CIP
di Pietro Clemente
Continuare a pensare
Nelle classiche pagine di Ernesto De Martino sul lamento funebre (Morte e pianto rituale), la morte individuale e le morti collettive si intrecciano nell’affrontare il tema del ‘rischio di non esserci nella storia umana’, della ‘destorificazione’ di chi resta senza riuscire ad affrontare e superare la morte col trascendimento nel valore. Il rischio di perdersi con colui che non c’è più, apre all’esigenza etica di farlo morire dentro di noi e di portarlo nel futuro come valore che supera la morte. Vi è un forte nesso tra il ricordare i nostri morti e portarli con noi nel futuro, e il vivere il dramma quotidiano dei massacri delle guerre che ci circondano. Sono ferite aperte, forse non risarcibili, che si iscrivono nella storia umana. Questo nesso porterà De Martino allo studio delle apocalissi culturali e al libro postumo La fine del mondo. Vi è dentro di noi una oscillazione tra la morte vicina delle persone care e la morte lontana e sempre più tragica di donne, uomini, bambini sconosciuti che rappresentano la violazione di ogni ordinamento universalistico, di ogni speranza storica costruita nel Novecento.
I morti insepolti che tornano a inquietare i sonni dell’Occidente che, in questo gioco di morte, ha perso ogni apparenza di superiorità e di umanità inquietano anche i miei sonni. Dobbiamo ‘continuare a pensare’ i nostri morti e “trascenderli nel valore” scriveva De Martino in dialogo con Benedetto Croce. A questo proposito mi piace ricordare una frase bellissima che A. M. Cirese scrisse per ricordare Italo Signorini, collega romano morto in giovane età: «la morte lacera e stronca. Agli studi cui egli si affidò noi ci affidiamo per riallacciare il filo». Ed è per questo che, per riallacciare il filo, apriamo questo numero 69 del CIP con due scritti di dolore e di valore della presenza come memoria. Sandra Puccini è morta all’inizio di agosto a Viterbo dove viveva e dove ha insegnato per anni antropologia culturale.
Vogliamo ricordarla con parole sue, quando era lei, su queste pagine di Dialoghi Mediterranei a ‘continuare a pensare” il nostro comune maestro A. M. Cirese (CIP 51 del 2021). E che ora ci servono per ricordare lei.
Sandra (https://www.siacantropologia.it/prodotti/in-ricordo-di-sandra-puccini/) era una straordinaria scrittrice, studiosa di storia degli studi antropologici italiani nel quadro delle discipline che lungo l’Ottocento hanno fondato le scienze umane e sociali, in forte dialogo interdisciplinare con la letteratura, la geografia, l’antropologia fisica e il mondo dei viaggi e delle esplorazioni, dell’alterità. Le veniva riconosciuta una notevole qualità di scrittura e aveva usato questa sua dote per libri liberi dagli obblighi delle note, per riflettere sulla condizione contemporanea delle donne (Nude e crudi, Donzelli, 2009). Nel 2020, in segno di stima, le era stato dedicato il volume Il lungo viaggio e le storie piccole (edizioni Sette Città, Viterbo: https://www.settecitta.eu/catalogo/libro/9788878538887-il-lungo-viaggio-e-le-storie-piccole-DbDP5b), Nel 2024, è uscita – quasi postuma – una pubblicazione a cui stava lavorando da molti anni. Si tratta di una autobiografia familiare, di figlia d’arte: il nonno materno era pittore, il nonno paterno scrittore, il padre regista cinematografico. Il titolo è Vite. Storie di due famiglie tra Ottocento e Novecento (https://www.settecitta.eu/catalogo/libro/9791255240983-vite-negWYe).
Sandra aveva dedicato inoltre parte del suo lavoro al territorio, alla museografia, agli studi locali. Nel viterbese aveva collaborato a tante iniziative. Tra queste vanno ricordate l’esperienza di gestione del Museo della Terra di Latera e la collaborazione al Museo del Vino di Castiglion Tiberina. Nel 1997 aveva indetto presso l’Università di Viterbo un importante convegno su Musei e territorio. Anche per questo abbiamo voluto aprire il nostro ‘Centro in periferia’ con un suo scritto e un suo ricordo.
Sandra sta ora nel CIP a fianco di Giovanna Marini, morta l’8 maggio scorso, tre mesi prima di lei. Marini che qui ‘continuiamo a pensare ‘ con un testo di Roberta Tucci, ricco di informazioni e di temi da portare nella memoria futura che fa seguito e dialoga col testo analitico di memoria di Ignazio Macchiarella (vedi CIP 68).
