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Contro i negazionismi

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Maurits Cornelis Escher, Occhio, 1946

dialoghi sul negazionismo

di Alberto Giovanni Biuso

Le modalità, le cause, gli effetti degli eventi contemporanei sono quasi sempre più complessi di come appaiano dalle notizie e interpretazioni della grande stampa, delle televisioni, dei social network. Uno dei compiti degli intellettuali – intendendo con tale termine coloro che cercano di pensare l’accadere in un modo non istintivo, non banale e non conformista e che abbiano strumenti per far conoscere il loro pensiero – consiste nel ricordare questa complessità all’intero corpo sociale, così che circostanze e problemi possano essere affrontati nel modo più profondo e fecondo possibile.

I mesi che ci separano dall’inizio dell’epidemia da Sars2 mostrano che questa funzione viene svolta soltanto in parte e in modo frammentario. Circostanza che ricorda ciò che negli anni Venti del Novecento Julien Benda ha definito trahison des clercs, ‘tradimento dei chierici’, dove i chierici sono, appunto, gli intellettuali. Tradimento anche della prospettiva universalista e olistica, capace di cogliere nel divenire complesso del mondo sia le identità sia le differenze, le evidenze e i labirinti, l’apparente semplicità e la reale complessità che sempre il mondo è.

È quanto sta avvenendo anche a proposito dell’epidemia da Sars2. A essere spesso negata è infatti la complessità dell’esistenza umana, ricondotta e ridotta soltanto alla sua immunità da virus. Di più: a un sogno di sicurezza totale e senza rischi che ovviamente non si dà in nessuna condizione del vivente. L’esistenza viene per lo più ricondotta e ridotta alla sua dimensione soltanto individuale, alla salute illusoria del singolo corpo, che non tiene conto del fatto che l’essere umano vive di una intrinseca socialità, fatta di incontri, comunicazione, trasmissione, insegnamento, apprendimento attuati dal corpotempo che vive, agisce, comunica nello spaziotempo condiviso e reale.

L’esistenza è ricondotta e ridotta all’obbedienza acritica o a una altrettanto istintiva ripulsa di un potere che prende decisioni talmente gravi da mettere in discussione – ad esempio in Italia – la Costituzione della Repubblica, mantenendo a tempo indeterminato la condizione di asocialità, di miseria economica, di angoscia psichica nella quale il corpo collettivo va precipitando. Un’esistenza nella quale la salute è un semplice fatto virale e non un evento complesso, costituito da dimensioni organiche, metaboliche, immunitarie, relazionali, psicosomatiche, temporali. Un’esistenza che priva i ragazzi del sapere e del futuro, gli adulti della pienezza, gli anziani della compagnia che lenisce l’inevitabile morire.

Sono tutte forme di negazionismo. Negazione del limite, sostituito da un sogno di sicurezza. Negazione della socialità reale, che accade nel mondo degli atomi e non in quello virtuale dei bit. Negazione della molteplicità del corpo, delle diverse sue espressioni di salute e malattia. Negazione della resistenza alle decisioni di un’autorità smarrita, ripetitiva, retorica, interessata a perpetuare prima di tutto se stessa. Negazione della scuola e dell’università, ridotte a un simulacro virtuale. Negazione dell’unica consolazione che nel morire è la presenza di coloro che ci amano, le loro mani intrecciate alle nostre.

Proverò a formulare qualche riflessione su queste varie forme di negazionismo.

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Maurits Cornelis Escher, La città invisibile

Negazione del limite

Giorgio Agamben ha ragione nel cogliere un vero e proprio «bisogno di stati di panico collettivo» [1] che sembra manifestarsi in corpi sociali abituati a una costante e ormai lunga sicurezza. Un bisogno del quale i media tradizionali e i social networks si sono fatti portavoce, amplificatori e paladini. Giornali, televisioni, pubblici amministratori hanno fatto in questi mesi a gara nel cercare di sollecitare e soddisfare tale bisogno. Questa tendenza è un’espressione della fragilità della “società aperta”, vale a dire di un puro costrutto ideologico del liberismo, che si ribalta nel bisogno di uno Ausnahmezustand, stato d’eccezione / stato d’emergenza, proclamare il quale costituisce il segno che si è i sovrani.

