-rinascimentale e il pop, seguendo, con Daniel Spoerri (1930), “quadri-trappola” o le scenografie della Eat-art, rappresentazione, più che del cibo, della tavola: stoviglie colte quasi nella misura poetica espressa dal “Lex Icon” di Salette Tavares.
Mentre il paesaggio visual si stravolge con Jean Tinguely (1925-1991) nell’assorto groviglio di méta-matic (assemblaggi di motori e vari segmenti metallici), vere e proprie ‘macchine inutili’, si approda, con Jacques Mahé de la Villeglé (1926-2022), tra objets trouvés raccolti a Saint-Malo o le sue policromatiche lacerazioni di affiches. Un Gruppo che firma – con nove esemplari manoscritti – il Manifesto a cui si aggiungeranno: César Baldaccini (1921-1998) nell’evidenza delle sue espansioni come nella scultura Le Pouce (1994) alla Defense di Parigi; Mimmo Rotella (1918-2006): dai décollage al reportage e alle tele art-typo; e da Niki de Saint-Phalle (1930-2002), l’intrigante donna che dipinge ‘sparando’ (un’ironica illustrazione ce la presenta la matita di Walter Molino) a Gérard Deschamps (1937) con la sua ‘biancheria femminile’, gli scarti metallici militari e le pneumostructures (opere in plastica gonfiabili) e, inoltre, con il bulgaro Christo (1935-2020), per potersi specchiare tra scatole e impacchettamenti.
Da questo sostrato «Natura Integrale», rivista bimestrale (1979-1982, 20 fascicoli) fondata da Pierre Restany e Carmelo Strano (edita da Vanni Scheiwiller), avverte nel sottotitolo, sin dal numero 1 del primo anno (aprile-maggio 1979), delle finalità estetiche, etiche e metodologiche. «Rivista-laboratorio» – si legge – con «interventi sulla sensibilità comune, analisi e verifiche attuali». Il termine ‘Laboratorio’ offre il proprio banco di prova nel modo più diretto attraverso la discesa in trincea, in quel campo aperto delle discrasie eco-territoriali, nel manto soffocante delle urbanizzazioni per cui possono essere condotte le opportune analisi e verifiche sull’ambiente che consentano di ampliare il proprio sensorio in rigenerati spazi psicosensoriali, acuendo, appunto, la sensibilità collettiva. Una ricerca sostenuta dalla sperimentazione: il tastare le pieghe che ‘piagano’ il territorio; un cammino sperimentale che ha caratterizzato artisti degli anni Settanta per cui, puntualizza Strano, nel suo “Gli anni Settanta” (Gli orientamenti dell’arte occidentale, tra società, pensiero, tecnologia), come lo
«sperimentare in arte non è la stessa cosa che sperimentare nella scienza, anche se in questo caso i due domini hanno in comune la ricerca. Nel caso della scienza la ricerca non finisce mai, non si esaurisce nel tempo. Per quanto riguarda l’arte la ricerca è più fortemente connessa con l’evoluzione biologica dell’autore. Si potrebbe dire, inoltre, che nell’arte la ricerca non è necessaria al suo esistere: che si tratti di linguaggio deviante o accreditato (o tradizionale), l’arte può affermarsi ugualmente con presunzione e forza».
Quando, allora, s’interroga Strano, “si sperimenta in arte?”. Nel momento in cui, sottolinea, «si è pieni di tensione, di desiderio di novità» (Skira, Milano 2005: 52-53).
Di già – avvertiva Restany – l’intervento del critico «Carmelo Strano risale con efficace sintesi proprio a questa linea evolutiva e genetica del mio pensiero artistico, citando Duchamp, Klein», cosicché il “virginale” e il “primitivo”, consegnati da Strano nella loro qualità di piccoli monoliti nello scenario critico di Pierre, sorreggono e alimentano ulteriormente la coincidenza tra l’urbano e il clorofilliano. L’esempio del blu monocromale di Yves Klein, l’artista di Nizza scomparso nel 1962, anticipatore della body art (in atmosfere pervase dal Nouveau Réalisme e lontananti tracce del ‘ready made’), per il quale ogni mutamento impresso al corpo (dal ‘branding’ al ‘body painting’) magnifica la potenzialità del linguaggio corporeo, sollecita ogni valore di segno partecipando, con novella energia e per estesa empatica emozionalità alla relazione con ogni elemento d’ambiente e, in particolare, opponendosi all’inarrestabile processo di asfissia che investe il grande scenario naturale e l’innocenza del ‘selvaggio’ resi sempre più crudamente impoveriti, immalinconendo ogni tessera della vita terrestre.