Il 18 luglio è morto Bernard Lortat Jacob, etnomusicologo, studioso di spicco, francese, molto legato all’Italia e in particolare alla Sardegna. (https://www.siacantropologia.it/prodotti/in-ricordo-di-bernard-lortat-jacob/.). Ho avuto con lui e con sua moglie, autrice di un volume sul canto improvvisato sardo, un amichevole rapporto di dialogo e di stima. Ho presentato a Roma il suo: Canti di passione – Castelsardo Sardegna (Libreria Musicale, Lucca 1996) e, nell’occasione della lettura del volume, ho imparato moltissimo su musica, canto, gruppi di esecutori e società locale. Un altro nome da accostare a Giovanna Marini e a Sandra Puccini. È bello che, per il futuro, stiano insieme nei nostri cuori e nei luoghi dei nostri ricordi.
Continuare a pensare, costruire memoria, trascendere nel valore coloro che ci lasciano e che noi tenacemente sentiamo ancora con noi è un modo di superare la morte, di pensarla come un luogo familiare. Ancora una volta cito le parole di Mariangela Gualtieri:
Ringraziare desidero….
….
per i morti nostri
che fanno della morte un luogo abitato.
Continuare a sperare
Oggi risulta molto più difficile continuare a sperare. Occorre un ‘ottimismo della volontà’ che può essere una mera illusione. A partire dal telegiornale delle sette del mattino di ogni giorno, attendo notizie di pace che provengono in particolare da Gaza, ma anche dall’Ucraina e dalle molteplici zone di guerra. La morte e la guerra sono diventate parte della vita quotidiana, Mentre si parla di fermare le armi, l’Israele di Netanyahu continua a bombardare e ad ammazzare donne, uomini, bambini. Quel che toglie la speranza e mozza il fiato è che le regole internazionali, l’ONU. il Tribunale dell’Aia, sono completamente ignorati, accusati di essere antisemiti, mentre gli Usa, per difendere Israele, finiscono per delegittimare le organizzazioni universaliste non riuscendo a bloccare le stragi e a fornire alternative a Gaza.
L’accumularsi di relazioni e intrecci tra le nuove potenze in grado di egemonia mondiale come la Cina e l’India accresce l’incertezza dello scenario soprattutto nella costruzione di alleanze con la Russia di Putin. Il futuro è davvero difficile da immaginare: lo si osserva con grande superficialità come se si trattasse di una nuvola passeggera. Anni fa Jacques Attali, esperto della politica e del mondo, già consulente di Mitterand ed ora anche di Macron, aveva provato a fare una proiezione sul futuro (Breve storia del futuro, Fazi, 2007). Immaginava che, dopo la crisi di una decima forma di capitalismo minato dai conflitti per la concorrenza, si sarebbe arrivati all’iper-impero a controllo totale, quasi un Grande Fratello, che sarebbe poi crollato travolto dai conflitti interni e avrebbe negato ogni forma di libertà arrivando ad una fase di superconflitto, dove il mondo verrebbe completamente distrutto da soggetti che cercando di recuperare potere porterebbero alla quasi totale fine del paesaggio umano. L’iperdemocrazia nascerebbe, dopo, da un mondo di rovine, simile agli odierni paesaggi di Gaza; dopo questo disfacimento, la struttura di base sarebbe costituita dalle grandi aziende umanitarie come Emergency o Medici senza frontiere capaci di gestire il mondo distrutto.
Se prevarrà l’iperdemocrazia, i nostri sogni di uguaglianza e partecipazione universale potrebbero realizzarsi dopo la metà del secolo. Se questa idea fosse sensata (a occhio vengono sottovalutate le nazioni e sopravvalutato il capitalismo globale), potremmo coltivare la speranza che un giorno avremo un mondo di pace e di fratellanza. I miei nipoti avranno ancora molte difficoltà ma i loro figli o il loro nipoti conosceranno la società degli uguali. Il timore è che anche questa non sia che una pia illusione e che il futuro sia solo di distruzione. Come sperare ancora, come non piangere. È anche vero che nel passato abbiamo vissuto cambi di scena, momenti di ribaltamento, abbiamo superato le minacce nucleari, le dittature, ma la ragione ci rende poco disponibili a sperare. Il mondo che avrei voluto lasciare alle generazioni ulteriori ha poche parentele con quello che stiamo vivendo. Intanto le apocalissi culturali e la Fine del mondo di Ernesto De Martino sono un buon modo di intrattenersi per pensare e interpretare il nostro tempo. Il futuro comune è molto cupo. Intanto continuo a sperare in un cessate il fuoco. Chissà se prima che esca questo numero di Dialoghi Mediterranei questa speranza verrà esaudita.
