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Confessione in nave tra laici. Una ricerca filologica

cms-header-dunois-with-text_4di Paolo Cherchi 

In due testi capitali del diritto canonico, ossia nel Decretum di Ivo di Chartres e nel più fortunato Decretum di Graziano [1], troviamo la seguente storia che serve ad avviare la nostra ricerca sul tema della “confessione tra laici in mare”. Partiamo dal Decretum di Ivo di Chartres, precisamente dalla “distinctio” CXCI in cui si legge il seguente passo basato sulla auctoritas di «Augustinus in libro ad Fortunatum»: 

Namque in necessitate cum episcopi aut presbiteri aut quilibet ministrorum non inveniatur, et urget periculum ejus qui petit, ne sine isto sacramento hanc vitam finiat, etiam laico dare solere, sacramentum quod acceperant, solemus audire. Nam cum illa historia narratur, omnes qui audiunt prope ad lacrymas movet. Cum in navi quadam fidelis nullus esset praeter unum paenitentem, coepit imminere naufragium. Erat ibi quidam salutis suae non immemor et sacramenti vehementissimus flagitator, nec erat aliquis qui dare posset, nisi paenitens ille. Acceperat enim, de peccato de quo agebat paenitentiam. Amiserat de senioribus sanctitatem; sed non amiserat sacramentum. Nam si hoc amittunt peccantes, cum reconciliantur post paenitentiam, quare non iterum baptizantur? Dedit ergo quod acceperat et, ne periculose vitam finiret non reconciliatus, petiit ab eo ipso quem baptizaverat ut eum reconciliaret. Et factum est, evaserunt naufragium. Cognitum habes quod fecerant, nemo extitit eorum, qui non pium animum ita crederet, ut consiliis eorum in illo periculo Dominum crederet adfuisse. Motus enim animus religiosus et supplex ab homine exegit sacramentum, a Deo impetrat sanctitatem. Quod si forte hoc quod narravi qui naufragio imminente periclitabatur, non vult aliquis credere: non enim hoc Scripturarum divinarum auctoritas, sed incerto auctore fama commendat, non repugnabo, sed interrogo si tale aliquid contingat, quid futurum est? Non enim potest quisquam dicere, relinquendum illum esse, qui morte imminente baptizari desiderat, quem baptizatum a penitente quisquis non credit contigisse, oportet ut credat, posse contingere [2].
[(Supponiamo che) su una certa nave non ci sia alcun fedele eccetto una persona che sia in stato di contrizione, e cominci ad essere imminente il naufragio.  C’era lì un certo uomo, non oblioso della propria salvezza e ardente sollecitatore del sacramento (i.e. il battesimo), e non c’era chi potesse amministrarglielo se non quel penitente. E infatti costui apprese del peccato di cui quello si lamentava. Aveva perso la salvezza (l’assoluzione) impartita dai seniori (della Chiesa), ma non perse il sacramento. Infatti se i peccatori perdono quel sacramento, quando si riconciliano con Dio, visto che non possono essere battezzati nuovamente? Diede dunque quel che aveva ricevuto, e per non finire pericolosamente la vita da non riconciliato, chiese a quello stesso che l’aveva battezzato che lo riconciliasse (con il Signore), e una volta che fecero questo, scamparono dal naufragio. Adesso hai capito quel che fecero. A ciascuno dei due fu chiaro che credevano con animo puro che la loro decisione presa in quel momento di pericolo sarebbe giunta a Dio.  Infatti l’anima religiosa e supplice dell’uomo richiese ed ottenne il sacramento del battesimo; l’altro di fatto ottenne la salvezza da Dio stesso. Se per caso qualcuno non vuol credere alla storia che ho raccontato di quello che in mare si trovava in pericolo nell’imminenza di un naufragio, sappia che non l’ho ricavata dalle Sacre Scritture, ma lo raccomanda per fama un autore incerto, io non mi opporrò, ma mi chiedo cosa accadrebbe se avvenisse un tale evento? Infatti qualcuno potrebbe dire “lascia perdere, quello che è davanti alla morte imminente vuole essere battezzato, ché chi non crede che sia accaduta una cosa del genere, bisogna che creda che questo possa accadere].
Yves de Chartes