Tale intensificazione comunicativa, di forte impatto semiologico, si identifica, per certi aspetti, con quella capacità di sinergia e più affinata percezione stretta alla natura, inserendosi, con maggiore efficacia, anche nell’ineludibile dimensione cromatica, per cui il colore, rappresenta una sorta di cartina di tornasole sulla fisiologia o sulla patologia del sistema biologico del pianeta, Esempio, questo, magnificato proprio da Klein nel blu, – poi tradotto nel 1956 in un International Klein Blue (IKB) e stabilizzato con un legante brevettato, il Rhodopas M 11, – e che non può non identificarsi con il valore cromatico dell’interezza del pianeta Terra. Non è certo un caso che la recettività intellettuale mostrata per questo artista dall’entusiasmo di Lucio Fontana (presente alla sua mostra del 1957 nella milanese Galleria Apollinaire di Guido Le Noci e dove, qualche anno più tardi, esporrà Armando Marrocco con i germi della sua ‘arte comportamentale’), suggerisce come l’ostinazione sul tema (con tutte le sue declinazioni) sia spinto sino all’iperbole, peraltro già vorticante nelle storte della sperimentazione sin dall’ottobre del 1955, in occasione della sua prima personale al “Club des Solitaires”.
Klein, l’artista francese dell’immateriale, distribuisce le sue opere monocromatiche (dal rosa al rosso, dal verde al blu, dal giallo all’arancione) in cui lo stesso pennello viene abolito e sostituito da un rullo, e, come in altre esperienze, non è una bizzarria far uso di elementi naturali: ventilazione, fuoco, acqua piovana, piuttosto è l’adesione ad una poetica che ha da fare con la percezione (e introiezione) della Natura. Così non ci stupiamo che i corpi delle modelle cosparsi di pigmenti, trasferiscano il colore dal tegumento al supporto, in un commutare relazioni tra carnalità e cromaticità (Ant 82, Anthropométrie de l’époque bleue) oppure, in altre esperienze performanti, l’intento disambiguante coltivato nel gusto immateriale, si spinga nella ricerca del vuoto per amplificare lo spessore sensoriale a partire dall’elusività dello sguardo: un vedere destinato alla fruizione retinica e alla lettura emozionale semanticamente sovrapponibile al verde monocromale della Amazzonia in cui, più avanti negli anni, starà immerso Pierre. Tutto ciò par che sorregga tale ‘commozione’ umanissima e allo stesso tempo agra di Restany, come quel suo attendere una “prova futura” cui le arti saranno chiamate a mostrare. L’affermazione del critico francese avvalora, infatti, il come «al di là del concettuale, al di là del realismo, al di là di tutte queste meccaniche della metafora, esiste, certamente, una zona franca del libero pensiero e dell’apertura della sensibilità». Emozione, si diceva, che gemma dallo stare in full immersion nelle trincee del mondo: aspre, meravigliose, sensoriali, capaci di acuire tali link, un aprire porte contro certe asfissie critiche nate da un accademismo che, come usava ricordare Alberto Savinio, è sicura variante del conformismo.
Su tale salutare e pervadente onda emotiva che nulla toglie alla ‘commossa’ partecipazione umana si spande, nel pensiero di Restany, un avvertito, nuovo, lucido sentimento nei confronti della natura (commozione da tradurre in intima e totalizzante partecipazione all’ambiente e al suo cuore geologicamente antico), ciò in parallelo alla lucidità, allora espressa da Strano sul percorso della rivista “Naturalismo Integrale”, che ci porta a ritrovare una gemma genealogica collegabile a quell’ incipit di Walking (“Camminare”) coniato da Henry David Thoreau e che racconta – in quel suo descensus in un creato vestito di forti idealità – il necessario impulso armonicamente risolto nella segreta pulsione di un’esistenza percepita come necessaria materia del pianeta: un voler testimoniare l’umana relazione, libera e selvaggia, da riallacciare ad un organismo per far riemergere: il sistema naturale. «Vorrei spendere una parola in favore della Natura», affermava perentoriamente Thoreau, e ciò con la chiara idea di contrapporsi alla tangibile rete offerta, con robusta evidenza, da una “cultura puramente civile” da sempre ordinata da folti drappelli gestiti dai chiassosi “paladini della civiltà”, affinché – aggiungeva – si possa «considerare l’uomo come abitatore della Natura, come sua parte integrante, e non come membro della società».