Bambini, vocabolari, noccioli, vigneti eroici e ciliegie
La prima parte del CIP (Tarpino, Lupatelli, Parisi, Cogoni e Fulghesu, Buonvino e De Grazia) tratta temi ‘larghi’ sulle problematiche dello sviluppo locale. La recensione del Vocabolario delle aree interne (Tarpino) ha un carattere riflessivo sulle parole della nostra ricerca, ma dialoga indirettamente con un’altra recensione (Lupatelli) sulla mostra fotografica relativa alla montagna del latte. Qui la domanda che regge tutto è ‘ci saranno bambini nelle aree interne riabitate?’. In effetti nel Vocabolario non è contemplata la parola bambini, ma troviamo invece la parola ‘giovani’. Ragionare su fecondità e nascite è un nodo molto complesso perché il crollo demografico non è legato soltanto alle migrazioni ma anche allo squilibrio nati-morti.
Un altro nodo è il domandarsi se l’agricoltura è sempre una risorsa per il territorio. Il caso descritto da Parisi propone forti interrogativi: i noccioli della Ferrero invadono le aree interne essendo gestiti da un forte potere commerciale e agri-industriale e sono osteggiati da piccole comunità di pratiche virtuose. Cogoni e Fulghesu invece ci pongono di fronte a un caso di forte resilienza anche se non certo in grado di capovolgere lo spopolamento. Gli autori raccontano il rilancio appassionato delle vigne e sono orgogliosi che i vigneti di Meana Sardo siano stati riconosciuti dal Ministero dell’Agricoltura come ‘vigneti eroici’. Buonvino e De Grazia forniscono le tracce di un altro mondo al di là del Mediterraneo ma molto contiguo al nostro che connette feste, comunità e prodotti alimentari.
In questo repertorio di scenari delle aree interne si colloca lo studio Migrazioni verticali. La montagna ci salverà? (Membretti, Barbera, Tartari, a cura di, Donzelli, 2024), testo appena edito nella collana Riabitare l’Italia. Lo recensiremo nel numero 70 in uscita il primo novembre. In questa parte del CIP sono presenti testi, di consistenza e di stile diverso, che si affiancano e si connettono nella direzione di continuare a pensare al futuro delle aree interne, e di continuare a sperare nei processi riabitativi di esse. È un repertorio di scenari, ma anche di idee, di critiche, di analisi, in quel ‘campo largo’ del fare e del riflettere che è alla base del CIP.
Si va configurando uno spazio di riflessione sul patrimonio culturale materiale e immateriale come risorsa del ‘riabitare l’Italia’. Non è una novità, è una costante del CIP che, negli ultimi numeri, ha ripreso vigore (vedi i testi di Atzori, Desiderio, Del Casino, Nardini, Tiragallo, Pirovano). Anche qui si allineano e si intrecciano questioni diverse. Una cooperativa di Sardara (Atzori) è anche una storia di più vite, così come lo è la storia del Museo dell’Alta Brianza (Pirovano). Infatti musei e patrimonio sono scelte, persone, impegni, storie, non subordinazioni al dio del turismo o all’ideologia corruttrice del mercato. Questi testi ci raccontano il patrimonio come un grande e vitale campo di battaglia, negato o solo criticato da progetti troppo deterministici e da analisi radicali del territorio che guardano dall’alto quelle risorse umane. Tra i soggetti attivi di queste frontiere c’è l’UNPLI, che rappresenta uno spazio in rete delle ‘pro loco’ attraverso un modo nuovo di essere in campo (Desiderio).
