Introduzione
Il progetto politico del femminismo che, sin dagli inizi, si delinea nell’enfasi del superamento dicotomico, procede nel suo sviluppo come approccio articolato analiticamente. Le rivendicazioni femminili sorte in seno alla Rivoluzione francese [1], si possono considerare quale fervente inizio di un percorso che, gradualmente negli anni, determinerà cambiamenti epocali nel modo di discutere sulle donne, sul loro ruolo in società e sulla percezione di esse in quanto soggettività. Da quel momento in poi, la sfida femminista contribuì ad un cambio prospettico rilevante laddove le sue acquisizioni teoriche condussero ad incentrare la questione dell’emancipazione, sul rapporto tra condizione femminile e società.
Le iniziali riflessioni femministe [2] rappresentarono dei preziosi stimoli per quelle successive, le quali, in particolare dagli anni Sessanta sino agli anni Novanta, impattarono sul panorama politico della contemporaneità. La condizione di oppressione femminile, su cui il femminismo delle origini decise di incentrare le proprie discussioni, nelle concettualizzazioni filosofiche più moderne, subisce un considerevole progresso incardinandosi alla lotta politica, dunque, non limitando la posizione delle donne ad una forma di antagonismo, bensì finalizzando la battaglia femminista sull’ottenimento di una parità inclusiva nell’organizzazione sociale, ossia, su una propensione attiva volta all’emancipazione e tradotta in una strategia politica, essenzialmente focalizzata su un comune concetto di “differenza” sessuale con attribuzione di valore (Paternò 2012: 27). Su questo versante, la riflessione femminista si è arricchita di elaborazioni critiche, nella tipologia “materna” e della “cura”, specialmente, in area statunitense [3].
Attualmente, l’emancipazione delle donne si avverte in tutta la sua problematicità giacché, la questione della subalternità sessuale, si inscrive nella percezione di un controllo disciplinato dall’ideologia patriarcale connesso ad una normatività in generale: dai ruoli ai comportamenti, dal sesso alla riproduttività. Le implicazioni rivendicazioniste, perciò, connettono la sessualità al potere e il potere a cui si fa riferimento, indubbiamente, è quello maschile, ideologico; un potere che include le stesse strutture culturali e mentali. In tal modo, il processo della decostruzione ideologica e patriarcale conduce ad una ri-significazione del termine “donna” e, in particolare, ad una re-interpretazione della sessualità femminile poiché incardinata nella concezione patriarcale della reificazione e della riproduttività.
L’azione dei movimenti femministi – già dagli anni Settanta – si incrocia ad un processo di decostruzione che inizia nella e con la parola, ossia un processo di decostruzione del patriarcato, il cui effetto è il “silenzio della parola” e il valore del soggetto viene definito dal contenuto stesso delle parole (Persano 2012: 137). La prassi politica femminista, allora, impone di ripensare il “soggetto donna” a partire dallo svelamento della sua parzialità linguistica-nominale: l’ordine patriarcale del linguaggio che ha collocato il “femminile” in un meccanismo di “alterizzazione” dal maschile. In quest’ottica, come sottolinea Judith Butler:
«La stessa attribuzione di femminilità ai corpi femminili, […] avviene all’interno di una struttura normativa, in cui l’assegnazione di “femminilità” all’“essere femmina” rappresenta uno dei meccanismi della produzione stessa del genere sessuale» (Butler 2014: 43).
In tali termini, la decostruzione linguistica diventa il mezzo per il contrasto alla tendenza della reificazione femminile. Ulteriormente, dagli anni Ottanta e Novanta, il pensiero femminista protende per una definizione del “soggetto donna”, non più in base all’opposizione di genere, in quanto collega le possibili categorizzazioni su specifiche articolazioni come lo status socio-economico e le discriminazioni sessuo-razziali. Su questo punto, Gayatri Chakravorty Spivak [4] (Spivak 1999), riconosce quanto il dualismo di genere sia fondato oltre che su una violenza linguistica-epistemica, anche su componenti socio-economiche e razziali. L’aspetto sin qui considerato, peraltro, consente di cogliere la fluidità concettuale dei cosiddetti femminismi “non occidentali”, i quali hanno avuto il merito di individuare nuove “forme” patriarcali, rimodulate attraverso il nesso colonialismo-accumulazione capitalistica delle risorse sessuali-riproduttive. Del resto, per alcune posizioni femministe (Pande 2014), l’uso di tecnologie in ambito riproduttivo potrebbe coincidere con un moderno processo di colonizzazione dei corpi delle donne: corpi privati della propria autodeterminazione e condizionati – su un piano strettamente sociale – ai fini del raggiungimento di una maternità “a tutti i costi” (Muraro 2016; Binetti 2016).