Esercizio intellettuale già leggibile in Paul Klee, nei suoi secrets de la natura, in quell’astrattismo mai scevro dalla pratica costante della realtà sempre deposta nella ribollente cuna di filosofi, poeti, biologi e morfologi della natura: orizzonti che vanno da Ernst Haeckel a Ernst Cassirer, da Henri Bergson a Wilhelm Bölsche a Rudolf Steiner o che rileggiamo nell’espressionismo astratto di Paul Jackson Pollock. Realtà paragonabile al grido inascoltato che l’Europa cercò di non sentire, non assorbire, – fatta eccezione per poeti e filosofi che rispondevano ai nomi di Paul Eluard, André Breton e Jean Paul Sartre – esploso in quel 1939 (Restany era ancora un fanciullo) con la voce di un ventiseienne martinicano di colore consegnata ad un suo poemetto, Cahier d’un retour au pays natal, un disperato e speranzoso canto. Il suo nome? Aimé Césaire. Con lui, nella prossimità di quella civiltà vogliosa di riscatto promossa da Senghor, in una natura cruda e meravigliosa sbocciata da piaghe secolari del popolo nero, proprio in quel seme indiscusso della négritude sta la miscela umorosa di cultura meticcia, una materia clorofilliana ribadita, con Restany, da Carmelo Strano.
Quaranta anni dopo, a Milano, il segno non di un semplice ritorno, ma d’un approdo necessario verso la consapevolezza etica delle arti, Pierre Restany accoglie le istanze degli anni Settanta del secolo scorso in cui da Giulio Carlo Argan a Filiberto Menna, da Umbro Apollonio a Maurizio Fagiolo dell’Arco, da Maurizio Calvesi a Lara Vinca Masini, da Germano Celant a Gillo Dorfles ad Arrigo Lora Totino, solo per citarne alcuni, rivisita la loro attenzione all’urbanistica, alla prossemica, al concreto tra arte e poesia, all’happening e, con accenti sempre più decisi, alla natura, all’ergonomia e all’arte organica imprimendo una correzione del tiro. Un naturalismo, dichiara Restany al n. 2 della rivista del 3 agosto del 1978, letto ed esteso «come disciplina del pensiero e della coscienza percettiva»; un’estensibilità, si legge più avanti, che deve raggiungere il sistema politico. Un senso della natura che egli proietta nel suo ‘appunto’: “Political Ecology”: Nuove strategie d’intervento nel campo della comunicazione globale, traccia in cui si afferma:
«L’Ecologia Politica, nella cultura globale, s’inserisce in quel movimento di pensiero platonico-kantiano che, dalle antiche utopie sulla ‘città bella’, approda nella contemporaneità, ad una ecologia della mente utopica, quale antidoto e forma benefica di libera creatività, d’immaginazione, ma anche di un “pensare e produrre meglio per vivere meglio”. L’arte con le sue ecologie sensoriali e culturali insieme all’Architettura e al Design, sono oggi, i più importanti vettori di umanesimo della comunicazione. L’Ecologia Politica, nella cultura globale s’inserisce nel cuore della fondamentale opposizione di strategia e di tattica. Di fronte alla strategia di potere della globalizzazione economica, l’ecologia politica rappresenta la coscienza della marginalità e la sua tattica poetica-culturale».
Da tali ingredienti il “Naturalismo Integrale”, espresso da Pierre Restany e condensato con Carmelo Strano nella rivista, dicono e sostanziano ancora e soprattutto oggi, quella commozione che è apparsa, simile all’urlo di Aimè (Cesaire, Le armi miracolose, Guanda, Parma 1962), a Milano in quel freddo 13 febbraio del 1979:
«…terra tesa / terra sazia / terra grande sesso levato verso il sole / terra grande delirio della mentula di Dio / terra selvaggia a cavallo delle grotte del mare con in / bocca un ciuffo di cecropie. / terra della quale non posso paragonare il volto ondu- / lato che alla foresta vergine e folle che vorrei / poter mostrare al posto del viso agli occhi incom- / prensivi degli uomini / mi basterebbe una sorsata del tuo latte jiculi perché / in te io scopra sempre alla stessa distanza di mirag- / gio – mille volte più nativo e dorato di un sole / che non intacchi alcun prisma – la terra dove / tutto è libero e fraterno, la mia terra».
Forse è giunto il momento, suggerisce poeticamente Pier Luigi Bacchini nelle sue “Scritture vegetali” del 1999, d’inginocchiarsi nell’erba alta fino a coprire il capo: per riflettere? per capire? Questo potremo anche farlo, almeno fino a quando ci sarà sulla Terra, sotto il fallibile volto bacchiniano di un Dio rupestre’, l’erba, quel liquore verde del suo fiato, la riflessa azzurrità delle nubi.
Dialoghi Mediterranei, n.68, luglio 2024
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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014).
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