Si assiste quindi all’obbedienza del corpo collettivo verso ordini che prospettano gli arresti domiciliari di massa; che autorizzano i membri dell’esercito a «fermare i cittadini per controllare se rispettano le disposizioni previste dai decreti per l’emergenza coronavirus»[2]; che concedono a ogni vigile urbano, poliziotto e affini il potere di privare i cittadini della libertà di movimento, che soltanto la magistratura sarebbe autorizzata a decretare.

Come quasi sempre, Manzoni ha colto a fondo queste dinamiche. In particolare là dove osserva che gruppi e movimenti sociali i quali non tollerano il minimo sacrificio della propria libertà, a un certo punto rinunciano invece a tutta la loro libertà. Un corpo sociale così attento ai propri diritti di varia natura, molti dei quali secondari, ha rinunciato con rassegnazione o persino con compiacimento alla sospensione delle fondamentali libertà costituzionali, compresa quella di movimento, che è tra le essenziali. Ci sono stati cittadini che hanno invocato apertamente i carri armati nelle strade.

Il mio lavoro mi ha abituato da sempre a trascorrere intere giornate a casa, studiando e scrivendo. Ma quali sono gli effetti psicosomatici di lunga durata tra coloro i quali – e sono naturalmente la maggioranza dei cittadini – non erano abituati a simile clausura? Di più: molti lavoratori continuano a percepire uno stipendio anche ad attività rallentate o annullate. Ma tanti altri, e sono milioni, che vivono di commercio, di attività a prestazione, di esercizi aperti al pubblico, quali perdite vanno subendo, da dove attingono le somme necessarie per vivere? I cosiddetti ristori o rimborsi non sono ancora arrivati a tutti né sono sufficienti per tutti.

Ancora: la peste porta sempre con sé, è inevitabile, gli untori. È un dispositivo socialmente e psicologicamente ben noto: si sono dunque visti interi programmi televisivi pomeridiani collegati in diretta con elicotteri della guardia di finanza all’inseguimento di un passeggiatore solitario su una spiaggia. E tutto questo a costi assai ingenti con i quali si sarebbero potuti acquistare tamponi e altri strumenti sanitari. Un tale spreco della finanza pubblica in un momento di enorme difficoltà del corpo sociale costituisce un segnale assai preoccupante. Quando infatti ci si pone sul piano inclinato del panico, l’inevitabile risultato è la violenza verso colui/coloro che si ritiene portino in sé e con sé il pericolo per tutti gli altri.

L’epidemia Covid19 non è soltanto biologia. È anche politica, economia, spesa pubblica. L’emergenza – per un virus molto contagioso ma poco letale – sta nell’assenza di posti letto, di macchinari, di personale medico. E questo non l’ha voluto il virus ma l’hanno deciso il fanatismo liberista del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Centrale, dell’Unione Europea. L’hanno voluto i mercati, anonime strutture finanziarie che uccidono le vite, le società, le libertà. Ora si vede che lo fanno alla lettera. Non si tratta di ‘minimizzare’, si tratta di capire la complessità di ciò che accade e di affrontarlo con coraggio e lucidità, sine ira et studio, con equilibrio esistenziale e scientifico. Il contrario di ciò che informazione e politica praticano sul coronavirus come su tutto il resto.

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Maurits Cornelis Escher, Metamorfosi, 1937

Negazione della socialità

Ribadisco: la questione non è soltanto di tipo sanitario ma è anche di natura sociale, politica, culturale. Quello che sta accadendo è molto pericoloso perché si sta ridisegnando lo statuto dei corpi, di che cosa sia un corpo, che cosa può fare, che cosa non può fare, che cosa deve fare.

Quanto e come si tornerà indietro rispetto alla grave limitazione delle libertà costituzionali data dalla dittatura sanitaria, dalla militarizzazione del territorio e delle relazioni, dal deserto relazionale, sociale, culturale, conseguenza dello spegnimento di ogni luogo di aggregazione: teatri, cinema, convegni, attività sportive e tanto, tanto altro?

