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Consolo e il Mediterraneo: l’impegno civile e la vocazione lirica

9788833290980_0_424_0_75di Antonino Cangemi 

Tutto fa pensare che Sciascia abbia ragione: gli scrittori siciliani sono «condannati a scrivere della Sicilia». Probabilmente per la calamita di un paesaggio per certi aspetti estremo, abbagliante e ammaliante, e il richiamo ancestrale dei miti che la abitano, o più semplicemente per la sua storia che, complice la sua posizione geografica strategica, ha visto succedersi civiltà e popoli diversi che ne hanno plasmato un’identità multiforme e cosmopolita. E se per  Goethe la Sicilia offre “la chiave di ogni cosa” tanto che senza di essa non si può capire l’Italia, Sciascia addirittura la fa assurgere a metafora: «La Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo  italiani ma anche europei, al punto di poter costituire la metafora del mondo odierno».

Di contro qualcuno potrebbe obiettare che ogni autore, quale che ne sia l’estrazione geografica, predilige scrivere della propria terra, sia per un motivo affettivo sia perché è più semplice parlare di ciò che meglio si conosce, e che la presunta universalità associata alla Sicilia altro non è che spia di quella tendenza a esagerare tipica dei siciliani, da sempre affetti da un vago e vano senso di grandezza che li fa sentire al centro del pianeta, come ne Il gattopardo il principe di Salina spiega al funzionario piemontese Chevalley: «…e tutti quanti gattopardi, sciacalli, pecore continueremo a crederci il sale della terra».

Può darsi, ma è un dato di fatto che gli scrittori siciliani hanno un legame con la propria terra più forte rispetto agli altri. Verga, ad esempio, diventa Verga (dopo le parentesi letterarie “milanesi”) quando ambienta i suoi romanzi e le sue novelle in Sicilia e inventa un linguaggio – assai più sperimentale e ardito di quanto comunemente si pensa – costruito su basi sintattiche dialettali; e la Sicilia è al centro dell’opera di Capuana, De Roberto, Brancati, Bonaviri, Bufalino, Camilleri e un po’ di tutti i maggiori scrittori siciliani, compreso il sicilianissimo nella sua contorta forma mentis e complicata introversione Pirandello.

A rifletterci bene, inoltre, ciò non vale solo per la scrittura ma anche per altre attività creative: si pensi a Guttuso e a quanto la Sicilia sia presente nei suoi dipinti, o a un cineasta come Tornatore la cui produzione dagli esiti estetici alterni raggiunge i livelli migliori nei film d’ispirazione siciliana quando non esaspera la rappresentazione dell’Isola.

Uno scrittore che è rimasto sempre radicato nella sua Sicilia, malgrado abbia vissuto a Milano, è Vincenzo Consolo, autore di respiro europeo tra i più importanti del secondo Novecento italiano di cui lo scorso anno è stato celebrato l’anniversario del decennio della morte e quest’anno ricorre l’anniversario dei 90 anni della nascita.

Tra i recenti saggi su Consolo si segnala, per acutezza e sottigliezza, L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo di Rosalba Galvagno, già docente all’università di Catania, edito nel 2022 da Milella. Un libro è una raccolta di scritti della saggista uniti, pur nella loro eterogeneità, da un filo conduttore centrale: l’indissolubile legame con la Sicilia dello scrittore agatese. Chiaramente palesato, tra l’altro, in un passo della raccolta di racconti  Le pietre di Pantalica: 

«Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca». 

9788804701637_0_536_0_75Si tratta di un passo che dice molto del rapporto di Consolo con la Sicilia, che è il rapporto che un esule ha con la sua terra. E non è esagerato definire Consolo – che a Milano si trasferì dalla sua San Agata di Militello prima per frequentare l’università, poi, vinto un concorso, per lavorare alla Rai – un “esule”: la Sicilia – dalla quale mai s’allontana nelle sue opere – è rimasta scolpita nella sua anima ferita con segni indelebili per averla lasciata.

La Galvagno nel suo saggio, interrogandosi sull’apparente contraddizione tra lo scrittore dagli empiti lirici e dalla ricerca sperimentale e lo scrittore civile sensibile ai temi sociali e politici, non solo riesce a comporre tale contrasto ma anche a spiegare – tramite chiavi ermeneutiche non prive di influenze psicanalitiche (l’autrice si è spesso affidata nei suoi studi alla psicanalisi) – i motivi reconditi dell’amore viscerale dell’“esule” Consolo per la sua Sicilia: «…se si scava più a fondo nei suoi testi l’aporia cessa di apparire tale, poiché l’oggetto lirico-soggettivo (amoroso, erotico, intimo ecc.) e l’oggetto storico-sociale coincidono…e il secondo…deriva sempre logicamente dal primo, cioè dall’oggetto perduto del desiderio». Qual è “l’oggetto perduto del desiderio” cui si riferisce la Galvagno se non la Sicilia e in senso più ampio il Mediterraneo? La Sicilia dell’esule (non a caso, sono ricorrenti in Consolo il tema del “nostos” e le citazioni omeriche), che l’attrae e dentro la quale scava per recuperarne l’identità perduta ma di cui denuncia, non rinunciando al registro etico, le storture, le ingiustizie, i soprusi con un surplus di indignazione generata dal suo straripante legame affettivo.

