di Francesca Morando
La “dinastia” mamelucca [1] (1250-1517), una delle più importanti del mondo arabo-islamico, è stata caratterizzata da peculiarità uniche in diversi ambiti, come quello politico e culturale. Il tratto che verrà preso in considerazione riveste la sfera religiosa, la quale, rielaborata in chiave egiziana sin da antichissime origini pluridirezionali, ha contraddistinto diret- tamente o indirettamente tale epoca.
In questo contributo viene offerto uno spaccato del forte sentimento religioso sviluppatosi nell’Egitto mamelucco, sebbene non si indagherà troppo approfonditamente sui rilevanti apporti e sugli influssi che le religioni e le tradizioni culturali produssero, transitando per questo Paese, per esempio, nell’iconografia cristiana. Tuttavia è doveroso delineare alcuni concetti-chiave, perché molte delle convinzioni precedenti l’Islam si ripercuoteranno culturalmente in tale momento storico (e altre anche posteriormente). Risulta sorprendente, infatti, rilevare, ancora oggi, come alcune credenze egiziane si riscontrino praticamente immutate da decine di secoli: vedi il grande rispetto portato verso i gatti, rispecchiato, per esempio, nelle leggende su questi felini, in quanto anticamente venerati come dèi.
Va sottolineato che la politica e la cultura faraoniche hanno dominato l’area per tre millenni e hanno lasciato, di conseguenza, consistenti testimonianze della propria civiltà, specie riguardo alla vita religiosa e all’aldilà. Pertanto, uno degli aspetti culturali che colpisce maggiormente deriva dalla grande attenzione per la vita oltre la morte e per il pantheon degli dèi adorati, i quali hanno trovato le loro fattezze prima negli dèi ellenistici e poi sotto le vesti di schiere di angeli, di martiri e di monaci, oltre ovviamente a Cristo, alla Vergine Maria e ai santi.
Fra questi ultimi bisogna ricordare la profonda venerazione della Chiesa ortodossa (in cui rientra quella copta [2]) verso S. Giorgio megalomartire [3], che salva la principessa dal drago lacustre, la cui iconografia è ripresa quasi immutata dal dio egizio Horus, straordinariamente ritratto a cavallo, come un soldato romano, in atto di trafiggere con la lancia il malefico coccodrillo Seth, concettualmente non troppo distante dal mito greco [4] di Perseo, cavalcante Pegaso, che salva Andromeda dal mostro marino. Le figure celestiali cristiane hanno ribadito, più o meno idealmente, nel tempo, il credo nella pluralità di “messaggeri” e intercessori divini, nei confronti di una figura di Dio Padre eccezionalmente distaccato dalle tumultuose vicende umane [5].
Né va dimenticato che il Cristianesimo egiziano (o copto), nato nella multietnica e intellettualmente effervescente Alessandria d’Egitto, era molto vicino al pensiero giudaico ma anche a quello neoplatonico e gnostico, oltre alle persistenti influenze antico-egiziane.
Tanto è vero che:
«L’analogia che lega le varie concezioni religiose traspare dalle numerose opere artistiche. Gli schemi iconografici sono adottati di volta in volta dalle diverse comunità; pagani, ebrei e cristiani producono un’arte che rientra nello stesso filone. Più che la definizione dello stile, è il significato simbolico dei soggetti che conferisce all’opera un’identità confessionale» (Crippa; Ries; Zibawi, 1998: 70).
La religione praticata tanto dalle classi dominanti quanto dal resto della popolazione risulta quindi l’elaborazione di un Cristianesimo di stampo orientale, originale e “locale”, particolarmente devoto a tutto ciò che potesse allontanare le sistematiche sventure minaccianti la tranquilla vita routinaria, come per esempio: gli immancabili sconvolgimenti socio-politici, le carestie, le razzie (continuative da parte dei beduini), le invasioni (p. es. gli arabi, le Crociate e i mongoli), le violenze, le malattie, le epidemie (come la Grande Peste Nera), il parto e gli attacchi mortali di animali. I conforti (almeno di natura psicologica) per scacciare tali mali erano i popolarissimi amuleti, icone, reliquie, formule magiche, invocazioni, maledizioni, preghiere, esorcismi, riti vari, eccetera. In questo contesto rientra la potenza “magica” del nome evocato (relativa in genere ai nomi degli Arcangeli), che affonda le proprie origini sia nel passato faraonico, che nella tradizione ebraica.