Yves de Chartres

Si nota subito qualcosa di strano, e cioè che il penitente battezzi l’uomo che lo confesserà, perché, evidentemente, la confessione può essere fatta ad un laico purché sia cristiano. Ma ancora più strano è che in questo racconto manchino tutte le coordinate storiche necessarie per un racconto, e quelle essenziali dovrebbero essere il nome del personaggio, un qualche riferimento al tipo di nave e una minima osservazione sull’evento della tempesta.  Ovviamente chiediamo troppo ad un testo di un’epoca così remota e un testo dove tali coordinate narrative sono normalmente omesse. Eppure lo notiamo perché più che un aneddoto normale, questo passo sembra presentare un “casus” [3] da dibattere come accadeva nelle vecchie controversie.

31229832807Il contenuto di questo “casus” ci sembra interessante per due motivi: il primo è che sia ambientato in mare; il secondo è che tratta un problema teologico che stava cominciando ad esser dibattuto specialmente da quando, verso la metà del XI secolo era apparso il De vera et falsa penitentia, attribuito ad Agostino [4]; e ricordiamo che Ivo di Chartres pone il suo racconto sotto un capitolo che lo indicherebbe come ricavato dal Liber ad Faustum di Agostino, dove però non l’abbiamo riscontrato. L’opera pseudo-agostiniana ebbe un’importanza decisiva nel proporre in termini teologici il problema della confessione tra laici. Nessuno poneva in dubbio l’autorevolezza di Agostino, ma era difficile, anzi impossibile capire come una confessione senza penitenza e senza assoluzione potesse essere valida agli occhi di Dio. E proprio per questo l’argomento suscitava dibattiti, come vedremo.

In effetti questo tipo di confessione cominciò a preoccupare i teologi in quanto non risultava chiaro il valore sacramentale di una confessione fatta ad un laico. Comunque ci volle del tempo per contestare in modo definitivo il principio che Agostino espresse in modo così conciso da dargli il valore di una legge: «Tanta vis confessionis est, ut si deest sacerdos, confiteatur proximo»[5], ossia “Tanta è la forza della confessione che se manca un sacerdote, ci si confessi con il vicino”.

L’altro elemento strano è che il racconto del battesimo e della confessione si svolga in mare perché proprio questo dato sembra unico; ma dalla storia che ricostruiremo per contestualizzarne l’unicità, vedremo che affiorerà più tardi in testi in volgare ambientati nel Mediterraneo. 

La confessione fatta ad un laico in assenza di un sacerdote era una pratica conosciuta fin dalle origini del Cristianesimo se in nell’Epistola catholica di San Giacomo leggiamo: «Confitenimi ergo alterutrum peccata vestra, et orate pro invicem ut salvemini» (5: 16): «Perciò confessatevi l’uno con l’altro e pregate l’uno per l’altro per salvarvi». E sappiamo che in Beda il Venerabile commentando il versetto di S. Giacomo appena ricordato, dice che si possono confessare i peccati più leggeri ai nostri vicini perché la loro preghiera può essere d’aiuto nell’ottenere il perdono («quotidiana leviaque peccata alterutrum coaequalibus confiteamur eorumque credamus oratione salvari» [«confessiamo reciprocamente ai nostri simili i peccati correnti e leggeri, e crediamo di essere salvati dalle loro preghiere»]) [6]

