di Alberto Mallardo
I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi. Gino StradaIl concetto di confine è, da sempre, oggetto di costruzioni culturali e simboliche. Difatti, l’uomo, per superare la propria incompletezza biologica ed uscire dalla precarietà, si è autorappresentato in termini di “purezza autoctona”, dando vita ad un complesso movimento di delimitazione dei confini, degli spazi geografici e simbolici. L’idea contemporanea di confine emerge come il risultato dei rapporti di forza tra i diversi gruppi umani, i diversi poteri e le autorità individuali e collettive che nel corso del tempo l’hanno plasmato, trasformato e adattato a seconda delle necessità e dei propri sistemi valoriali. La contrapposizione tra interno ed esterno, tra identità ed alterità è, pertanto, di natura culturale e politica ed implica una concezione dell’altro-da-noi, dello straniero, come di un qualcuno escluso dai diritti che la cittadinanza garantisce.
Questa discussione che si svolge su di un piano multidisciplinare, è oggi estremamente attuale, in un’epoca in cui i confini vengono ridisegnati e concepiti non più come linee rigide che separano gli Stati sovrani ma come entità mobili necessari per proteggere l’Impero dall’arrivo dei nuovi barbari. Tenendo quindi a mente le questioni che le migrazioni contemporanee impongono, sarà importante ripercorrere lo sviluppo dei significati attribuiti alla parola confine e l’interrelazione che essa ha avuto con i concetti di sovranità nazionale, identità-alterità e cittadinanza.
I termini confine e frontiera evocano immediatamente immagini di recinzioni e filo spinato, mura, telecamere, guardie di frontiera ed eserciti ma anche burocrazia, visti e timbri. Tutto ciò rimanda all’idea di un mondo governato da autorità ben riconoscibili, gli Stati nazionali, che si spartiscono la sovranità di aree ben delimitate. Le due parole, confine e frontiera derivano tuttavia dai termini latini finis e limes. Come dimostrato dal processo, che negli ultimi decenni ha portato le scienze sociali a ripensare, decostruire e problematizzare le nozioni di spazio, confine e frontiera (Reece, 2008), un’analisi delle peculiari caratteristiche etimologiche dei due termini potrà aiutare a sottolineare come i due concetti siano esclusivamente costrutti sociali, non oggettivi e storicamente contingenti (Cuttitta, 2005).
La parola confine deriva da finis, e rimanda al segno o solco che segna la fine di un fondo, territorio o paese. Originariamente legata all’atto del tracciare con l’aratro un solco nel terreno, la parola confine è stata analizzata dal linguista ÉmileBenveniste (2001), che nel suo Vocabolario sulle istituzioni indoeuropee enfatizza l’importanza politica e culturale del termine. Infatti, colui che traccia il solco, nel mondo latino, è il rex, cioè l’autorità politica e morale incaricata di regere finis cioè di tracciare i confini in linea retta, di “regolare” una comunità. Il finis era, pertanto, necessario non solo per delimitare uno spazio antropico ben definito ma altresì per identificare i comportamenti “retti” che sottraevano l’uomo alla sfera della natura, caotica e ferina e che lo elevavano al rango di essere civilizzato. Il finis è insomma quell’atto che delimita i confini oltre i quali v’è solo disordine e caos (Gentili, 2008).
Il mondo romano che fin dai suoi albori ha sentito la necessità di espandersi sino ad avere ambizioni imperiali, deve però sconfinare per estendere i suoi confini. Deve, dunque, affrontare il disordine delle terre che circondano Roma per confrontarsi con le popolazioni che abitano oltre il limes. Questo termine, complementare al finis, sta ad indicare delle zone a contatto con l’ignoto, degli avamposti in cui avvengono incontri, scontri e contaminazioni continue con l’esterno. Etimologicamente il limes definisce una linea che, anziché essere retta come nel caso del finis, è incerta e spezzata. Il termine limes è stato tradotto da Gentili (2008) con il termine frontiera. Nonostante in italiano e nella gran parte delle lingue moderne si sia persa la distinzione tra confine e frontiera, i due termini nascono per identificare due idee ben distinte. Da un lato, il finis retto e regolamentato da un’autorità politica e morale, dall’altro il limes, cioè quella zona a carattere incerto e permeabile in cui interno ed esterno si confondono e mescolano. Nel significato dei due termini ritroviamo la necessità di escludere e proteggere Roma dal resto del mondo oltre a quella includente che assimila l’altro all’interno del mondo romano.