È la paura a indurre alla passività. Un sentimento che l’autorità ha sempre utilizzato, con sistematica efficacia. La paura di base, la paura di fondo, la paura totale, la paura di morire. Una paura che paralizza il pensiero, la critica, la lucidità. Che spinge a giudicare criminale, superficiale, pazzo chi diffida di questo unanimismo del panico. Che invoca la censura verso coloro che muovono anche la minima critica al dispositivo di controllo sociale il quale, almeno in Italia, è dilagato senza alcuna reale opposizione.

Il virus passerà ma non passeranno le pratiche, le abitudini, le leggi, i controlli universali che il virus sta favorendo. E non passerà l’orgia di autorità che il potente di turno, piccolo (sindaco) o grande (ministro) che sia sfoggia nel decretare ogni giorno qualche divieto. La paranoia del potente, così ben descritta da Elias Canetti in Massa e potere, si è dispiegata in modo plastico davanti ai nostri occhi. Le analisi di Canetti vengono ogni giorno confermate: non c’è bisogno di alcun complotto, di segreti, di volontà occulte ed elitarie, poiché la paranoia del potere si alimenta da sola, fa di sé il proprio combustibile. Chi parla di complotti contribuisce in realtà all’atmosfera irrazionale che si è ampiamente diffusa non soltanto nei media e nel dibattito politico ma anche nelle case di tutti noi. Non c’è alcun complotto perché questa è da sempre la pratica del potere, che società tecnologiche favoriscono però in modo esponenziale: porsi sopra la legge, diventare la legge; sentirsi nelle mani la vita e la morte di milioni di sudditi; presentarsi come salvatori di vite rispetto a una società ritenuta infantile e incapace di salvaguardarsi; decretare ogni giorno nuovi divieti, pene, sanzioni, delazioni.

Da quasi un anno il corpo collettivo delle società cosiddette avanzate è fatto di umani che lavorano, insegnano, apprendono, dialogano, fingono di incontrarsi rimanendo per intere giornate fermi davanti a un monitor (si chiama digital labor; espressioni come ‘lavoro agile’ e ‘smart working’ sono degli eufemismi ideologici), abitatori di un mondo privo di spessore, carne, calore, fatto di algoritmi e non di corpi; un mondo alienato alla radice, i cui effetti sulla salute e sulla relazionalità vanno diventando evidenti.

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Maurits Cornelis Escher, Tra due mondi

Negazione dei corpi

La vita è intenzionalità e dunque è un movimento sia spaziale sia semantico da parte di enti capaci di percepire il mondo e riconoscergli ogni volta un significato plausibile, in modo da continuare a esistere in un contesto dato. La vita è un movimento temporale, rivolto verso ciò che sta accadendo, ciò che è appena accaduto, protensione verso quanto sta per accadere; elementi che non vanno intesi come separati ma nella profonda unità che li costituisce. La vita è società, economia, storia. La vita è un movimento fatto di atteggiamenti, comportamenti, abitudini, obiettivi.

Di tutta questa complessità, direi di tanta magnificenza, che cosa è rimasto nella temperie sanitaria e politica che va sotto il nome di Covid19, sotto il nome di epidemia da coronavirus? Poco. Quasi nulla.

Tutto è stato impoverito, ridotto e cancellato anche per ragioni che non hanno a che vedere con la salute di tutti ma con gli interessi di alcuni. Interessi di natura anche sociopsicologica e che riguardano soggetti i quali dal più completo anonimato si sono visti porre al centro della comunicazione televisiva e digitale. È comprensibile che per tali soggetti la fine o l’allentamento del controllo significhi la fine o la diminuzione di vantaggi e prestigio individuali e di gruppo.

Di fronte alle dinamiche complesse e insieme sottili delle società contemporanee, dovere di un intellettuale che è anche docente è chiedere ai propri studenti e ai propri lettori di diffidare delle autorità paternalistiche, del potere che dichiara di agire “per il bene di tutti”. Nell’analisi sociologica simili ingenuità non sono praticabili: ogni autorità è sempre ideologicamente e politicamente connotata e il potere agisce in primo luogo per perpetuare se stesso. È una dinamica per nulla misteriosa, è un fatto semplice e anche tecnico: il gusto del comando riempie la vita e le passioni di molte persone. Non tenere sufficientemente conto di strutture e funzioni collettive come queste conduce alla successiva forma di negazionismo.