71eb783n2hl-_ac_uf10001000_ql80_Apprendiamo questi dati e vari altri da un libro di Paul Laurain apparso alla fine dell’Ottocento, ma non ancora invecchiato: De l’intervention des laïques, des diacres et des abesses dans l’administration de la penitence. Étude historique et théologique, Paris, Lethielleux, 1897. Laurain non era un pioniere in questo tipo di studio poiché vari sono i lavori classici sulla storia della confessione Ricordiamo soltanto lo studio di Dom Edmond Martene, De antiquis Ecclesiaes ritibus del 1700-1702 e il più recente di Henry Charles Lea, A History of Auricular Confession and Indulgences in the Latin Church, 1896. In questi classici il tema della “confessione fatta a laici” viene toccato solo in modo tangenziale, mentre nel libro di Laurain esso acquista un posto centrale. Notevoli sono anche le opere che seguono le sue orme, e fanno di Laurain un precursore. Fra questi ultimi ricordiamo Georg Gromer, Die Laienbeicht im Mittelalter (München, Lentner1909) e lo scritto di Amedé Teetaert, La Confession Aux Laïques Dans l’Église Latine Depuis Le VIIIe Jusqu’au XIVe Siècle: Étude de Théologie Positive (Paris, Gabalda, 1926).

Questi studi, e specialmente quello di Teetaert, mettono in luce l’evoluzione subita dal sacramento della confessione, che in un primo tempo diede l’importanza maggiore alla contritio, e in una seconda fase alla absolutio, e ciò spiega perché in un primo momento si accettò la confessione fatta a laici, mentre in un secondo momento essa divenne inaccettabile. I due studi offrono una cospicua serie di fonti, anche in lingua volgare, come prova di entrambe le tesi, e questo ci dispensa dal ripetere la loro ricerca e perfino di rimandare ad ogni passo alle loro indicazioni. Possiamo dire soltanto che non troviamo in essi alcuna documentazione sulla “confessione tra laici in mare”, per cui la nostra ricerca si concentra su un punto mai studiato prima, e quindi con documentazione inedita.

Per la parte dottrinale ci limitiamo a ricordare che dopo Beda del tema si era occupato Pietro Lombardo, il quale tratta il problema della confessione tra laici nei suoi Libri Sententiarum precisamente nel libro IV alla distinctio XVII che  si apre indicando le tre quaestiones che vi si trattano: 

«Primo enim, quaeritur utrum absque satisfactione et oris confessione, per solam cordis contritionem peccatum alicui dimittatur; secundo an alicui sufficiat confiteri sine sacerdote; tertio an laico fideli facta valeat confessio».[7]
[In primo luogo ci si domanda se, a parte la soddisfazione e la confessione orale, si rimettano i peccati per la sola contrizione del cuore; in secondo luogo se sia sufficiente confessarsi a Dio senza sacerdote; in terzo luogo se abbia valore la confessione fatta ad un fedele laico]. 

E venendo alla terza questione, quella che a noi interessa, risponde che non basta confessarsi a Dio senza un sacerdote perché non c’è umiltà e penitenza se non si ricerca il giudizio del sacerdote. Ed ecco il punto per noi rilevante: 

«Sed numquid aeque valet alicui confiteri socio vel proximo suo, saltem cum deest sacerdos? Sane ad hoc potest dici quod sacerdotis examen requirendum est studiose, quia sacerdotibus concessit Deus potestatem ligandi atque solvendi; et ideo quibus ipsi dimittunt, et Deus dimittit. Si tamen defuerit sacerdos, proximo vel socio est facienda confessio. Sed curet quisque sacerdotem quaerere, qui sciat ligare et solvere. Talem enim esse oportet, qui aliorum crimina deiudicat. Unde Aug[ustinus] Lib[er] de vera et falsa poenitentia, cap. X, “qui vult confiteri peccata ut inveniat gratiam quaerat sacerdotem qui sciat ligare et solvere….».[8].
[Ma è forse ugualmente valido confessarsi ad un amico o ad un suo vicino, specialmente se manca un sacerdote? Certamente su questo punto si può dire che si deve in tutti i modi cercare l’esame del sacerdote poiché ai sacerdoti Dio ha concesso la potestà di legare e assolvere, e pertanto ciò che essi rimettono anche Dio lo rimette. Tuttavia, se manca un sacerdote, si deve fare la confessione ad un amico o a un vicino. Ma ci si deve sforzare di trovare un sacerdote il quale sappia legare e sciogliere. Infatti bisogna che sia una tale persona che giudichi i peccati degli altri. Per cui Agostino nel Libro de vera et falsa penitentia, al cap. X “Chi vuole confessare i peccati per trovare la grazia cerchi un sacerdote che sappia legare e sciogliere …]. 