Successivamente, sin dalla conquista islamica dell’Egitto, nel VII secolo, il Cristianesimo ha continuato a convivere con la nuova religione portata dagli arabi, contestualmente all’ebraismo. I fedeli non musulmani ma credenti in un testo sacro rivelato e presenti in un dato territorio prima dell’Islam, erano giuridicamente inquadrati come dimmī (protetti) [6], in quanto appartenenti alla categoria ahl al-kitāb (Gente del Libro, inclusi gli zoroastriani), i quali, pagando specifiche tasse accessorie, potevano continuare a professare il proprio credo, con pesanti limitazioni [7], seppure in maniera discontinua nel tempo e nello spazio (Hourani, 1992: 119). Nonostante i dimmī fossero considerati inferiori ai musulmani, i Mamelucchi impiegavano ampiamente cristiani ed ebrei nella propria burocrazia, anche per cariche prestigiose, come cancellieri, amministratori finanziari e medici di corte. Saltuariamente non mancavano anche le conversioni coercitive verso l’Islam [8] ma la necessità di impiegare arabofoni che lavorassero per lo Stato derivava anche dal fatto che i governanti del Centro Asia [9] non sempre vantavano una piena padronanza dell’arabo ed era riconosciuto ai cristiani un particolare talento nell’amministrazione delle finanze.
Vivendo in un contesto piuttosto variegato a livello etnico, linguistico, socio-economico e culturale, la popolazione [10] era suddivisibile come segue: da una parte la classe dirigente formata dai sultani, di origine non-araba e non-musulmana [11] unitamente ai propri funzionari (soprattutto turchi ma anche gli indispensabili egiziani cristiani ed ebrei) e, dall’altra parte, i sudditi autoctoni (che a loro volta erano ripartibili come: grandi e piccoli commercianti; agricoltori e contadini; gli studiosi o fuqarāʼ, che versavano in condizioni modeste – da cui il nome di “poveri”– e la progenie mamelucca, che non seguiva la carriera militare; gli artigiani e infine i mendicanti [12]. Tale situazione sociale stratificata aveva effetti anche sulla religiosità, dal momento che, da un lato, la casta chiusa dell’aristocrazia militare mamelucca manteneva le distanze dalla popolazione, cercando di assecondare la rigida ortodossia, attraverso il benestare degli ulamā (dotti in scienze islamiche) [13], i quali si scagliavano contro le forme di “Islam popolare”, praticato, per esempio, nella venerazione delle tombe dei santi musulmani, a cui si votavano particolarmente le donne (Leisten, 1990). Dall’altro lato, la popolazione era solita condividere la propria partecipazione alle festività delle diverse fedi. Sembra che l’attitudine al culto dei santi musulmani potrebbe derivare sia dalle pratiche cristiane e dalle mai del tutto sopite arcaiche credenze faraoniche, che dal lascito di sovrani precedenti (i Fatimidi, cacciati nel 1171), di fede scicita. Tali stratificazioni, particolarmente dinamiche nelle campagne, dove il sincretismo religioso, la superstizione e le pratiche magiche erano tipicamente vitali e radicate, facevano sì che le stesse Piramidi e soprattutto la Sfinge fossero oggetto di adorazione.
Similmente risulta significativo come a Ṭanṭā, nel fertile Delta egiziano, dove morì il popolare mistico marocchino Aḥmad al-Badawī (ca. 1199-1276), la profonda devozione del suo mausoleo viene postulato dagli studiosi come la «sopravvivenza sotto nuova veste dell’adorazione degli antichi Egizi per Bubasti [città santa nel Delta del Nilo, venerata in onore della dea-gatta Bastet, in cui vi era un importante tempio ad essa dedicato. n.d.A.]». (Hourani, 1992: 159). Ciò che appare interessante è che frequentemente gli egiziani musulmani festeggiassero insieme ai cristiani, per esempio, la Leylet al-Nutka (la notte della goccia) la cui credenza, perpetuata nei secoli, vuole (fino a tempi recenti) che l’Arcangelo Michele, la notte del 17 giugno (12 peoni/bauna del calendario copto), getti nel Nilo una goccia d’acqua, il cui potere è quello di scatenare una piena destinata a inondare tutta la valle [14].