Il patrimonio è fatto di ricerche e di scoperte, e qui si racconta la storia dei luoghi paludosi della Maremma (Nardini) dove i lavori, le competenze, la vita che li animava sono parte della memoria dell’associazione Archivio per lo studio delle tradizioni della Maremma grossetana, soggetto produttore di una memoria attiva sulla biodiversità e le sue risorse e forme. Così come fa parte del patrimonio vivo il viaggio di un artista (Del Casino) nel paese del Cristo si è fermato ad Eboli. Ad Aliano, paese del confino di Carlo Levi, Del Casino incontra musei e territori ‘patrimonializzati’ dove la memoria è ancora viva. La forma del diario di viaggio con annotazioni di artista è nuova per il CIP e mi pare utile continuarla. Questo insieme di testi si conclude con il racconto della mostra di un giovane antropologo, quell’Atzori che scrive qui della Cooperativa di Sardara, che è anche un pezzo della sua storia. Si tratta di una mostra centrata sulla comunicazione critica, problematica, intuitiva delle ‘cose’ connesse in ‘rappresentazioni perspicue’, Musei, mostre, memorie, territori e patrimonio sono un pezzo consistente della speranza di una dimensione del riabitare ricca di storia e di valore che vale la pena di continuare.
Terribili pale
Il CIP si conclude con due testi che anticipano un problema che investe soprattutto le aree interne e quelle a vocazione turistica. Si tratta del green deal, della transizione verde che passa attraverso l’installazione delle grandi pale eoliche di nuova generazione. In diversi territori ci sono forze che da anni lottano per salvare il pianeta e che si oppongono a uno dei principali strumenti per farlo col rischio di passare dalla parte dei negazionisti e conservatori che ogni giorno tendono a sabotare la transizione. Il loro progetto, tuttavia, è fondamentale: impedire una gestione del territorio e dell’energia da parte di forze esterne e non programmate in modo condiviso. Per le zone interne si tratta di un problema davvero complesso. Che rischia di spezzare i fronti e le trincee.
Il movimento dal basso per le comunità energetiche e contro le pale eoliche e il solare diffuso cerca di ottenere dalle Regioni e dai Comuni una programmazione condivisa dell’uso delle energie pulite. In Molise (Di Vito, Pazzagli), il fenomeno si presenta nella forma di una emergenza di democrazia partecipata che intende arrestare il mercato selvaggio dell’eolico senza finire per rafforzare il fossile e il gas. Il movimento che è attivo in Molise con grande energia partecipativa è molto presente anche in Sardegna con una battaglia campale, di cui daremo conto nel prossimo numero di Dialoghi.
La scena dell’estate
D’estate i piccoli paesi tornano in scena, in buona parte per effetto del turismo ma anche perché molti emigrati tornano per una villeggiatura poco dispendiosa e un po’ nostalgica vivendo così una sorta di ‘doppia assenza’. È questa una forma di turismo che – a mio modo – vivo anche io. I paesi si addobbano e apparecchiano per le feste e per i ritorni degli ospiti, organizzano eventi, incontri, aprono musei, offrono percorsi, presentano libri e film.
Ai primi di luglio sono stato a Meana Sardo, il paese delle vigne eroiche (vedi CIP). Meana è anche il paese natale della mia nonna paterna e di mio padre, e dove ho trascorso la prima infanzia. Tornare dopo molti anni è sempre una occasione di memoria, di presenza viva del passato. Quando era sindaco Nino Cogoni (tra fine anni 90 e primi anni 2000) sono tornato più volte, invitato a presentare libri di storia familiare e a riflettere sul valore della cultura locale, del centro storico. La novità di quest’anno riguarda il riconoscimento, come vigne eroiche. dei vigneti di Meana nel quadro dell’area del Mandrolisai. Tale riconoscimento viene dal Ministero dell’Agricoltura per quei casi che rispondono a caratteristiche di durata, di difficoltà di meccanizzazione, di cura ravvicinata del suolo, di attenzione al biologico. Il riconoscimento sta entrando anche nelle pratiche regionali. In Piemonte ho trovato che il vino rosso Ramie di Pomaretto, ai piedi della Val Germanasca (terra di ricerca per giovani antropologi dell’Università di Siena negli anni 1980-81), è considerato anch’esso ‘eroico’.
Sono stato nella vigna dei Fulghesu a Meana. È una cantina moderna collocata su un’alta collina aspra, non transitabile da mezzi meccanici, la salita in cui sono situate le vigne dà l’idea dell’eroismo. Ma forse ciò che più colpisce è aver fatto una cantina moderna nel cuore del vigneto, raggiungibile solo attraverso strade sterrate e impervie. Qui troviamo un forte dialogo tra coscienza di luogo, memoria e innovazione. I vini della cantina Fulghesu hanno una grafica d’artista e nomi carichi di storia.