Con il mutare delle contingenze storiche cambia anche il significato attribuito alla parola confine. Alla linearità del finis romano si va, dunque, ad aggiungere il cum, con le sue caratteristiche di unione, partecipazione e collegamento. Il rex, l’autorità che regolava lo spazio e la moralità degli uomini, riconosce ora la stessa autorità ad un altro ordine politico speculare a sé stesso. Con la pace di Westfalia, firmata nel 1648, si assiste ad un importante svolta nel processo di formazione e stabilizzazione di grandi unità politico-statali e si afferma lo sviluppo di un nuovo frame work nella gestione dello spazio e nei rapporti di potere tra autorità sovrane ed individui (Ricuperati, Ieva, 2006). Con lo sviluppo degli Stati sovrani viene, pertanto, sancito il diritto di queste entità ad esercitare:
«il controllo politico, militare e giurisdizionale esclusivo su un determinato territorio – circoscritto da confini dichiaratamente demarcati – e sulla popolazione che vi risiede. A questo concetto si va a sovrapporre quello di stato-nazione, che presuppone l’esistenza di una popolazione nazionale, caratterizzata da un’identità unitaria, […] costituita da una storia, una lingua e una religione comuni, laddove identità e territorio arrivano a essere considerati come attribuiti naturali e immutabili l’uno dell’altro» (Cuttitta, 2005: 16).
Riprendendo una riflessione di Carl Schmitt (Dean, 2006), dovremmo, prima di considerare le caratteristiche peculiari di un qualsiasi potere sociale, legale o economico, porci una domanda: da dove, e come, questo potere è scaturito? Come evidenziato nella prima parte del testo, l’organizzazione sociale, e con essa l’organizzazione dello spazio, non possono essere considerate meri dati ontologici della realtà ma costrutti sociali, evolutisi nel corso del tempo, sulla base di motivazioni culturali specifiche. Guardando all’antropologia, il processo culturale a fondamento della nascita degli Stati nazionali rientra nei processi etno-genetici che comprendono la costituzione di una popolazione, di una nazione o di un regno (Assmann, 2007). Si consideri che gli antichi Egizi, gli Ebrei, i Greci, i Romani, gli Arabi e tutta l’Europa medievale hanno prodotto narrazioni ufficiali che hanno conferito poteri simbolici all’autorità esercitata su spazi ben determinati. Mettendo in atto operazioni di riconoscimento e misconoscimento dell’umanità (intesa come qualità da acquisire), diversi gruppi umani hanno prodotto discorsi funzionali alla inclusione o alla esclusione di interi gruppi o individui specifici.
Le narrazioni ufficiali elaborate altro non sono che miti di autoctonia. Miti che narrano l’origine dell’uomo in relazione alla terra. Una terra madre che l’uomo ha progressivamente civilizzato e trasformato in suolo pubblico. Come sottolineato da Faranda (2009), non è casuale il legame etimologico tra le parole latine homo, uomo o terrestre e humus, terra, come non è un caso che la radice greca УП, gê del termine terra sia alla base della terminologia “genetica”, connessa con la nozione di nascita. Il legame classico tra territorio e Stato emerge con nettezza dalle parole contenute nell’opera Politische Geographie, scritte dal padre della geografia umana, Friedrich Ratzel, nel 1897 e riportate da Mezzadra (2004: 85):
«Ogni Stato […] è una porzione di umanità e una porzione di territorio. L’uomo non è pensabile senza la terra, e tanto meno lo è la più insigne opera dell’uomo sul nostro pianeta, ovvero lo Stato».
Con l’affermazione dei moderni Stati nazionali, si postula, pertanto, il loro diritto sovrano a gestire determinati territori, la popolazione in essi contenuta e i confini che ne delimitano l’estensione geografica. L’identità nazionale sembra essere inscindibile dal legame con la terra natale e quella che ci si presenta dinnanzi è un’umanità plasmata dalla retorica del Sé autoctono, cioè proveniente da una stessa terra, che trasmette i propri valori alle generazioni successive perché queste si sentano, per dirla con Otto Bauer, una comunità di destino (Morin, 2011). I confini identitari si intrecciano al concetto di confine territoriale. I primi però, non rappresentano entità totalmente impermeabili e statiche. Si contraddistinguono, invece, per la natura intrinsecamente porosa e permeabile alle influenze esterne. Parafrasando Remotti (2001: 5), non potrà mai esistere l’identità assoluta, bensì esisteranno diversi modelli di organizzazione dell’identità.