9783830675259-itAbbiamo citato per esteso perché si tratta di un testo veramente capitale in quanto i Libri sententiarum sono il cardine della Scolastica. Infatti sulle orme di Pietro Lombardo il problema della confessione tra laici venne discusso ripetutamente anche dai maggiori teologi del tredicesimo secolo, quali Alberto Magno,  il quale afferma tassativamente che: «Valet confessio facta laico, ubi articulum necessitatis, non contemptus religionis non contemptu religionis  exludit proprium vel alienum sacerdotem» [9], ossia «La confessione fatta ad un laico è valida, nel caso che sia dovuta a ‘necessità’ e quando il disprezzo della religione non escluda il proprio o l’altrui sacerdote».

Tomaso d’Aquino, commentando le Sententiae di Pietro Lombardo e venendo a discutere il valore sacramentale della confessione, sostiene che solo il sacerdote assolve completamente  tutti i requisiti sacramentali, ma ammette l’eccezione della confessione ad un laico in caso di necessità, anche se il sacramento non sarà usato con pienezza perché un laico non può imporre una penitenza. Egli dice testualmente «Sed quando necessitas imminet, debet facere paenitens  quod ex parte sua est, scilicet conteri, et confiteri cui potest» [10], cioè: «Ma quando domina la necessità, il penitente deve fare da parte sua ciò che deve, cioè pentirsi e confessare a chiunque gli sia possibile farlo».

Dissente dal Dottore Angelico, il suo contemporaneo S. Bonaventura, il Doctor Seraphicus, il quale osserva: 

«Nam laicis confiteri non licet cum possunt haberi catholici sacerdotes. Quod enim dicitur quod in extremis debeat homo laico confiteri, si sacerdotem non habeat, non est de necessitate, cum laicus non habeat auctoritatem aliquam absolvendi, sed est signum tantum contritionis, quo perpenditur, quod sacerdotem desideraverit qui laico est confessus» [11].
[Ai laici non è permesso confessarsi quando non possono disporre di sacerdoti cattolici. Infatti, ciò che si dice che in casi estremi ci si debba confessare con un laico se non c’è un sacerdote, non è cosa che si imponga per necessità, in quanto un laico non ha alcuna autorità di dare l’assoluzione, ma è soltanto un segno di contrizione, su cui si valuta, perché chi si confessa ad un laico avrebbe desiderato farlo con un sacerdote]. 

9788867740765_0_536_0_75Come si vede non c’è unanimità fra i teologi su questo punto, ma è anche chiaro che si tratta di un punto non trascurabile. Con il tempo la posizione ostile a tale tipo di confessione ebbe il sopravvento. Infatti, se ancora nel Quattrocento il problema continua ad essere dibattuto, per la fine del Cinquecento esso scomparve completamente dalle discussioni teologiche. E possiamo capire che la confessione tra laici cadde in disuso per motivi che non erano soltanto teologici e che comunque sono in parte facilmente intuibili. La confessione ad un amico o ad un vicino conosce solo due gradini del sacramento, cioè la contritio o pentimento, e la confessio oris ovvero la confessione orale dei peccati; mancano però la satisfactio, ossia la penitenza, e la absolutio, ovvero l’assoluzione. Erano lacune “mortali” nel senso che una confessione così ridotta rispondeva solo parzialmente alle esigenze dottrinali, e per questo viveva di una vita precaria.