Appare indicativo che il giurista malikita egiziano ibn al-Ḥaǧǧ (1250 ca.-1336) abbia distinto le festività in tre categorie. Mentre la prima comprendeva le cerimonie islamiche (definite indispensabili), la seconda includeva i festeggiamenti (non tollerati in nessun modo dai rigoristi musulmani) della Gente del Libro, che annoveravano la festa del Nayrūz [15] (Capodanno); il giovedì delle lenticchie; il sabato di luce; il Natale; le feste mariane e dei santi e la festa dell’olivo. In queste cerimonie si faceva largo uso di vino, segretamente apprezzato dai musulmani ma proibito dal Corano. La terza categoria di manifestazioni riguardava gli avvenimenti sociali come la festa del Nilometro [16], le celebrazioni di vittorie militari e le inaugurazioni di nuovi monumenti. A questi eventi bisogna infine aggiungere le feste private come le nascite, le circoncisioni, i matrimoni e altre ricorrenze rituali.
Ibn al-Ḥaǧǧ inveiva contro le donne perché, a suo dire, queste ultime deviavano l’Islam canonico. Quindi si pronunciava affinché non andassero al mercato per evitare atteggiamenti sconvenienti con i commercianti (Hourani,1992: 122). Inoltre, la loro maggiore responsabilità era quella di professare un Islam contaminato, per via della loro ignoranza riguardo alla dottrina, sebbene lo stesso giurista riteneva sbagliato permettere lo studio del Corano alle bambine. Infine, contrastava le loro donazioni destinate alle opere pie, sia islamiche che cristiane. Il dotto avvertiva pertanto le donne di non infrangere le regole dell’ortodossia islamica, praticando ritualità di altre religioni (come toccare, baciare e strofinare le tombe e rotolarsi nella polvere, contravvenendo alla mera pratica della visita ai sepolcri islamici – ziyāra, in arabo), per non andare incontro alle punizioni di Dio. Incuranti di tali ammonizioni, le donne continuavano ad astenersi dai compiti domestici la domenica (come facevano le cristiane), a preparare infusi di camomilla durante gli equinozi, a desistere dal pulire la casa in assenza per viaggio di un membro maschile della famiglia, per paura che gli uomini non ritornassero più (superstizione egizia o copta) e infine ad andare negli hammam (bagno turco), in cui le musulmane – secondo Ibn al-Ḥaǧǧ – insieme alle donne delle altre fedi, formulavano i rituali per le loro credenze e le loro pratiche religiose.
A tal fine, sia nel 1300 che nel 1354 era emessa una fatwā (opinione legale basata su leggi religiose) affinché gli hammam venissero chiusi, in quanto percepiti come luoghi illeciti. In effetti, in questi bagni le musulmane apprendevano diverse ritualità, come cospargere il proprio capo di terra, mostrando sia capelli sciolti che il viso, che le donne delle altre fedi si graffiavano; si lamentavano gridando (o pagavano le prefiche); si mettevano catene al collo; si vestivano solo di nero [17] e non indossavano gioielli. Col tempo, la pratica della visita al camposanto, quasi ad esclusivo appannaggio femminile, si trasformò nell’abitudine di dormire nei cimiteri, per consolidare il rapporto intimo e duraturo con i defunti. L’usanza venne particolarmente osteggiata dal sunnismo, che, al contrario, interpretava tale condotta come la violazione del riposo eterno degli estinti.
Il più influente ma controverso giurista e teologo siriano ḥanbalita, Ibn Taymiyya (1263-1338), al diretto servizio dei sultani mamelucchi, predicava un ritorno all’Islam puro delle origini, sollecitando i suoi correligionari ad evitare di portare oggetti sulle tombe (atto percepito come idolatro), a limitarsi nella venerazione dei sepolcri dei santi musulmani e a combattere la blasfemia di invocare santi, angeli, profeti, apostoli o i nomi sacri della Kacaba e del pozzo di Zamzam, in quanto l’unica preghiera canonica è ritenuta da sempre soltanto quella rivolta ad Allah. Secondo il giurista (che per le sue idee rigide venne più volte incarcerato e liberato) il culto dei santi, la forte devozione per l’architettura funeraria, l’intenso e partecipato pellegrinaggio connesso ai sepolcri, la mescolanza tra vivi e morti, uomini e donne, ricchi e poveri formavano sovrastrutture innovative pericolose e offensive per l’ortodossia. Paradossalmente, la tomba damascena del giurista continua ad essere luogo di venerazione (Laoust, Encyclopaedia Britannica).