L’alterità, ancorché spesso considerata riprovevole e deviante, non potrà essere eliminata totalmente e anzi dovrà inevitabilmente essere riconosciuta e negoziata. I processi di costruzione identitaria, se si abbandona la rigidità di certe concezioni, consisteranno spesso nell’introduzione, e alle volte nell’incorporazione, dell’alterità (Remotti, 2001). Quest’ ’ultima sarà così presente, non solo ai confini e ai margini, ma coesisterà all’interno di un determinato nucleo identitario. Ad esempio, per rimanere in quell’Europa medievale che di lì a poco avrebbe visto l’affermarsi dei grandi nuclei politico-statali ed identitari tipici della modernità, troviamo l’accavallarsi di regimi politico-gerarchici altri. La compresenza di comuni, corporazioni delle arti e dei mestieri, concorre alla formazione di una rete di sovranità minori in cui le relazioni tra potere sovrano e individui sono mediate da diversi livelli di obbedienza e fedeltà personali (Cuttitta, 2005). Queste relazioni non presuppongono necessariamente confini rigidi e lineari e fanno della società basso-medievale una società a sovranità orizzontale e asimmetrica.
Anche Georges Balandier (2000), nel suo volume sull’Antropologia politica, analizzando esperienze di organizzazione politica extra-europee, individua diversi esempi in cui i confini identitari non vengono mediati da legami esclusivi con i confini territoriali. È il caso del Buganda, regno composto dai 52 clan dell’etnia africana Baganda e più grande dei regni tradizionali rimasti nell’’Uganda moderno. In questa esperienza politica, come di frequente in Africa, non è il legame territoriale a fare da collante identitario, bensì l’appartenenza clanica e tribale. Infine, possiamo anche ricordare come i vari gruppi, identificati dalla società maggioritaria europea come Roma, abbiano sviluppato la loro identità partendo da valori diversi da quelli della sovranità territoriale, mettendo in atto politiche relazionali altamente flessibili, aperte e dai confini indefiniti, ma sempre in costante relazione con le politiche dei gagé, ovvero di tutti quei soggetti che nella lingua Romanì non appartenengono a gruppi Roma (Piasere, 2009).
Gli esempi proposti dimostrano come il legame tra territorialità e identità sia il frutto di una specifica relazione tra territorio e autorità sovrane, sviluppatasi in Europa in un dato periodo storico. È evidente, pertanto, che questa relazione può essere contestualizzata e ridimensionata.
Tornando all’esperienza dei moderni Stati-nazione, come ricordato da Gentili (2005: 18), si afferma un’architettura dei confini che: «presuppone un limite condiviso da entrambe le parti: [che] ne definisce e ipostatizza l’identità e, al contempo, determina il riconoscimento e la legittimazione reciproca di entrambe le sovranità». Emerge, pertanto, una topografia del confine come di un qualcosa di netto, riconosciuto e inviolabile. Dall’altro lato, nel corso dei secoli, la sovranità degli Stati nazionali viene vincolata strutturalmente da costituzioni repubblicane pensate per suffragare la facoltà dei cittadini a partecipare alle decisioni nella vita pubblica e per garantire il rispetto dei diritti inalienabili individuali (Brunkhorst, 2000).
I sistemi politici statali si riconoscono a vicenda e tutelano la loro organizzazione interna attraverso la promulgazione di costituzioni repubblicane. Ciononostante, alcune considerazioni di Hannah Arendt (2004), formulate nel suo libro sul Le origini del totalitarismo, possono introdurre alcune delle criticità insite in questo sistema. Nella sua analisi, la Arendt, considera ambivalente il processo di definizione dell’identità nazionale in Europa. Ambivalente perché in esso si mescolano difficoltà ed incertezze, successi e conquiste per la collettività. Lo Stato-nazione che le appare come l’unica forza in grado di proporre un’alternativa ai regimi totalitari del’900 è, secondo lei, frutto di un paradosso. Se almeno in via teorica, le istituzioni statali tutelano i diritti di tutti, esse trovano il loro fondamento sul principio di esclusione. Come già accennato, saranno solo i cittadini a beneficiare dei diritti che lo Stato garantisce e anche all’interno della comunità dei cittadini, le minoranze etniche non godranno delle stesse protezioni legali rispetto al resto della popolazione. Chi non nasce cittadino, chi non possiede i giusti requisiti legali, è come se non esistesse (Forti, 2000). Inoltre lo Stato nazionale sembra troppo fragile per fronteggiare l’espansione del capitale che tende a spazzare via i concetti di sovranità nazionale, di cittadinanza e di confine stesso. Questa forza tende a produrre una topografia globalizzata. Non più confini mediati dalla territorialità ma mondo s-confinato.