30308479493Ma forse il motivo più serio della sua scomparsa è che le mancava il sigillum sacramenti ossia il segreto al quale il sacerdote era obbligato. Si può immaginare che questa mancanza abbia dato luogo ad abusi e a scandali, e ciò segnò la fine “naturale” del costume senza che fosse necessario alcun intervento dottrinale. Sta di fatto che nella sessione XIV del Concilio di Trento, tenutasi nel 1551 (Laurain: 92) e dedicata al sacramento della confessione, non si fa neppure cenno alla “confessione fra laici”, anche nel caso che questi fossero “diaconi”. A conferma, ricordiamo che il grande maestro di diritto canonico Martín Azpilcueta meglio noto come Il Navarro, nel suo Enchiridion sive Manuale confessorum et paenitentium (1557), scrive che le confessioni tra laici non hanno alcun valore sacramentale, anzi sono da considerare peccaminose. Gli fa eco Domingo de Soto, il quale, commentando il testo di Pietro Lombardo appena ricordato, ritiene che in quel testo si parli di un rito antico, e per lui in nessun modo accettabile [12].

Questo venire meno del dibattito a metà del Cinquecento, spiega la sorpresa che noi, lettori del Duemila, sentiamo nei riguardi di un’usanza che ci risulta del tutto estranea.  Il battesimo, invece, resistette perché non aveva “impedimenti dirimenti”, e ancora oggi un laico può amministralo. Un lettore due e trecentesco trovava normale che nel Renaud de Montauban ou les Quatre fils Aymon si dessero situazioni come la seguente: 

«Car descendons à terre et si nos confessons,
Et de peus de cele herbe nos accomenion.
L’uns soit confès à l’autre, quant prestre n’i avon,
Et die ses pechiés par bone entencion.  (vv. 26-30)» [13]. 
[Perciò smontiamo e così ci confessiamo, e con quel poco d’erba facciamo la comunione. Gli uni si confessino con gli altri poiché non c’è un prete, e dica i propri peccati con buona intenzione]. 

71kztv6lj7l-_ac_uf10001000_ql80_Il tema, infatti, era diffuso nei romanzi medievali, epici o “d’aventure” che fossero, e ancora Laurain e Teetaert ne ha dato un bel campionario. Eppure fra tanti testi citati in quel lavoro fondamentale, non ce n’è uno che riguardi il mare, cioè proprio quell’elemento che ha destato la nostra curiosità in apertura di questo saggio. Per fortuna la curiosità apre nuove piste, e in questo lavoro ricorderò alcuni testi in cui la confessione tra laici ha luogo su una nave, e una nave che naviga nel Mare Nostrum, nel Mediterraneo.

Il primo testo è il cantare tardo trecentesco de La bella Camilla di Piero da Siena. Siamo al terzo cantare, ottave 30 e 31, e la scena si svolge su una galea: 

Disse Ricciardo: «A voi tener segrete
non vo’ quel che far debb’ïo tal fiata:
ogni padron di mare è come prete:
può confessare e solver le peccata.
Fortuna avendo, sì come vedete,
termine non abbiamo a tal mandata;
io posso dar parola degli acessi;
sì come preti l’un l’altro confessi».
 
Sì che Amadïo liberamente
udendo di Riccardo il suo parlare:
«Costui sa cciò ch’è del mar veramente
Sì che di morte non ci può scampare».
Allora incominciâr divotamente
con pianto l’un dall’altro confessare
battendosi forte tutti quanti,
botandosi <quale> a Dio e quale a’ santi [14]. 

51eoift2bal-_ac_ul600_sr600600_Per trovare un’altra testimonianza dobbiamo uscire dall’Italia e cercare una conferma di questa pratica in un romanzo destinato ad avere una grande fortuna. È il Tirant lo Blanc di Joanot Martorell, valenciano, morto nel 1468 prima che la sua opera venisse pubblicata nel 1490. L’episodio che ci riguarda ha luogo nella seconda parte del romanzo, quando Tirante salpa con la sua flotta dal porto di Costantinopoli e s’imbatte in un fortunale che dura sei giorni e alla fine naufraga sulle coste della Barberia. Durante questa peripezia, i marinai, disperati perché vedono la morte imminente, si confessano l’un l’altro: 

«La galera de Tirant féu la via de Barberia. E tots los mariners perderen lo tento del marinatge, que non sabien en quines mars eren, e tots ploraven e feÿen lo major dol del món. Agenollats cantaven la Salve regina. Aprés se confessaren los huns ab los altres e demanaren-se perdó» [15].
[La galea di Tirante prese la via della Barberia, e tutti i marinai persero il senso della direzione, e non sapevano in quale mare si trovavano, piangevano e facevano il lutto maggiore del mondo. Inginocchiati cantavano Salve Regina, poi si confessarono gli uni gli altri, e si chiedevano perdono] (ivi: 719-720). 