Da questo punto di vista e grazie, altresì, ai presupposti teorici che fanno capo all’etica della “cura” – ambito di riflessione che si forma in seno al pensiero femminista nell’ambito della bioetica e che pone notevole attenzione proprio alla “cura” della persona, ossia a un diverso modo di approcciarsi alla persona e al suo orizzonte di valori e di esistenza – il ruolo delle donne nella sfera della maternità viene ripensato in connessione ad un principio di autonomia sul corpo, posizione affermata da Carol Gilligan nel suo saggio In a different voice: psychological theory and women’s development (Gilligan 1982). In questo testo, Gilligan sottolinea l’importanza della maternità quale aspetto intrinseco alla sfera riproduttiva femminile.
In tali termini, la nuova configurazione concettuale che si inizia ad avere della maternità – o del “ruolo” materno – conduce a sviluppare alcuni e interessanti interrogativi concernenti problematiche relative al diritto o meno alla maternità (nel momento in cui essa non avviene in modo naturale) e la liceità o meno sull’utilizzo delle tecnologie riproduttive. Come osserva Silvia Zullo:
«Il caso della clonazione riproduttiva rappresenta il terreno per eccellenza delle suddette criticità circa la legittimità morale di questa tecnica, sia come soluzione riproduttiva vantaggiosa per chi non può avere figli per via sessuale, o per chi può avere figli per riproduzione assistita solo ricorrendo a gameti di un donatore o di una donatrice, sia per le donne che intendono riprodursi dopo aver raggiunto la menopausa, oppure per chi volesse portare al mondo un bambino con patrimonio genetico di un’altra persona, fino ad arrivare all’idea fantascientifica di utilizzare tale tecnica per ricreare e ripopolare il mondo con individui superdotati» (Zullo 2016: 594).
Tecno-scienza: problematicità e contraddizione
La maternità ha una valenza simbolica ed evocativa laddove, già nel concetto di “essere madre” si rinvia ad una condizione esistenziale, interpersonale e procreativa. In tal senso, l’utilizzo di metodiche tecno-scientifiche indubbiamente mette in discussione questo significato di maternità che viene ri-adattata e ri-modulata nella portata trasformativa dei desideri individuali, diventando, in seno alle argomentazioni femministe, un argomento prioritario. A tal proposito, una certa parte di femminismo [5] – che si basa sul pensiero di Adrienne Rich [6]– opta per una concettualizzazione di “maternità” distinta in due significati differenti: da una parte il “ruolo” materno come funzione sociale ed istituzionale; dall’altra la “maternità” in senso positivo, dinamico e autodeterminante per le donne.
In tale prospettiva, il femminismo sottolinea il parallelismo tra corpo “soggettivo” femminile ed esperienza materna, giacché, la condizione riproduttiva-procreativa, in questa configurazione, è individuata sia come fase naturale nella vita di ogni donna, sia come aspetto intrinseco alla personale autodeterminazione.
Tale aspetto apre ad un diverso e nuovo scenario che pone su un analogo livello di riflessione “diritto” alla maternità e tecnologie riproduttive, nel momento in cui la linea di demarcazione tra desiderio di maternità e metodiche tecno-scientifiche è sottile se, come osserva Charis Thompson (Thompson 2005), nel loro utilizzo si celerebbe una tendenza all’omologazione su ruoli sociali e di genere. Secondo Thompson, il legame tra funzione femminile-riproduttiva e tecnologie di riproduzione assistita, infatti, sembra coesistere – nel caso della PMA – ed intrecciarsi a specifici significati socio-culturali, in particolare economici, in quanto tali tecnologie sono da considerare parte integrante del sistema neo-capitalistico attuale, un sistema impegnato nell’assorbire ciò che riguarda la biologia umana all’interno di logiche economiche e dinamiche biomediche, le quali restringono il “corpo” su un processo di potenziamento biologico e meccanico (Balzano 2015: 137).