Come ampiamente descritto dalla sociologia e da altre discipline, la grande espansione del capitale e l’inarrestabile avanzare del progresso tecnologico producono una moltiplicazione: «delle soggettività internazionali e delle loro interdipendenze, la deterritorializzazione dei rapporti di potere e il superamento dell’ordine Stato-nazione» (Cuttitta 2005: 17). In questo contesto i nuovi soggetti sovra ed internazionali acquisi- scono una crescente capacità di mobilitare risorse economiche ed umane, ed emergono come attori protagonisti nel rinnovato panorama mondiale. Gli Stati nazionali devono, di conseguenza, rinegoziare parte della loro sovranità all’interno di una sempre più estesa rete globale fatta di interdipendenze, influenze e condizionamenti esterni. Questa accresciuta interdipendenza tra i diversi attori del mondo globalizzato e il costante progresso della tecnica, provocano un incremento nella circolazione delle merci, dei capitali, delle informazioni e delle persone. I confini prima rigidi e lineari baluardi dell’identità nazionale si fanno liquidi, mobili e puntiformi. Nessuna autorità sovrana è riconosciuta al di fuori del rinnovato landscape mondiale. I muri di frontiera si ergono ora soltanto come muri di difesa.
«A differenza del con-fine, [le nuove frontiere] non definiscono entrambe le parti, ma soltanto la rettitudine di una parte, quella interna: sono i baluardi di difesa contro gli attacchi alla democrazia e all’ordine interno»(Gentili, 2008: 107).
Come sottolineato dalla Arendt (2004), all’interno degli Stati nazionali si esaspera l’ambivalenza che vede il mantenimento dell’ordine interno, della democrazia, dello Stato di diritto e di cittadinanza condizionato all’esclusione, alla marginalizzazione, di quanti sono fuori-legge, non-cittadini o sub-cittadini. Vi è pertanto una moltiplicazione degli status legali e di cittadinanza che consentono o impediscono, favoriscono o ostacolano l’attraversamento di determinati confini territoriali e di conseguenza l’accesso ai diritti garantiti ai cittadini degli Stati nazionali (Cuttitta, 2009).
È noto che per gli antichi Greci, i non-Greci erano detti barbaroi, cioè gruppi umani di seconda categoria, subumani. Il termine bárbaros, che in italiano può essere tradotto come balbuzienti, deriva dalla parola onomatopeica bar-bar, propria di chi balbettava appena la lingua greca, cioè il lógos stesso (Signorelli, 2007). Per i romani, i barbari risedevano oltre il limes fortificato dell’Impero e rappresentavano una minaccia all’identità di Roma. Nell’età della post-modernità invece, i barbari si ripresentano alle porte di quei cum-finis che delimitavano i margini territoriali condivisi dalle sovranità nazionali, simbolo del potere sovrano degli Stati-nazione, messi ormai in crisi dall’emergere di nuove strutture di potere sovra-nazionali.
Seguendo la definizione classica del termine barbaro, allora, i migranti appaiono come i nuovi barbari. Persone che non sono in grado di parlare la nostra lingua ma che con i loro corpi, il loro vissuto, chiedono il rispetto di quei diritti umani e di cittadinanza che la modernità aveva promesso. I nuovi barbari sono oggi il prodotto dei conflitti e dalle speculazioni economiche e politiche, perpetrati dagli specifici interessi del capitale in ogni angolo del mondo. Queste persone, bussando alle porte dell’Impero, plasmano i suoi confini con la rabbia e la determinazione tipica di chi è costretto a vivere luoghi di irriducibili contraddizioni.
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
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Alberto Mallardo, lavora come operatore di comunità presso Mediterranean Hope, l’Osservatorio sulle migrazioni mediterranee che ha sede a Lampedusa. Da sempre attivo nel sociale, si è laureato alla London Metropolitan University in “Gestione e Pianificazione dei Servizi Sociali e Sanitari”, dopo aver completato il percorso triennale in Antropologia Culturale alla Sapienza di Roma. Ha esercitato il suo impegno anche nella scolarizzazione dei ragazzi e ragazze Rom che vivono nell’estrema periferia romana e con minori richiedenti asilo in UK.
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