E l’episodio si ripete qualche capitolo più tardi: 

«Senyor — dix lo galiot — veu’s allà — senyalant — les mars de Sicilia, e aquestes són les de Túniç. E perquè sou persona virtuosa, me dolch més de vós que de mi, car la fortuna vol que havem de perir en aquesta trista costa de Barberia. E en semblant cars cascú deu demanar perdó a l’altre» [16].
[Signore, – disse il galeotto – vedo là – e nel frattempo indicava  – i mari di Sicilia, e questi sono quelli di Tunisi. E siccome siete una persona virtuosa, mi duole più di voi che di me, perché la fortuna vuole farci morire in questa triste costa di Barberia. In circostanze simili ciascuno deve chiedere perdono all’altro] (ivi: 725).  

Evidentemente è un tema prevedibile perché era viva ancora la nozione che la confessione tra laici avesse un valore religioso. Lo conferma una testimonianza di un poeta, imparentato con Martorell, il grande poeta anche lui valenciano, Ausiás March: 

Veles e vents han mos desigs complir
ffahent camins duptosos per la mar.
Mestre y ponent contra d’ells veig armar:
xaloc, llevant los deuen subvenir
ab lurs amics lo grech e lo migjorn,
ffent humils prechs al vent tremuntanal
que en son bufar los sia parcial
e que tots cinch complesquen mon retorn.
Bullirà·l mar com la caçola.n forn,
mudant color e l’estat natural,
e mostrarà voler tota res mal
que sobre si atur hun punt al jorn;
grans e pocqus peixs a recors correran
e cercaran amaguatalls secrets;
ffugint al mar, on són nodrits e fets,
per gran remey en terra exiran.
Los pelegrins tots ensemps votaran
e prometran molts dons de cera fets;
la gran paor traurà·l lum los secrets
que al confés descuberts no seran.
En lo perill no·m caureu de l’esment,
ans votaré hal Déu qui·ns ha ligats
de no minvar mes fermes voluntats
e que tots temps me sereu de present
[17].
[Vele e vento devono realizzare i miei desideri rendendo la mia strada insicura e dubbioso il mare. Vedo Maestrale e Ponente mettersi contro di essi; Scirocco e Levante, devono aiutarli con i loro amici, il Grecale e l’Affrico, facendo umili preghiere al vento del Nord che nel suo soffiare sia ad essi favorevole perché tutti e cinque realizzino il mio ritorno.
Ribollirà il mare come il tegame nel forno, mutando il colore e lo stato naturale, e mostrerà di non gradire tutto ciò che si posi su di esso per un istante. Pesci grandi e piccoli correranno a salvarsi e troveranno nascondigli segreti, fuggendo dal mare dove sono nutriti e fatti, e usciranno sulla terra alla ricerca di un grande rimedio.
I Pellegrini, tutti insieme, faranno voti e per la gran paura metteranno alla luce i segreti che non verranno rivelati neanche al confessore. Nel pericolo non mi dimenticherò di voi, né di sminuire la mia ferma volontà, e del fatto che sempre vi terrò presente]. 

71n5lmqet0l-_ac_uf10001000_ql80_L’ultima strofa allude ad una confessione collettiva più che ad una confessione con i compagni di viaggio. È un leggera variante del motivo di cui abbiamo visto la diffusione. Ma ora apprendiamo che questa tradizione esisteva ed era perfino degna di entrare nel registro lirico. 