Gli Arcangeli nella tradizione egiziana
Una delle caratteristiche dell’arte copta è la rappresentazione delle diverse schiere di angeli, sia nei monasteri del deserto che nelle chiese dei centri urbani. Risulta particolarmente interessante il fatto che durante il periodo islamico la produzione artistica cristiana, relativamente agli angeli, si evidenzia come fiorente, specie nelle icone, nonostante i ricorrenti vandalismi ad opera dei musulmani dei luoghi di culto copti, in particolari momenti critici, scatenanti rivolte sociali. In questo contesto appaiono di fondamentale importanza i quattro Arcangeli, Michele, Gabriele, Raffaele e Uriele (o Suriele), ai quali viene dedicato, ancora oggi, per ciascuno di loro, un giorno di culto all’anno, a differenza del resto del mondo cristiano che celebra soltanto i primi tre il 29 settembre.
Michele, il cui nome significa dall’ebraico “Chi (è) come Dio?”, combattente ma raffigurato anche come alto dignitario della corte bizantina, appare straordinariamente presente per via della protezione assoluta che infonde nell’evocante e pertanto lo si ritrova in conventi, chiese, cappelle di tutto l’Egitto del XII-XIII secolo, dove figura imponente, con abiti sontuosi, a guardia di quegli edifici. Inoltre, lo si ritrova in punti strategici di difesa del paese ma anche in momenti di mutamento di stato come la nascita o la morte, oppure di difficoltà, come la malattia o pericoli incombenti. Tra i vari poteri dell’Arcangelo (come quelli taumaturgici per la benedizione dell’acqua e dell’olio santo) risultano degni di nota il comando dei venti favorevoli alla navigazione, la particolare supplica a Dio Padre per l’irrigazione ottimale della terra (di radicata tradizione culturale plurimillenaria) e la maturazione dei frutti, nonché lo sporadico accostamento con il dio egizio Toth, al momento del Giudizio Universale, in qualità di psicopompo. La funzione di pesatore di anime si riscontra nelle icone, dove si contraddistingue per la bilancia tenuta in una mano mentre con l’altra scarta il defunto con le mani incrociate sul petto (vedi trittico del Museo del Cairo n. 3458).
Gabriele, il cui nome significa in ebraico “Dio è forte” o anche “l’uomo [forte] di Dio”, la cui natura è la più connessa con il fuoco, trova grande devozione da parte anche dei musulmani, in quanto messo divino delle buone novelle. È appena il caso di ricordare che nella tradizione islamica è proprio costui che ha trasmesso i versi del Corano da Allah a Muḥammad. Infatti il Libro sacro recita:
«Chiunque è nemico di Dio, dei Suoi angeli, dei Suoi messaggeri e di Gabriele e di Michele, allora, sì, Dio è nemico dei miscredenti» (Corano, II: 98).
Con il medesimo fine egli appare nell’Antico Testamento come messaggero a Daniele per aiutarlo a interpretare una visione e per predirgli la venuta del Messia. Nel Nuovo Testamento annuncia la nascita del Battista e la nascita di Gesù. Inoltre, Gabriele reca conforto alle pene degli esseri umani e, oltre ad essere il compagno di Michele, condivide con questo molti compiti simili. Appare nei testi magici e anche a lui sono dedicati dei luoghi di culto, sebbene in misura minore rispetto a Michele. La sua iconografia lo ritrae come un giovane ricciuto e androgino, abbigliato in maniera nobile e con in mano un giglio, simbolo dell’Annunciazione.
Raffaele prende il nome dall’ebraico “Dio ha guarito” e le sue caratteristiche sono maggiormente connesse con il Libro di Tobia (forse composto in Egitto nel III secolo a. C.). Fra i suoi numerosi compiti, egli è colui che indica la retta via, guida gli apostoli, fortifica la fede degli asceti nel deserto, sostiene i martiri, concede aiuto e protezione, riveste il ruolo di protettore delle nozze e infine è esecutore della giustizia (che può giungere alla vendetta), con la sua spada di fuoco (in altre tradizioni Uriele possiede tale arma). L’incarico distintivo è quello di essere patrono della medicina ed è guaritore delle malattie, come anche Michele. Nel Libro di Enoch (22: 3-6), Raffaele è ritratto come psicopompo. Secondo Origene di Alessandria (185-254 d. C.) alcuni lo rappresentano come un serpente, mentre successivamente sono attestate delle omelie in arabo in suo nome. Come gli altri Arcangeli, viene citato nei testi magici e anche a lui sono dedicati sporadicamente dei luoghi di culto.