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Maurits Cornelis Escher, Pozzanghera

Negazione della resistenza alle decisioni di un’autorità smarrita

Fisiologiche e frequenti sono nelle collettività umane le ondate di esaltazione collettiva causate da diverse ragioni e circostanze: guerre e fanatismi bellici atti a mobilitare cittadini e sudditi verso la loro morte e quella altrui; millenarismi religiosi pronti ad assicurare che un qualche regno dei cieli è vicino e basta fare qualcosa – ad esempio recarsi a piedi a Gerusalemme e conquistarla nel nome di Cristo (1096) – per ottenere la garanzia della salvezza; epidemie e contagi che spargendo il terrore supremo giustificano ogni ordine e decreto delle autorità pro tempore, qualunque sia il loro segno politico.

In alcuni Stati europei in nome del contagio da Covid19 e dell’epidemia psichica da esso scatenata si proibiscono i matrimoni tra omosessuali; si dà la caccia a solitari camminatori sulle spiagge; si lasciano in angosciosa solitudine i moribondi [3]; si sprangano scuole, università e biblioteche facendo precipitare il corpo sociale in quelle che una volta si chiamavano le “tenebre dell’ignoranza”, sostituendo la relazione viva con un algido e sterile contatto digitale/telematico/virtuale/tra insegnanti e allievi. E inoltre, a clamorosa negazione di anche recentissime campagne ecologiche, si suggerisce l’utilizzo dell’automobile privata come “mezzo più sicuro” rispetto a quelli pubblici; si impongono maschere e guanti di plastica il cui disordinato smaltimento sta producendo danni enormi all’ambiente, come testimonia anche il noto geologo Mario Tozzi:

«Arrivano già le segnalazioni di quantitativi crescenti di mascherine e guanti in mare, dove diventano letali per tartarughe e pesci che li scambiano per cibo. […] Se anche solo l’1% delle mascherine venisse smaltito non correttamente (e alla fine disperso in natura), ciò significherebbe dieci milioni di mascherine al mese disperse nell’ambiente. […] Questa roba finirà nel Mediterraneo, dove ogni anno si riversano già 570 mila tonnellate di plastica. […] E c’è una contraddizione ambientale ancora più pesante. Ovviamente soffriamo per le 320mila vittime che Covid19 ha mietuto in tutto il mondo, ma non ci impressionano tanto i 4 milioni di morti in più, rispetto alle medie ‘normali’ che l’Oms segnala da tempo a proposito dell’inquinamento atmosferico; 80 mila solo in Italia, quando per il virus ne piangiamo, per ora, meno della metà. Il virus fa paura, l’inquinamento e la plastica inutile no»[4].

Per una specie come la nostra le parole sono tutto, perché sono insieme pensiero in atto, pensiero pubblico, pensiero che comunica. Un’espressione come “distanziamento sociale” dice quindi molto, e drammaticamente, della visione che sta attualmente vincendo; “attualmente” da alcuni decenni, da quelli che videro Thatcher e Reagan imporre l’ordine liberale e liberista al mondo. Un ordine del tutto ed esclusivamente individualista e quantitativo, si tratti di beni, risorse, denaro, velocità, vita. La semplice vita organica – fondamentale ma non esaustiva – è ciò che i decisori politici si sono assunti come compito primario, a costo di rendere la vita di tutti misera, angosciante, depressa.

La vicenda del coronavirus nell’anno 2020 è stata ed è anche la testimonianza di un complottismo al contrario, testimonianza dell’attribuzione di ogni responsabilità all’elemento biochimico, al virus – indubbiamente presente – e però del silenzio a proposito delle condizioni finanziarie; delle modalità produttive (i mercati della carne); delle politiche sanitarie (la diminuzione drastica e feroce dei finanziamenti alla sanità pubblica) che ne hanno favorito la comparsa, la virulenza, la diffusione. Il nascondimento della presenza umana e politica dentro questo virus impedisce la comprensione dei suoi effetti o la loro riduzione a polemiche tra i partiti, qualcosa non solo di patetico ma anche di pericolosamente sciocco di fronte al pericolo che il Covid19 rappresenta per tutti.