A questo riguardo, il dibattito femminista, negli ultimi anni, ha posto notevole attenzione sulla possibilità che oggi sia predominante una nuova forma di “patriarcato” o “neo-patriarcato”, riferito ad un controllo del corpo umano, ovvero in relazione ad un suo adattamento su “prescrizioni” tecno-scientifiche e, questo per dire che, il cosiddetto “post-umanesimo” inteso come «livello della tecnologia che si integra con l’uomo e che ne soppianta buona parte delle prerogative o capacità» (Bellieni 2020: 15), potrebbe – facendo riferimento ai lavori di Mary Shelley e poi a quelli di Aldous Huxley e Asimov – richiamare preoccupanti scenari di una intromissione o sovrapposizione della scienza e della tecnica sulla “vita” umana, alla fine producendo una sostituzione delle capacità umane con la presenza di robot e di intelligenza artificiale. Secondo Carlo Bellieni:
«[…] un mondo che trova piacere nell’imitare i videogiochi e non la natura nella sua espressione di diletto quale la danza, è già un mondo postumano; infatti, la danza peruviana è la riproduzione affettuosa della natura, mentre la breakdance è l’imitazione di un videogioco che imita un fumetto che imita l’uomo, e come insegnava Platone, nell’imitazione sta il cuore della corruzione. Ovviamente è solo un esempio: non mancano mille evidenze per vedere che viviamo un mondo postumano in cui l’umano si identifica come copia dell’artificiale» (Bellieni 2020: 15).
L’intromissione della scienza e della bio-tecnologia sulla “vita” umana, indubbiamente, conduce a riflettere sulle conseguenze a cui sono sottoposti i corpi, in particolare i corpi femminili, a loro volta, compresi all’interno di un processo di ri-composizione e ri-strutturazione in chiave economica e questo aspetto inquadra su un analogo livello di riflessione tre importanti fattori: bio-tecnologia, corpo umano e meccanismo di reificazione-oggettivazione. «Il corpo, specialmente se è femminile, deve essere ripensato nell’ottica della rappresentazione, dal corpo soggettivo al corpo anatomico che è oggetto di conoscenza» (Sugamele 2019: 188). In particolare, grazie alla convergenza tra pensiero femminista e marxismo, il tema dell’oppressione femminile sul corpo e sulla sessualità, viene in tal modo considerato come un problema o affare economico. Difatti, il tratto maggiormente peculiare e che tende ad essere prevalente in questa convergenza di idee e posizioni tra femminismo e filosofia marxista, non è altro che quello che si riferisce ad un “orizzonte economico globale”, in cui la soggettività è categorizzata all’interno di un meccanismo di sfruttamento e mercificazione, meccanismo nel quale l’“io soggettivo” viene riformulato, frammentato e ri-adattato nella logica della “vendita” e del “consumo”.
La connessione fra tecno-scienza, capitalismo ed economia neoliberale, pertanto, pone in evidenza il problema critico del “percepire” il corpo umano similmente ad un bene di consumo, corpo che diventa negoziabile e “interscambiabile” mediante il controllo e la manipolazione. Come sottolinea Elena Solana Postigo, studiosa di bioetica, a causa di una sovrapposizione così massiva sulla “vita” umana, non è complesso prevedere le conseguenze assolutamente negative, che potrebbero rivolgersi alla possibilità concreta di ri-modulare e ri-progettare la stessa condizione umana, in modo tale che l’uomo possa evitare, ad esempio, l’inevitabile processo di crescita e invecchiamento, oppure essere in grado di superare i limiti dell’intelletto umano, mediante la sperimentazione di quello artificiale (Solana Postigo 2009: 269).
La riflessione di Elena Solana Postigo si riferisce a quell’“atteggiamento” transumanista che sostiene una sorta di “diritto morale” di adoperare tecniche scientifiche e biomediche volte ad un potenziamento delle capacità fisiche ed intellettuali. Secondo la studiosa, questo non significa che ogni intervento biomedico debba essere considerato in negativo, basti pensare alle grandi rivoluzioni scientifiche e allo sviluppo del pensiero moderno, da Hume e Newton, a Hobbes e Bacon, che con le loro teorie hanno spinto per la fondazione di una scienza in senso razionale, possibile ed ottimista (Solana Postigo 2009: 270); semmai, è necessario sottolineare, quanto, in certe condizioni, l’incastro tra biotecnologia, potenziamento e capitalismo neoliberale, tenda a emergere quale circuito economico della manipolazione dei corpi “dilatati” nella formazione consumistica della produttività.