È invece il centro storico del Paese ad essere in decadimento. Il Comune ha acquistato alcune case storiche dove sarebbe possibile collocare un museo della cultura tradizionale e, grazie ai vigneti storici, sarebbe possibile fare un ecomuseo, o un museo con percorsi territoriali. Ma sarebbe necessario investirci e la cosa costituirebbe una battaglia importante contro lo spopolamento, e soprattutto contro l’emigrazione dei giovani. A cena, dopo un incontro dedicato al destino dei paesi in calo demografico, si discute di vigneti e di produzione del vino, tra mercato di nicchia a chilometro zero e prospettiva di produzione più ampia e conquista di mercato. A ottobre ci sarà Cortes apertas, un evento di autopresentazione del paese dove le case si aprono ai visitatori per esibire i prodotti tipici.
La Val Pellice è la memoria di Ida, mia moglie, ma ormai è anche per me una seconda o terza terra di memorie. Ci siamo stati ad agosto. Qui, come nelle altre Valli Valdesi, la resistenza in montagna è stata vissuta dai valdesi perseguitati dalla Chiesa romana e dai Savoia, fino al 17 febbraio del 1848, resistenza praticata ben prima di essere condotta negli stessi monti contro i nazifascisti. Come a Meana anche qui i paesi sembrano avere assorbito l’esodo ma resiste quella generazione di mezzo che è rimasta e vive ancora lì. In queste valli transitano per le strade mandrie di mucche con robusti e sonori campanacci, si parla molto in patois, c’è un mondo di relazioni di prossimità. Sono ‘restati paese’, non si sono disgregati, puntano alla qualità e alla cultura. Si dice in giro però che negli ultimi anni si è registrato un calo, che la base storica resiste, ma occorre un nuovo slancio. Visitiamo mostre e musei, sul movimento religioso valdese. Molti musei sono pagine di libro, ma piene di peso, perché qui la scrittura era condizione per leggere da sé la Bibbia e l’alfabetizzazione è comparsa ben prima che nel mondo cattolico.
Ad Angrogna il Museo delle donne, piccolo e intenso, connette la storia religiosa valdese, che ha dall’inizio dato un ruolo religioso paritario alle donne, con il moderno femminismo. Lo spazio montuoso è ricco di boschi, spesso segnati da borghi distrutti e abbandonati, con straordinarie architetture in pietra. Si percepisce il senso di una terra particolare, speciale per la sua storia. Una rete di musei, il “sistema museale ecostorico delle valli valdesi” che comprende anche l’ecomuseo della miniera di talco, costituisce una importante offerta culturale. A Bobbio Pellice la Fira d’la Pouià a maggio e la Fira de la Calà a ottobre segnano l’andata e il ritorno delle mucche all’alpeggio. I formaggi e il burro di alpeggio fanno parte del mondo della qualità e dell’identità della valle. I musei sono un riferimento e una spina dorsale per la resistenza della valle, per la sua cultura di minoranza storica religiosa e per l’incontro con l’altro. Più volte, nei 50 anni da cui mi occupo di musei, ho pensato che i musei fossero superati per poi ricredermi e prendere atto che sono sempre strumenti potenti di comunicazione e di memoria, di presa di coscienza.
A proposito di musei, segnalo un libro recente Fare nuove le cose, a cura di Simona Bodo, Silvia Mascheroni, Maria Grazia Panigada (Mimesis, 2024), libro che ridiscute la missione dei musei. Si tratta di una impresa che pone al centro del museo la narrazione e che si propone come una sorta di rivoluzione del campo del patrimonio culturale. Ne faremo una recensione nel prossimo Cip.
Mentre il mondo si infiamma di guerre, io mi trovo ad indignarmi ogni volta che vedo alla TV la pubblicità dell’ENI che si è appropriata di un pezzo canoro di De Gregori, La storia siamo noi. La storia non è l’ENI, la storia è la gente che la fa. Così come mi dà disagio sentire il brano musicale di Ennio Morricone Gabriel’s Oboe, usato per la pubblicità del grana padano. Quello è un pezzo di battaglia, il simbolo della lotta impari dei nativi e dei bianchi alternativi contro il potere, non può essere un formaggio anche se in uno spot firmato da Tornatore. Per me è l’inno delle rivoluzioni sconfitte che lasciano eredità di memoria e di riprese possibili. Un inno che somiglia molto alla mia e a tante altre vite. Continuo a sperare, anche se assai flebilmente, che Eni e Grana Padano restituiscano al mondo della memoria sociale popolare questi due brani rubati. E che una mattina alle 7 sia annunciata la tregua a Gaza e tra Russia e Ucraina.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.
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