Il silenzio sulle ragioni strutturali del contagio è una delle forme più pericolose del negazionismo diffuso nel corpo sociale. Alcune delle conseguenze sono state sperimentate in un modo o nell’altro da tutti i cittadini. E sono queste:

«La gran parte delle persone ha sacrificato volontariamente la propria libertà in cambio di un’illusoria sicurezza. La nostra prigionia, per quanto imposta dallo Stato, è accettata dai più come male necessario. Lo Stato, principale responsabile della diffusione dell’epidemia, si declina come Stato Etico, padre che comanda, punisce e imprigiona i figli per il loro “bene”. I nemici sono quelli che non si piegano alle regole, persino quelle più insensate. I nemici sono i sanitari che denunciano la strage, invece di scrivere una pagina del libro Cuore del Covid-19. I nemici sono i lavoratori che scioperano nonostante i divieti, perché il ruolo di agnello sacrificale gli sta stretto. I nemici sono i detenuti che provano a sopravvivere. La delazione verso il vicino che trasgredisce è il premio morale per chi, strangolato dalla paura, resta intanato in casa, in inconsapevole attesa che il virus gli venga recapitato a domicilio dal parente che lavora o fa la spesa. Il panopticon globale è il passo successivo, la condizione che ci viene posta per passare dai domiciliari alla libertà vigilata. Sinora i più si sono piegati allo stato di eccezione senza opporre resistenza» [5].

Sullo stesso numero di A Rivista anarchica, Giuseppe Aiello descrive una situazione che ho vissuto anch’io nel dialogo con alcuni amici e colleghi:

«In tempi di pace, quando i morti sul lavoro, sulle autostrade, di cancro industriale si contano a decine di migliaia, ma non c’è “lo Gran Morbo” a minacciarci, citano Foucault come se fosse una specie di amico di famiglia dal quale hanno analiticamente appreso i segreti della microfisica del potere sin da quando erano in fasce. Adesso che si sono all’improvviso brancaleonizzati, della critica dell’istituzione medica, dell’analogia strutturale tra luoghi di detenzione brutale come il carcere e quelli della salute statalizzata non sanno più nulla. Ma come, il rapporto medico-paziente non era uno dei cardini della torsione autoritaria della società disciplinare? L’ospedale non aveva lo stesso significato di manicomio e caserma? No, roba passata, mò ce stà ‘o virùss» [6].
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Maurits Cornelis Escher, Natura morta e strada, 1937

Negazione della scuola e dell’università

Una delle espressioni più gravi della dissipatio di vita collettiva che stiamo subendo è la rinuncia di fatto a insegnare. Insegnare è infatti un’attività e una sfida che consiste nell’incontro tra persone vive, tra corpimente che occupano lo stesso spaziotempo non per trasmettere nozioni ma per condividere un mondo. Insegnare significa costruire giorno dopo giorno, saluto dopo saluto, sorriso dopo sorriso una relazione profonda, rispettosa e totale con l’Altro, in modo da riconoscersi tutti nella ricchezza della differenza. Insegnare significa abitare un luogo politico fatto di dialoghi, di conflitti, di confronto fra concezioni del mondo e pratiche di vita. Insegnare non significa erogare informazioni ma scambiare saperi.

A distanza tutto questo è semplicemente impossibile perché scuola e università non sono un servizio amministrativo, burocratico, formale, che possa essere svolto tramite software; scuola e università costituiscono un luogo prima di tutto fisico, dove avviene uno scambio di totalità esistenziali. Senza relazione tra corpi, tra sguardi, tra battute, tra sorrisi, tra esseri umani, e non tra piattaforme digitali, senza le persone vive nello spaziotempo condiviso, non esiste insegnamento, non esiste apprendimento, non esiste scuola né università. Non possiamo permettere che degli schermi riducano la conoscenza ad alienanti giornate dietro e dentro un monitor. Come si può realisticamente pensare che persone di 15-20 anni (ma anche tutte le altre) possano rimanere sei ore davanti a uno schermo mantenendo la loro concentrazione e non subendo danni psicologici?