«Attualmente, lo scopo della maggior parte dei ricercatori che lavorano nel campo dell’ingegneria biomedica è quello di riuscire a far interagire i tessuti organici con quelli di tipo meccanico (nanomechanical tissues), al fine non solo della sostituzione protesica, ma anche di un ipotetico controllo remoto, della protesi o del corpo organico stesso. […] In questa prospettiva è chiaro come la protesi sia un mezzo, il cui uso e posizionamento riguarda un tipo diverso di formazione e funzione rispetto al corpo umano, cioè all’apparato biologico di base in dotazione all’Homo Sapiens. Questo criterio di valutazione della protesi come mezzo può quindi giustificare l’importanza del concetto di ‘ibridazione’, specialmente nell’ideologia posthuman. Nell’attuale dibattito relativo alla ‘tecnica’ è spesso problematizzata proprio l’integrazione tra uomo e macchina: soprattutto il pensiero postumanista propone un approccio rinnovato che oltrepassi necessariamente le considerazioni ritenute superate del rapporto ‘uomo/tecnica’» (De Dominicis 2017: 128).
Dal programma FINRRAGE alla questione della “gestazione per altri”
Nei termini in precedenza delineati, il “desiderio” materno, paterno o quello genitoriale, potrebbe coincidere con una omologazione a canoni – strettamente patriarcali – socialmente stabiliti; in quest’ottica, il mercato – biotecnologico – si impone con effetti decisamente rilevanti, complessi nonché destabilizzanti se posti in considerazione all’economia neoliberista. In tali termini, il “desiderio” di generare, in convergenza alla possibilità di poterlo ottenere mediante il denaro, secondo Luisa Muraro, sembra essere condizionato perché posizionato all’interno di un “mercato” globale (Muraro 2016: 11).
Su questa stessa linea concettuale, Gena Corea, fondatrice del programma FINNRAGE [7], collega il discorso della commercializzazione del corpo, primariamente del corpo femminile, all’utilizzo delle metodiche scientifiche e bio-riproduttive; secondo Corea, persino, i metodi legati alla contraccezione o all’ovulazione come le tecniche di diagnostica pre-natale, sarebbero connesse ad un orientamento dei corpi femminili sulla funzione procreativa e riproduttiva, in tal modo ristretti in un processo di medicalizzazione e controllo [8]. Gena Corea sostiene anche che, queste tecniche, per lo più adoperate nel settore della bio-medicina, in realtà, sono collegate ad una differenza economica, in quanto, da una parte ci sono donne privilegiate appartenenti ad uno status socio-economico medio-alto, le quali hanno l’opportunità di accedere a delle metodiche che potrebbero consentire loro di avere una gravidanza, a differenza di altre donne che, purtroppo, rimangono – per mancanza di mezzi economici – escluse da tali benefici.
Da questo punto di vista, il programma FINRRAGE, che altro non è che una rete internazionale di attiviste e femministe la cui principale preoccupazione è, sostanzialmente, rivolta agli effetti e alle possibili conseguenze delle tecnologie riproduttive e genetiche sulla salute delle donne, pone in evidenza il fatto che ci sono donne che possono scegliere se avvalersi delle tecniche pro-fertilità e altre donne a cui mancano, invece, alcuni requisiti economici per potervi accedere. A questo riguardo, è necessario sottolineare che non tutto il femminismo si pone sulla linea di un rifiuto delle tecnologie riproduttive (Firestone 1970; Lyndon Shanley 2002; Berend 2014) nel caso, ad esempio del femminismo “liberale”, la cui posizione rispetto a questo tema risulta essere meno critica, intravedendo in tali tecniche una forma di “liberazione” e autodeterminazione delle donne sul corpo, oltre che sulla propria sfera riproduttiva. Al contrario, le femministe del FINRRAGE sono più propense per una visione negativa ed invasiva delle metodiche tecno-scientifiche sui corpi femminili.
Le femministe del programma FINRRAGE, infatti, sostengono che l’accesso a tali tecniche per alcune donne da una parte, e le restrizioni nella possibilità di poterle adoperare per altre donne dall’altra, è una differenza che pone in rilievo la disuguaglianza tra donne povere, le quali, molto spesso, nonostante si trovino a condurre la propria vita in un Paese cosiddetto “industrializzato” e occidentale, comunque, sono costrette a confrontarsi con una situazione difficile e complessa, che le mette di fronte all’unica possibilità di accedere, ad esempio, a metodiche contraccettive poco sicure e addirittura dannose per la loro salute (FINRRAGE 2016). In particolare, la preoccupazione del programma FINRRAGE è non solo focalizzata sulle conseguenze che le tecnologie riproduttive possono avere sulla salute delle donne, ma pone anche in evidenza quanto, sia le tecnologie anti-fertilità che quelle pro-fertilità, siano da considerare come due facce della stessa medaglia, poiché condividono un comune obiettivo: quello di controllare la popolazione e la sua crescita demografica, proprio mediante il potenziamento della capacità riproduttiva femminile. In tal senso, secondo il programma, il corpo femminile sarebbe considerato come un “involucro”, un “vaso”, un “contenitore”, specialmente per quanto concerne il tema critico della “maternità surrogata”, altresì detta “gestazione per altri” (GPA) o “sostituzione di maternità”; tecnica biomedica che presuppone, non solo una intromissione sull’aspetto sessuale della donna, ma, ulteriormente, implica una ingerenza sulla sua dignità riproduttiva (FINRRAGE 2016).