Tanti temi s’intrecciano nella disamina della poetica di Consolo che la Galvagno affronta con padronanza. Tra di essi sono nodali quelli della scrittura e del linguaggio. Una scrittura polivalente, plurilingue e sperimentale, quella di Consolo. In essa chi è incline a una lettura superficiale potrebbe rintracciare i semi di un barocchismo che contagia parte della letteratura prodotta in Sicilia e che in fondo si insinua nelle anime dei siciliani quale retaggio della lunga dominazione spagnola. Ma non vi è nulla nella scrittura di Consolo – come sottolinea la Galvagno – di riconducibile al barocco o, peggio, al barocchismo: la complessità e la elaborata architettura non sono fini a se stesse ma frutto di una ricerca espressiva che trae linfa dall‘humus della sua terra, dalle radici pilastri della sua identità.

Dall’urgenza di tenere in vita e salvare le radici della Sicilia in Consolo s’innestano nella lingua italiana «i giacimenti linguistici del dialetto siciliano…i retaggi sepolti», come lo stesso ha spiegato più volte: «In questo tempo di cancellazione della memoria, in questo nostro contesto mi sembrava che la letteratura, che è memoria, doveva recuperare anche la memoria linguistica oltre che la materia storica». In questo senso, il suo lavoro sulla lingua è il lavoro dell’archeologo: «Io cerco le parole che vengono da lontananze storiche, di lingue antiche, greco, latino, arabo…». Da qui il plurilinguismo della sua scrittura sperimentale e palinsestica che, a differenza degli scrittori “illuministi” (Sciascia, Calvino, Moravia) del suo tempo che utilizzano codici razionali e comunicativi, si avvale di «un controcodice, che è un codice espressivo che tiene conto della tradizione letteraria e linguistica e quindi cerca di portare…tutti gli echi che fanno parte della nostra tradizione letteraria», come dichiarato dall’autore de Il sorriso dell’ignoto marinaio in una sua intervista richiamata nel libro della Galvagno.

9788804719199_0_536_0_75Ma quella di Consolo – scrittore di impegno civile oltre che di vocazione lirica – è anche la ricerca di un linguaggio che cerca di combattere contro il potere, di contrastarlo, come la Galvagno mette in luce in uno dei paragrafi del suo saggio. È un’utopia, la sua, e di ciò è consapevole ma la sua etica gliela impone, così da confessare: «La mia ideologia, o se volete la mia utopia, consiste nell’oppormi al potere, nel combattere con l’arma della scrittura – che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte – i mali e gli orrori del nostro tempo». D’altra parte i romanzi di Consolo – a partire soprattutto da Il sorriso dell’ignoto marinaio che l’impose alla ribalta dell’universo letterario – sono dei romanzi storico-metaforici: raccontano fatti della storia, non eclatanti, trascurati dalla pagine ufficiali, ma dai quali emerge la sopraffazione dei potenti e la soccombenza dei ceti subalterni, senza però limitarsi a registrarli, alla mera esposizione cronachistica, ma cogliendone attraverso la finzione letteraria lo spirito, il senso intrinseco.

Come la studiosa mette bene in rilievo ne L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo, per lo scrittore agatese va distinto lo “scrivere”, operazione priva di tensione lirica nella quale non si ricorre alla memoria, dal “narrare” che invece implica il flusso poetico e attinge alla memoria, e col “narrare” lo scrittore può svelare verità nascoste e addirittura essere profetico.

D’altra parte in Consolo – che scrisse romanzi e racconti ma anche saggi – i confini tra la prosa e la poesia sono sempre incerti, come rileva la Galvagno, e anche il Consolo giornalista (fra l’altro, negli anni Settanta Vittorio Nisticò lo chiamò a seguire per L’Ora il processo del “mostro” di Marsala) è letterato, e come tale cerca una verità sottesa ai fatti della cronaca.

Uno scrittore “ibrido”, Consolo, destinato a essere tale, come lui stesso confida e la Galvagno rimarca, per essere nato in una zona di confine tra la Sicilia orientale immaginifica e la Sicilia occidentale razionale, per l’oscillare tra l’estro poetico di Lucio Piccolo e il lume della ragione di Sciascia – due autori a lui molto vicini –, per il vivere tra la Lombardia e la Sicilia.