La vita trasformata in rappresentazione televisiva o digitale diventa finta, si fa reversibile nell’infinita ripetibilità dell’immagine, nel potere che l’icona possiede di fare di se stessa un presente senza fine. Abituandoci a sostituire le relazioni del mondo degli atomi con la finzione del mondo dei bit, rischiamo di perdere la nostra stessa carne, il senso dei corpi, la sostanza delle relazioni. Non saremo più entità politiche ma ologrammi impauriti e vacui. E invece dobbiamo ribadire un’ovvietà – triste il tempo nel quale l’ovvietà diventa una forma di resistenza – e cioè che studenti e docenti non siamo pixel su un monitor ma umani nello spazio e nel tempo.

Nonostante la dedizione mostrata dagli studenti, e della quale sono loro profondamente grato, le relazioni che ho avuto con i tre gruppi classe nell’anno accademico 2019-2020 sono di una triste povertà, espressione di un’ondata di ultraplatonismo, di spiritualismo digitale. Fuori dallo spaziotempo dei corpi non esiste la persona umana ma soltanto ologrammi con un nome. Lo struggente testo di un bambino delle elementari descrive il dolore lieve, la fiduciosa nostalgia, il desiderio di tornare nella scuola vera. Questi bambini dicono quello che molti adulti non capiscono, non capiscono proprio: «Mi ricordo quando suonava la campanella. Invece nella scuola al computer non suona mai la campanella, non suona mai niente» [7].

Grave è, infine, che non si percepisca con chiarezza la discriminazione sociale che la didattica a distanza produce. Riporto, a questo proposito, una sintesi apparsa sulla rivista di Altroconsumo, un’associazione di cittadini consumatori:

«Solo una minoranza di studenti italiani – per la precisione il 40% – non lamenta difficoltà con le lezioni a distanza. La maggior parte invece deve scontrarsi con problemi di ogni genere: lentezza delle connessioni domestiche, difficoltà nell’uso dei software necessari, necessità di condividere gli spazi con altri componenti della famiglia, deficit nella disponibilità di dispositivi e carenza dell’offerta formativa da parte delle scuole. È quanto emerge da un’indagine dell’Autorità garante per le telecomunicazioni»[8].
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Maurits Cornelis Escher, Un altro mondo

Negazione della consolazione nel morire

 «La morte è un supplizio nella misura in cui non è semplicemente privazione del diritto di vivere, ma occasione e termine di una calcolata graduazione di sofferenze» [9]. E quale sofferenza più ferocemente inflitta a degli innocenti del lasciarli morire da soli, nella disperazione della fine, nella distanza dai propri affetti e figli, nel gelo di istituzioni geriatriche sbarrate a chiunque non sia tra i controllori della vita che muore mentre muore piangendo e soffocando senza che nessuno stringa la mano del morente?  E tutto questo, con stolta ironia, per «difendere i nostri anziani».

Secondo Platone la filosofia è anche un prepararsi a morire; per Heidegger l’esistenza è Sein-zum-Tode, un essere per la morte; una delle branche della filosofia si chiama tanatologia. Anche per questo è un orrore impedire ai familiari di assistere i propri anziani che stanno morendo. Nessuna civiltà era arrivata a tanto. I vecchi vengono dunque abbandonati alla propria solitudine, circondati – e non sempre – da “operatori sanitari” ma lontani dai loro affetti e quindi dalla vita. I giovani vengono criminalizzati mediante una delle tante parole/luoghi comuni che servono a parlare senza pensare: movida. Vengono quindi prima invitati e poi costretti a non uscire di casa, a tornare a ore debite alle proprie dimore, a non stare insieme. E vengono indicati e sospettati come gli “egoisti untori” dell’epidemia.

Nel trattamento rivolto ai vecchi e ai giovani serpeggia dunque una concezione sacrificale dell’esistenza, un memento mori non certo declinato come consapevolezza della nostra finitudine ma come sentimento di terrore e di colpa. Una concezione sacrificale che mostra – in un modo che per la storia della cultura è di grande interesse ma che nel tessuto quotidiano diventa solo angoscia – la permanenza delle più medioevali concezioni della fede cristiana: l’esistenza come peccato, la vita quotidiana come espiazione, le malattie come castigo, la rinuncia come soluzione. E tutto questo imposto non più da preti e teologi ma da politici e biologi.