Sempre secondo il FINRRAGE, tecniche adoperate nel campo della genetica come la diagnosi genetica preimpianto e i test prenatali, ad esempio, sono finalizzate alla creazione di “bambini perfetti”, nel tentativo di attuare quasi un’opera di eliminazione delle persone con disabilità. Al centro di questa riflessione critica vi è la tecnologia genetica, secondo il FINRRAGE, intrinseca all’eugenetica, in quanto sottopone ad oggetto di studio e analisi tutti gli esseri viventi: microrganismi, piante, animali e uomini (FINRRAGE 2016); in tal modo, il FINRRAGE, focalizza l’attenzione sui possibili esiti dannosi per la salute, in conseguenza ad interventi bio-tecnologici, nei quali, secondo il programma, è possibile intravedere scenari di tipo eugenetico. Come sottolinea Maria Moneti Codignola, studiosa e docente di filosofia morale,
«[…] l’eugenetica ha radici molto profonde nella cultura del nostro tempo e non si lascia scoraggiare o intimidire dai suoi esiti criminali, che ritiene solo deviazioni impreviste rispetto ad una teoria scientificamente fondata e volta a scopi umanitari» (Codignola Moneti 2008: 183).
Nel controllo dei corpi, dunque, si può scorgere un atteggiamento bio-politico che «comincia a farsi strada quando l’oggetto specifico della politica diventa sempre più chiaramente il governo del corpo, dei corpi umani e non più direttamente quello dell’anima» (Viola 2010: 64-65). In tal senso, in seno al femminismo stesso, sorge una riflessione critica che conduce a riformulare il principio di autodeterminazione sul corpo per quanto concerne riproduzione e maternità, soprattutto, in merito alla questione della GPA, nel momento in cui la configurazione tecno-biomedica ed economica connessa a tale pratica diventa centrale sul piano della reificazione sessuale del corpo femminile (Sugamele 2018: 93). Ancora Maria Moneti Codignola sottolinea che
«Le prime osservazioni da fare sono proprio quelle che si riferiscono alla prospettiva “liberale” di questa nuova eugenetica, e in particolare alla logica di mercato cui fa riferimento: in altre parole, un’eugenetica governata dalle preferenze soggettive e dalla possibilità economica che dà accesso alle tecnologie riproduttive. Ambedue questi elementi presentano aspetti assai preoccupanti: l’anarchia delle preferenze espone il patrimonio genetico dell’umanità, un patrimonio collettivo che si estende a tutti gli esseri umani esistenti adesso e a tutti quelli che verranno, a subire il gusto effimero e culturalmente manipolabile di chi decide quali geni approvare e quali escludere: decidere per sé, o meglio per l’individuo umano che sta ordinando di produrre, ma decida al tempo stesso per tutti gli altri. […] L’eugenetica impone le conseguenze dell’arbitrio degli individui al resto dell’umanità. In secondo luogo, in quanto legata al mercato, l’eugenetica liberale seleziona l’accesso in base alle risorse: ci sono già livelli diversi di servizio dei beni acquisibili, tecnologie di serie A e tecnologie inferiori, per acquirenti di vario livello sociale. Non si tratta solo di un problema di giustizia sociale ma anche della creazione di una società quasi-castale, con fasce diverse di distribuzione di caratteri genetici […]» (Codignola Moneti 2008: 185).
Nello specifico, per quanto concerne la “maternità surrogata” o “gestazione per altri”, questa particolare tecnica ha reso evidenti le difficoltà di carattere etico, soprattutto, a causa di una mercificazione del corpo femminile determinata dalla fattispecie contrattuale che ne costituisce il presupposto. Proprio, la delineazione contrattuale sembra favorire la subordinazione del corpo a fini strettamente riproduttivi; un corpo categorizzato all’interno di codici normativi-eterosessuali, i quali orientano per la ricerca di una maternità o di una genitorialità “a tutti i costi”, fattore che «potrebbe essere interpretato come risultato di condizionamenti patriarcali ancora presenti nella società attuale e tendenti, ancora una volta, ad una identificazione della donna con la maternità» (Sugamele 2018: 94).