Un altro punto su cui si sofferma la Galvagno tocca il Mediterraneo. Il contesto territoriale e culturale verso cui si dirige lo sguardo di Consolo non è solo la Sicilia ma il Mediterraneo, la sua civiltà, i suoi miti, ma anche le devastazioni che l’affliggono perché nel Mediterraneo sulla bellezza è prevalsa la rovinosa aggressione, sul razionale il selvatico, sull’olivo l’olivastro richiamandosi la metafora di uno dei suoi più noti libri L’olivo e l’olivastro. A proposito la Galvagno osserva: 

«L’educazione di tante generazioni di italiani e, a maggior ragione, di siciliani, a partire dalla prima metà degli anni Sessanta è stata effettivamente orientata a dirigere lo sguardo verso l’Europa del Nord. Ebbene, la scrittura di Vincenzo Consolo ha modificato questo sguardo, insegnando a riscoprire in primo luogo la Sicilia nel e del Mediterraneo». 
Vincenzo Consolo a Selinunte

Vincenzo Consolo a Segesta (estate 2005)

Uno dei temi su cui s’incentra la dotta trattazione della Galvagno, se non il tema principale su cui gli altri si aggirano – come induce a ritenere il sottotitolo del saggio – è quello della passione archeologica di Consolo. Una passione per le antiche pietre che è un tutt’uno col suo desiderio di riappropriarsi della sua terra e delle sue radici. Tra i siti archeologici cari a Consolo quello di Selinunte è il prediletto. L’autrice del saggio dà rilievo a un errore di memoria di Consolo apparentemente banale. L’agatese in un suo racconto autobiografico fa risalire la sua prima visita a Selinunte a quando aveva 15 anni. In realtà, dalla sicura testimonianza di un suo amico, Consolo si reca a Selinunte la prima volta nel 1967 all’età di 34 anni. La Galvagno spiega l’errore di memoria con una mitopoiesi, cioè a dire una trasposizione mitica inconscia, come se quelle metope fossero degli archetipi. E, sempre ricorrendo alla psicanalisi, la studiosa compara il sentimento di estraniazione e depersonalizzazione che Consolo riferisce di avere provato dinanzi alle rovine dell’antichità, e soprattutto di Selinunte, a quello, assai simile, avvertito da Freud quando visitò l’acropoli di Atene.

Vincenzo Consolo (ph. Sebastiano Burgaretta)

Vincenzo Consolo (ph. Sebastiano Burgaretta)

Peraltro, secondo la Galvagno, vi è sia in Freud che in Consolo nella contemplazione rapita dei templi di Selinunte un richiamo della maternità che lo scrittore, tramite il linguaggio poetico, riesce a invocare: «Lei, la grande Dea, la figlia del Tempo, la Signora, la Regina, la madre dolente e ammantata di nero, la Portatrice di spighe, la generosa nutrice». L’archeologia delle pietre ataviche si combina in Consolo con l’archeologia letteraria: vi è in lui uno scavo nel profondo che lo conduce all’antichità architettonica e uno scavo nella lingua, rectius nelle lingue, che gli fa disseppellire tradizioni, culture, civiltà remote. A proposito la Galvagno nota come il lavoro della scrittura «può fare recuperare e dunque riunire, come avviene per i resti archeologici, i frammenti dell’uomo e del suo linguaggio altrimenti perduti».

Pertanto, le “Archeologie di Vincenzo Consolo” di cui al sottotitolo del saggio sono entrambe: quella dell’architettura antica e quella dell’espressione letteraria, tutte e due intrise di rimandi mitologici e degli archetipi che vi si riflettono. Senza contare come le pietre assumano un rilievo metaforico nella scrittura di Consolo specie se si pensa alla sua introduzione a Le parole sono pietre di Carlo Levi, a quanto scrive riferendosi al ritratto della madre di Salvatore Carnevale, laddove risalta anche la sua passione civile per la ricerca e affermazione della verità: «… l’urlo oscuro e il pianto si articolano in parole, le parole – quelle parole che diventano pietre – in un processo verbale, il processo verbale in racconto, essenziale, definitivo…».

In appendice al libro è riportato il testo dell’intervento di Consolo a una Conferenza tenuta all’Accademia delle Belle Arti di Perugia il 23 maggio 2003 sul rapporto tra la letteratura e l’arte figurativa. Il testo rivela più di un punto qualificante della scrittura di Consolo: ci aiuta a comprendere le ragioni del suo impegno letterario e civile e la sua poetica. Da non trascurare, infine, la postfazione del poeta e antropologo Sebastiano Burgaretta, che è una testimonianza dell’amore di Consolo per i siti archeologici, che è in fondo amore della sua Sicilia. Il perfetto epilogo di memorie e suggestioni di un libro che si offre ad una originale e inedita rilettura dello scrittore siciliano. 

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023

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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia e col quotidiano La ragione.

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