Infine un altro tassello che documenta questo tipo di confessione: è la volta di Antonio Lo Frasso, sardo, autore di Los diez libros de la fortuna de Amor (1573).  Anche in questo romanzo pastorale si descrive un viaggio da un porto sardo a Barcellona, e durante questo tragitto la nave si trova nel mezzo di una tempesta. Il protagonista, che poi è l’autore stesso, teme di essere giunto all’estremo della sua vita:  

«Y con todo el trabajo y peligro, la necessidad les dava ánimo y esfuerço, que baxo el favor del alto Dios se ayudavan de los mejores remedios que podían: los unos echando la ropa y mercadería a baño, los otros vaziando el agua que dentro de la nave entrava, volviendo la mar Y al estremo de verse ya más muertos que vivos, con santas oraciones y devotas esclamaciones invocaron y encomendáronse al soberano redemptor del cielo y tierra y a su Virgen Madre Bendita y a todos los Santos y Santas, haziendo sus devotos pelegrinos a Jerusalén, a Santiago, a Monserrate y Lorito y otras devociones. Y viéndosse ya del todo perdidos, unos con otros se davan a menudo cuenta de sus pecados, pidiéndosse perdón con mil abraços y gritando con altas vozes, llorando la misericordia de Dios» [18].
[E al punto estremo di vedersi più morti che vivi, invocarono, con sante preghiere e devote effusioni, e si raccomandarono al sovrano Redentore del cielo e della terra e della sua Vergine Madre, Benedetta, e a tutti i santi e sante, facendo i loro devoti pellegrinaggi a Gerusalemme, a Santiago, a Monserrato e a Loreto e altri oggetti di devozione. E vedendosi del tutto persi, gli uni con gli altri si rendevano conto, e spesso, dei loro peccati, chiedendone il perdono con mille abbracci e gridando ad alte grida, piangendo per la misericordia di Dio]. 

pagine-sarde-paolo-cherchi-dino-manca-copertina_1In questo episodio quasi certamente Lo Frasso imitava il Tirant lo Blanc [19], e questo spiega perché mantenga in vita un’usanza che di fatto era già ripudiata e morta. Lo Frasso era un epigono che forse in una colonia ispanica stentava ad aggiornarsi su temi teologici, o forse il fatto che imitasse o che, comunque, usasse la copertura della “finzione”, gli consentiva di tenere in vita un motivo letterario che rendeva come pochi altri il senso del dramma davanti alla morte, quando si desidera essere “in grazia di Dio”.

Ma questo tema era davvero così poco corposo e per giunta moribondo? Forse la conclusione della nostra ricerca è un invito a scoprirne nuove testimonianze. I luoghi comuni, se davvero possiamo parlare in questi termini della “confessione tra laici”, diventano davvero “comuni” quanto più cresce il numero delle attestazioni; se invece le testimonianze addotte sono pressoché isolate, allora acquistano il pregio delle cose rare. Chissà se chi solca il mare magnum dei romanzi barocchi o i diari di viaggio di vari secoli, dal Medioevo ad oggi, non si imbatta in opere che hanno tenuto in vita un tema teologicamente screditato, ma dotato di potenziale immaginativo. E questi mari, naturalmente, dovrebbero includere anche gli oceani, e non solo il Mediterraneo in cui sono ambientati tutti i testi che abbiamo ricordato. 