D’altronde, questa tecnica – che nel linguaggio comune viene denominata “maternità surrogata”, “maternità per altri” e “gestazione per altri” – a causa della sua configurazione contrattuale, è restrittiva dell’autodeterminazione della donna, la quale offre il “servizio”, nel momento in cui, per contratto, si impegna a portare in grembo un bambino e a partorirlo, in favore di soggetti terzi. La presa di distanza rispetto alle criticità intrinseche a quello che viene definito “mercato riproduttivo”, porta pertanto a riconsiderare quanto nella GPA la “scelta” di una donna che mette a disposizione il suo corpo per finalità procreativa [9], in realtà, tenda a qualificare tale pratica similmente ad un “servizio” di riproduzione-gestazione.
È ovvio, che a destare preoccupazione è la caratteristica contrattuale che contraddistingue la “gestazione per altri”, tanto da farne intravedere le relative complessità, determinate dal fatto che, da una parte c’è una donna che partorisce un bambino e dall’altra parte c’è una coppia o una persona single, la quale, nel rispetto dei termini contrattuali, pagherà per questo servizio e, in tal modo, il rapporto che si instaura tra la donna che offre il servizio e il potenziale cliente che lo ottiene, espressamente, avviene mediante una negoziazione economica.
Per tale ragione e, soprattutto, per le difficoltà che conseguono all’attuazione di questa tecnica, l’intenzione del legislatore è stata quella di disciplinare e regolamentare la GPA. In Italia, la “gestazione per altri”, secondo la legge 40 del 2004 (articolo 12), è assoggettata alla sanzione penale (Grimaldi 2017: 326) laddove, la legislazione si preoccupa di intervenire sulla posizione del neonato che, per contratto, diventa figlio di una donna diversa da quella che lo ha partorito. In quest’ottica, la consegna del bambino a soggetti committenti e la prestazione della donna a fini riproduttivi-procreativi, sono interpretabili come conseguenze di questa nuova forma di assoggettamento patriarcale sui corpi, posizione sostenuta anche dalla femminista Marina Terragni (Terragni 2016), secondo la quale le complessità sottese al cosiddetto “mercato degli uteri” costituiscono la base di pratiche sociali e culturali volte alla mercificazione dei corpi femminili, categorizzati all’interno di meccanismi economici e di profitto; aspetto, tra l’altro, visibile nei Paesi del sud del mondo come l’India, il Pakistan e l’America Latina, nei quali l’offerta dei servizi gestazionali collima con le richieste di mercato: da una parte, genitori committenti che richiedono un bambino; dall’altra, donne povere costrette a sottoporre il proprio corpo a tale pratica per questioni economiche.
In considerazione di ciò, il problema della “maternità per altri”, non include soltanto i Paesi poveri del mondo, poiché la GPA ha un riferimento anche nel mercato riproduttivo europeo e nord-americano, che comprende flussi di potenziali genitori che provengono dall’Europa occidentale, dagli Stati Uniti e dal Canada. Chiaramente, altri Paesi si aggiungono a questa nuova tipologia di mercato riproduttivo, quali: Nigeria, Kenya e Ghana, oltre a quelli in cui la GPA è in rapida diffusione e, addirittura, in espansione, ad esempio la Georgia e la Russia (Bandelli 2021: 287).
GPA: il contratto come fattore di restrizione dell’autodeterminazione
La configurazione contrattuale che caratterizza la GPA rende complesso porre in connessione la maternità con la libertà di scelta laddove, sottolinea Shellee Colen (Colen, 2009), questa tecnica viene a contraddistinguersi come una “riproduzione stratificata”, nel senso che, nella commercializzazione dell’attività procreativa, la stratificazione delle disuguaglianze di classe, etnia e genere, risulta essere incisiva. Tale stratificazione, ancor di più, rivela una riduzione dell’autodeterminazione sul corpo in merito alla questione dell’aborto, nel caso in cui la donna o “madre surrogata” non abbia l’intenzione di portare avanti la gravidanza o, nel caso contrario, abbia intenzione di completarla, contrapponendosi alla volontà dei genitori committenti.
«Messa da parte la questione del risarcimento, che sarà più o meno esistente e più o meno rilevante a seconda che sussista o meno il diritto di chiedere l’esecuzione del contratto e a seconda delle disposizioni contrattuali, ci si sofferma sulla possibile esecuzione del contratto in forma specifica, che si sostanzierebbe nel primo caso nell’impedire alla gestante di praticare l’aborto e nel secondo caso nell’obbligarla a sottoporvisi» (Di Benedetto 2017: 7).