Uriele (o Suriele), il cui nome deriva dalla locuzione ebraica “Luce di Dio”, è combattente e condivide con gli altri Arcangeli compiti similari, come ambasciatore dell’umanità al cospetto di Dio, intercessore per il perdono dei peccatori e guaritore (come Michele e Raffaele). Costui è l’Arcangelo più prossimo alla luce del sole e all’amore (in altre tradizioni con la Sapienza), oltre ad essere il custode del tempo e degli astri; pertanto i suoi simboli sono la fiamma della conoscenza o il libro che tiene in mano e la tromba d’argento, il cui suono accompagna le anime dei giusti in Paradiso. Non a caso è l’annunciatore con la tromba del Giorno del Giudizio (mentre in altre versioni l’Arcangelo incaricato di questo compito è Michele o Gabriele). Il suo culto, molto popolare, dopo l’epoca di S. Ambrogio (IV secolo d. C.) è stato invece dimenticato, sia perché Uriele viene menzionato soltanto nei testi apocrifi sia per il fatto che le sue qualità urtavano i princìpi della Chiesa (dal momento che tale figura era strettamente connessa con l’alchimia, la cabala e la conoscenza degli astri).
Nella tradizione islamica Uriele viene confuso con Isrāfīl, che si rivela essere un angelo dalle fattezze mastodontiche, investito di suonare la tromba nel Giorno del Giudizio e con il potere di guaritore. Alcuni aḥadīt (narrazioni sulla vita del Profeta) raccontano che Muḥammad abbia ricevuto, da questo Angelo, la sua istruzione, nel deserto, per tre anni. Appare dunque interessante il parallelismo con Raffaele, in qualità di curatore e soprattutto con la tradizione precedente all’Islam dove Uriele ha educato S. Giovanni Battista, nel deserto, quando era un bambino.
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
Note
1 «Mamelucchi. Dinastia di schiavi soldati che dominò in Egitto e Siria [e sulle città sante di Mecca e Medina n.d.A.] (1250-1517). Sede: il Cairo. Il nome deriva dall’arabo mamluk, “preso in possesso”. Nel 1250 assunsero il potere al Cairo gli schiavi soldati degli Ayyubidi, in prevalenza turchi, che erano soliti reclutarsi tra ragazzi non musulmani la cui lealtà era garantita da una rigorosa formazione di caserma e dal più completo isolamento dal resto della popolazione» (Hattstein; Delius, 2001: 615).
2 I copti sono i cristiani d’Egitto che da questo Paese prendono il nome (in arabo). La loro lingua, il copto, scritta in caratteri greci, è derivata dall’ultima fase dell’autoctona lingua egizia ed è arricchita da segni demotici. Oggi i copti usano la propria lingua per la liturgia ecclesiale ed è in via di sparizione, perché affiancata dal crescente uso dell’arabo.
3 La dicitura significa “grande martire” e sebbene il culto di S. Giorgio sia stabilito dalla Chiesa come facoltativo, riscuote grande popolarità soprattutto presso gli ortodossi, i quali sin dai secoli subito dopo il suo martirio lo rappresentarono con l’armatura. C’è da dire anche che il cavaliere copto affonda le proprie lontane origini in tradizioni sincretiche mediterranee e orientali; quindi il suo significato allegorico richiama, in periodo medioevale, la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (XIII secolo), colui che sconfigge il male (il drago) per salvare la Chiesa (la principessa). Il testo non ha valore storico ma ebbe grandi ripercussioni sulla poesia e l’arte religiosa.
4 Il mito di Perseo è stato immortalato in una discreta porzione del cielo notturno dell’emisfero boreale con le costellazioni di Cefeo, Cassiopea, Perseo, Pegaso, Andromeda (con l’omonima galassia nella stessa costellazione) e della Balena.
5 Del Francia Barocas, L., Angeli in Egitto (paper).
6 «Dimmī. Suddito non musulmano che gode della protezione dello Stato musulmano» (Traini, 1966, 402).
7 «Secondo la legge e le consuetudini islamiche si richiedeva ad essi [cristiani ed ebrei] di segnalare visibilmente la loro differenza: di indossare abiti di tipo particolare, di evitare certi colori associati al Profeta e all’Islam (in particolare il verde), di non portare armi o andare a cavallo; non dovevano costruire nuovi edifici di culto, restaurarne di vecchi senza permesso, o costruirli in modo da sovrastare quelli dei Musulmani. Simili restrizioni non erano sempre imposte o in modo uniforme» (Hourani, 1992: 119). Nelle fusciacche e nei turbanti agli ebrei veniva assegnato il colore giallo e ai cristiani quello azzurro.