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023 
Note
[1] Il testo si trova nel Decretum, De consacratione, Distinctio IV, can. “Sanctum”. Si ricordi che il canone verte sul seguente soggetto: “Valet baptisma etsi per laicos ministretur”.
[2] Ivonis Carnotensis, Decretum, Distinctio 191, in Patrologia Latina, CLXI, 107-108. Questo testo è citato parzialmente anche da Paul Laurain, De l’intervention des laïques, des diacres et des abesses dans l’administration de la penitence. Étude historique et théologique, Paris, Lethielleux, 1897: 17, nota 2.
[3] È il termine di una delle “forme semplici” studiate da André Jolles, Le forme semplici, ora accessibile in traduzione italiana ne I travestimenti della letteratura. Saggi critici e teorici (1897- 1932), a cura di Silvia Canterini. Premessa di Ezio Raimondi, Milano, Bruno Mondadori, 2002: 253-451; a “il caso” sono dedicate: 2379-399. L’edizione originale in tedesco, Einfache Formen, è del 1930.
[4] L’opera si può consultare in Migne, Patrologia Latina, XL, 1113-1130. Ma esistono edizioni moderne: una a cura di Karen Teresa Wagner, De vera et falsa penitentia. An Edition Study (Ph Dissertation, University of Toronto, 1995, secondo cui l’opera fu composta nel periodo 1000-1040; l’altra, e decisamente migliore, è quella a cura di Alessandra Costanzo, Il trattato de vera et falsa poenitentia: verso una nuova confessione, Studia Anselmiana, 154, Roma- St. Ottilien, 2011, entrambe le edizioni hanno eccellenti introduzioni.
[5] In PL, XL: 1122; nell’ed. di K. T. Wagner è alle righe 583-84, e nell’ed. Costanzo: 269.
[6] Super divi Iacob Epistolam i, in Migne, PL, XCIII, 39.
[7] Libri Sententiarum; lib. IV, dist. XVII, Migne, Patrologia Latina, CXCII, 880.
[8] Ibid., 5: 884.
[9] Citato da Laurain: 37, n. 3.
[10] Il testo, ricavato dal Commentarium in IV Sententiarum, Dist. XVII, Q. III, art. III, Sol. II, e noi lo riprendiamo da P. Laurain, op. cit.: 39, n. 1.
[11] Citato da Laurain dal trattato Quia Fratres minores praedicent et confessionem audiant, in Sancti Bonadventurae Opera, Lugduni, 1668, t. VII: 345.
[12] I rimandi e i testi del Navarro e di Domingo de Soto sono riportati in P. Laurain, op. cit.: 50-51.
[13] P. Laurain, op. cit.: 29, cita dall’ed. di Michelant, Stuttgart, 1862. Per chi volesse consultare un’edizione moderna, veda quella a cura di Ferdinand Castests del 1909 e ristampata a Ginevra, Slatkine, 1974.
[14] Si cita dall’ed. curata da Roberto Galbiati, Cantare di Camilla di Pietro Canterino da Siena. Storia della tradizione e testi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015: 194.
[15] Tirant lo Blanch, ed. Albert Hauf, València, Tirant lo Blanch, 2008, cap. 296: 1089.
[16] Ibid. cap. 299: 1094.
[17] A. March, Poesies, a cura de Pere Bohigas, Ediciò revisada per Amadeu J. Soberansa i Noemi Espinàs, Barcelona, Barcino, 2000, XLV: 1-24.
[18] Antonio Lo Frasso, Los diez libros de Fortuna de amor, a cura di Antonello Murtas, introduzione di Paolo Cherchi, Cagliari, Centro di Studi Filologici Sardi/CUEC, 2012: 388 sg.
[19] Cfr. la nostra nota Tirant lo Blanc: una possibile fonte di Lo Frasso, in Paolo Cherchi, Pagine sarde, a cura di Dino Manca, Sassari EDES, 2023: 115-130.

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Paolo Cherchi, “professor emeritus” della University of Chicago, dove ha insegnato letteratura italiana e spagnola e filologia romanza dal 1965 al 2003, anno in cui è stato chiamato dall’Università di Ferrara come Ordinario di letteratura italiana, e da dove è andato in congedo nel 2009. Si è laureato a Cagliari in filologia romanza, ha conseguito un PhD a Berkley (1966). Si è occupato prevalentemente di letterature romanze nel periodo medievale e rinascimentale. Fra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il tramonto dell’onestade (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016); Petrarca maestro. Linguaggio dei simboli e della storia (Roma, Viella, 2018); Maestri. Memorie e racconti di un apprendistato (Ravenna, Longo, 2019); Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi verso l’Europa scettica e critica (1500-1750) (Padova, libreriauniversitaria.it.edizioni); Quantulacumque lucretiana. Nuove piste di ricerca sulla fortuna di Lucrezio nel tardo Rinascimento (Generis Publishing, 2022); Studi ispanici. Fonti, topoi, intertesti (Milano, Ledizioni, 2022). Nel 2016 è stato cooptato come socio straniero dall’Accademia dei Lincei.

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