Come osserva Daniela Danna (Danna 2017), negli Stati americani che consentono la definizione contrattuale di una gravidanza “per altri”, la donna “surrogata” deve – rispetto alle richieste dei committenti – impegnarsi, sia ad abortire (nel caso in cui il bambino presenti delle malformazioni) che a non abortire, come, ad esempio in Canada, dove l’aborto viene contemplato nei contratti di “maternità surrogata”. In tal senso, è difficile non collegare la configurazione contrattuale della GPA ad una nuova forma di sfruttamento patriarcale. Così sottolinea Danna:
«Il contratto […] obbliga una donna a cedere il figlio ai suoi “proprietari” prima ancora di affrontare i nove mesi della gravidanza e di partorire, prima che sia effettivamente diventata madre incontrando il nuovo essere che ha nutrito e che ha già con lei – volente o nolente – la sua prima e unica relazione. Simili contratti sono nulli nel diritto vigente in Italia, e non per la proibizione della legge 40/2004. Quella legge parla delle tecniche di riproduzione assistita (TRA), e quindi è rivolta alla variante di “maternità per altri” che coinvolge nella sua realizzazione dei medici. Ma qualunque forma di contratto di “gestazione per altri” è nulla perché uno dei principi fondamentali del nostro diritto è che la madre legale è colei che partorisce. Non può esistere una gravidanza in conto terzi, questo è uno dei fondamenti normativi che fino a poco tempo fa erano universali. La chiamano infatti “sostituzione di maternità” ma la maternità non si può sostituire. La chiamano “tecnica di riproduzione assistita”, ma dalla fecondazione in vitro si ottiene solo un embrione, non nella riproduzione. La gravidanza che deve seguire non è una tecnica. A volte la surrogazione di maternità è chiamata persino “trattamento medico” per la “infertilità”, che in realtà non è una malattia, perché un corpo infertile è di per sé assolutamente sano. E allo stesso modo della maggior parte dei rimedi escogitati da medici e biologi all’infertilità, nemmeno la surrogazione di maternità è una terapia. Che cosa dà diritto ai medici di disporre di alcuni corpi femminili come “terapia” per l’incapacità di altri di avere dei figli? Che cosa dà loro diritto di impiantare embrioni in una donna dicendo che sono di altri? Nulla, se non leggi ingiuste che configurano un nuovo campo di potere e un nuovo mercato che, come tutti i mercati, in parte risponde alla domanda e in parte la crea. La domanda viene da coloro che vengono chiamati bizzarramente “genitori intenzionali” o “genitori d’intento”, ma l’intenzione e l’intento devono appartenere al soggetto stesso che si prefigge di realizzare qualcosa. Non esiste un’intenzione che coinvolga un’altra persona, cioè colei che diventerà madre naturale, se non ancora una volta come etichetta linguistica che imbroglia le carte» (Danna 2017: 9-10).
È necessario sottolineare che, il dibattito odierno [10] sembra sbilanciarsi, positivamente, nei confronti dei committenti o dei soggetti titolari del materiale genetico, dibattito teso a promuovere la “gestazione per altri” contrattuale come un servizio (Pozzolo 2016: 61). In tal modo, la difficoltà interna al motivo “liberatorio” che tende a connotare le discussioni – anche in ambito femminista – sulla “gestazione per altri”, decade a causa del vincolo contrattuale per la potenziale gestante, con una conseguente limitazione della sua autonomia decisionale. La linea di una abolizione della GPA viene sostenuta dalle femministe della Coalizione Internazionale contro la Maternità Surrogata, le quali hanno sollevato obiezioni, proprio sulla questione dello sfruttamento della donna, in conseguenza della configurazione contrattuale di maternità. La posizione sostenuta dalla coalizione è piuttosto larga, giacché il divieto di “gestazione per altri” dovrebbe estendersi non solo a quella contrattuale, ma, addirittura, a quella “altruistica”, anche se la prima rimane la forma più complessa per la sua connessione al denaro e al profitto lesiva dell’autodeterminazione della donna (Cecchini 2019: 329-349), per come è stato anche osservato nella Convenzione Internazionale di Oviedo sui Diritti dell’uomo e la biomedicina del 1997.
In tal senso, la commercializzazione del corpo sembra essere perciò, in netta contrapposizione all’altruismo, che dovrebbe realmente caratterizzare il significato della maternità quale dono pieno ed autentico. Nonostante la diffusione che questa pratica sta avendo, soprattutto negli Stati Uniti e in Canada, è indubitabile scorgere in essa dubbi etici rilevanti, nel momento in cui la commercializzazione negoziale del corpo, sostanzialmente, è determinante di una invasione bio-medica ed economica sulla maternità ridotta ad un servizio che tende a degradare la donna; a sua volta, anche il bambino – risultato della gravidanza – viene degradato poiché ridotto ad una merce da consegnare (Anderson 1990: 75).