8 I Mamelucchi non avevano nulla contro i cristiani, essendo a loro volta convertiti a forza, diventando anzi i paladini della fede islamica contro i crociati e i mongoli, ma spesso accondiscendevano alle rimostranze della popolazione musulmana che mal tollerava che i funzionari del fisco cristiani fossero particolarmente indulgenti, riguardo all’alleggerimento del pagamento delle tasse stabilito per i propri correligionari (Little, 1976). Alle azioni prepotenti dei musulmani i cristiani rispondevano ugualmente con la forza, sebbene non sistematicamente, anche per via del numero sempre minore in cui si venivano a trovare. Molti copti (e più raramente anche gli ebrei) preferirono infatti convertirsi all’Islam, per evitare vessazioni, limitazioni, discriminazioni e assicurarsi l’incolumità.
9 La componente etnica dei Mamelucchi annoverava una maggioranza turca, oltre alla componente georgiana, circassa, russa, greca, mongola, uzbeka, turkmena e kazaka (e altre minoritarie).
10 I governanti erano di diverse etnie di stirpe turcica, convertiti all’Islam, mentre il popolo era arabo (ed ebreo), di fede musulmana, cristiana ed ebraica ma non mancavano anche i mercanti occidentali di fede cattolica e altri.
11 Il panorama religioso egiziano si arricchì ulteriormente con l’ingente afflusso degli schiavi-soldati che credevano nelle pratiche magiche e sciamaniche, provenienti delle steppe centro-asiatiche (Berkey, 1998).
12 Di notevole importanza risulta la cultura presente anche nella più infima condizione sociale, dal momento che «nella cultura araba anche i mendicanti avevano una propria poesia» (Lewis, 1996, 206).
13 Nel caso specifico degli culamāʼ del periodo mamelucco, c’è da constatare che essi costituivano una “cerniera” importantissima tra governanti e governati, dal momento che i voleri dei sultani venivano legittimati proprio dai giureconsulti. Costoro erano dei privilegiati, che godevano di grande rispetto sia da parte del popolo che da parte dei sultani, sebbene non di rado occupassero una posizione ambigua nei confronti della popolazione e dei sovrani ai quali si asservivano o dai quali potevano avere forti condizionamenti.
14 Cfr. Rushi Said, The river Nile, 1993: 96-97, riportato nel paper di Loretta Del Francia Barocas, Angeli in Egitto.
15 Il Nawrūz è la festa zoroastriana e centro asiatica del Capodanno, coincidente con l’equinozio di primavera. Viene festeggiato anche dai mistici musulmani ṣūfī e dai credenti bahá’í. La stessa festa per i copti, chiamata Nayrūz (significante “festa della benedizione dei fiumi”) cade il 12 settembre, secondo il calendario copto e indica il primo giorno del calendario agricolo, che si basa sulla piena del Nilo e dell’osservazione di Sirio.
16 Il Nilometro era una colonna con tacche, alla quale si accedeva scendendo delle scale al livello del fiume, con la funzione di segnare l’altezza raggiunta dall’acqua nelle stagioni delle piene. Da tale preziosa informazione si deduceva se la piena determinava carestia, devastazione o se la quantità d’acqua auspicata (indicata con una tacca speciale) era ottimale per i terreni. Stabilita l’annata, si traevano le tasse da fare pagare alla popolazione.
17 Ancora oggi vi sono delle regole più o meno sentite da rispettare per il lutto. L’abitudine di vestirsi di nero per per le donne e con colori poco sgargianti per gli uomini è ancora viva in Egitto, dove alcune pratiche rituali sono abbastanza simili per cristiani e musulmani. Il lutto viene mantenuto almeno 40 giorni, in un luogo circondato da tende dove filtra poca luce, gli uomini non si radono la barba, non si guarda né TV né si ascolta la musica, inoltre bisogna andare al cimitero e distribuire del cibo in onore del defunto. Nella zona del Ṣacīd egiziano il lutto viene esteso a un anno, quindi è possibile che le donne virtualmente non tolgano mai il lutto (al-Maḥmūdī 2005: 206).
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Francesca Morando, laureata alla Sapienza in Dialettologia araba (relatore O. Durand), insegna arabo presso varie strutture sia pubbliche che private; è traduttrice giurata di lingua araba presso il Tribunale di Palermo ed è specializzata in Didattica dell’Italiano L2/LS. È stata anche docente presso l’Università di Palermo e l’Università Gar Younis di Bengasi, oltre che in Egitto e nella Georgia caucasica.
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