Dal momento che le “industrie” che erogano servizi di GPA, sono solite aver cura dei propri interessi economici, secondo la filosofa statunitense Elizabeth S. Anderson, certamente, la loro azione non è diretta alla tutela del bambino “merce” dell’industria surrogata, quanto invece, a quella dei potenziali genitori committenti (Anderson 1990: 76). In tal senso, la dignità della donna, in modo principale del suo corpo, viene limitata in funzione delle relazioni economiche che, in realtà, governano la pratica commerciale. In quest’ottica, è impossibile non osservare quanto la questione della “maternità” contrattuale, necessariamente, si innesta sul discorso dell’autodeterminazione sul corpo, così ristretta, diminuita, limitata nel suo valore, dal momento che il bambino “merce”, risultato generativo-riproduttivo della negoziazione, viene consegnato ad “altri”.
Nella tipologia altruistica di “maternità” o “gestazione per altri”, la cui configurazione appare meno complessa sul piano negoziale, va comunque detto che, anche su questa pratica ci sono alcuni dubbi legati al fatto che, oltre alla donna che si presta come “surrogata”, vi è la presenta di agenzie di intermediazione, servizi medici e legali che si alternano e avvicendano in tutto il percorso laddove, l’altruismo – a mio parere – dovrebbe essere totalmente privo di aspetti monetari, come nel caso di una madre che decide di “donare” il suo corpo in favore della figlia, la quale non può, ad esempio, avere una gravidanza a causa di malformazioni.
La riflessione sull’aspetto commerciale che contraddistingue la “maternità surrogata” o “gestazione per altri”, conduce ad intravedere il corpo femminile, nuovamente, al centro di un processo di controllo neo-patriarcale. Peraltro, come sottolinea Luisa Muraro, la GPA ha condotto a confondere il vero significato della libertà sul corpo, con qualcosa che non è libertà, ovvero, l’espansione data dalle possibilità tecniche – specialmente, nel campo della biomedicina e della biotecnologia riproduttiva – tuttavia, hanno prodotto una libertà distante e separata dalla pienezza esistenziale (Muraro 2016: 33). In convergenza alle istanze neo-patriarcali, risulta peculiare il nesso patriarcato-accumulazione delle risorse “riproduttive” e del corpo, che incentra il suo interesse sulla donna come risorsa economica. La negazione della GPA, sostenuta da Muraro, ha trovato analoghe preoccupazioni in attiviste e femministe come Marie-Josèphe Bonnet, per la quale la “maternità surrogata” è da paragonare ad una forma di business, se pensiamo alle donne indiane che accettano di diventare “madri surrogate” per scopi economici (Danna 2017: 227), donne inserite in un meccanismo finalizzato al controllo sia del loro corpo che di alcuni e specifici parametri come l’altezza e il colore della pelle; in tal modo, l’utero diventa un tassello, un ingranaggio del meccanismo di profitto, e il nascituro rimane celato nell’oblio di tale processo, considerato soltanto in funzione economica.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
Note
[1] 5 maggio 1789 – 9 novembre 1799.
[2] Da Olympe De Gouges a Mary Wollstonecraft e Harriet Taylor.
[3] Joan Tronto, Virginia Held e Sara Ruddick.
[4] Filosofa, studiosa di letteratura e pensiero post-coloniale.
[5] In particolare per la linea radicale del femminismo.
[6] Adrienne Rich (1929-2012), saggista e femminista statunitense, autrice di Nato di donna, saggio pubblicato prima nel 1972 e poi nel 1976 in edizione italiana.
[7] Feminist International Network of Resistence to Reproductive and Genetic Engineering.
[8] Nel caso della procreazione medicalmente assistita.
[9] In forma di contratto e a pagamento.
[10] In particolare, in ambiente europeo e statunitense.
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Laura Sugamele, dottoressa di ricerca in Studi Politici (Università “La Sapienza”), i suoi interessi di ricerca si rivolgono agli studi di genere, filosofia politica, storia del pensiero femminista con un focus sullo studio del femminismo postcoloniale. È autrice di Bioetica e femminismo. Rivisitazione dell’etica dei principi e sviluppo della competenza dell’autonomia (Stamen 2016) e Percorsi e teorie del femminismo tra storia, sviluppi e traiettorie concettuali (Aracne 2019).
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