A che cosa si è ridotta la vita, della quale tutti si ergono a difensori? L’elemento ascetico gorgoglia sempre nelle società umane ed è stato capace di riapparire con tutta la sua forza anche in una società apparentemente disincantata e produttivistica. Questo è il confine della biopolitica, oggi.

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Maurits Cornelis Escher, Labirinto

Conclusione: biopolitica ed epidemia

Società e politica funzionano come un piano inclinato: una volta che la pallina comincia a rotolare acquista velocità e diventa difficile fermarla. È questo uno dei più noti ‘segreti’ dell’autorità: quando la potestas fa leva sul terrore arriva un momento nel quale non è più necessario che essa dia ordini precisi. I corpi intermedi provvederanno a parlare al posto suo e a decidere secondo quanto l’autorità di governo avrebbe stabilito e che certamente desidera.

Tutto questo, si dice, sulla base di dati numerici oggettivi. Quali? Quelli che danzano ogni giorno cambiando natura e direzione? Quelli che gli stessi organismi tecnici e amministrativi smentiscono reciprocamente in relazione ai loro componenti sanitari e politici? In ogni caso, e a proposito dell’ossessione di numeri gridati a caratteri cubitali – numero dei positivi equiparato in modo antiscientifico a numero dei malati; numero dei ricoverati, numero dei morti, compresi i deceduti per altre patologie conteggiati come ‘morti da covid’ –, ricordiamo quanto scrisse Gregg Easterbrook: «Torture numbers, and they will confess to anything» [10]. Alla domanda «Quali sono i dati certi sul COVID–19?» una studiosa risponde in questo modo: «Per dirla senza mezzi termini, nessuno» [11].

Più in generale, molto più in generale, il fatto è che pensavamo che l’intero del quale siamo parte, – Γῆ, Gea, la Terra – si facesse uccidere da noi senza prima tentare di salvare se stesso, eliminandoci. Quanto sta accadendo è frutto, nella sua dimensione biologica e non biopolitica, di un’entità invisibile, microscopica, inafferrabile, temibile: un virus. Noi, che ci crediamo i padroni del cosmo, siamo alla mercé di un’infima parte del reale. Ma non impareremo neppure stavolta. Troppo grande e radicata è la ὕβρις, la tracotanza che intesse l’antropocentrismo biblico e la civiltà del capitale. Ma Γῆ, la Terra Madre, eliminerà Homo sapiens prima che questi uccida la Terra. E l’intero neppure se ne accorgerà: «Un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa» [12].

E tuttavia c’è molto da fare, se si vuole. Anzitutto non rimanere nel recinto mediatico, psichico e sociale nel quale l’ossessiva informazione sull’epidemia vorrebbe tenere rinchiuso il corpo sociale, distraendolo

«dai nodi che il CV-19 ha disvelato: smantellamento della sanità pubblica, mercificazione delle cure e dei sistemi di protezione sanitaria, inadeguatezza del trasporto sempre più privato e sempre meno pubblico su cui si viaggia ammassati, sfaldamento (di lunga data) della scuola pubblica, abbandono delle piccole imprese e dei lavoratori, devastazioni economico-sociali della globalizzazione, export unico obiettivo con una domanda interna abbandonata a sé stessa» [13].

E poi, ad esempio, «tenere una lezione ai propri studenti senza mediazioni telematiche, in presenza fisica; lavorare in gruppo ‘dal vero’; spostarsi fisicamente in un’altra città o nazione; incontrarsi; fare una festa; fare un’assemblea – potrebbero sembrare le più ovvie delle rivendicazioni, il ritorno a una normalità da recuperare dopo un periodo di obbligata astinenza. Ma invece proprio il tempo della deprivazione ha dimostrato quanto queste pratiche siano preziose, funzionali alla vita activa senza la quale, per l’uomo, non si dà vita contemplativa ma non si dà neppure la mera sopravvivenza biologica» [14].

Dialoghi Mediterranei, n.47, gennaio 2021
Note
[1] G. Agamben, Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata, «il manifesto», 26.2.2020.
[2] Circolare del Ministero degli Interni, 12.3.2020.
[3] X. Chiaramonte, Morte trionfata: lutto e metamorfosi al tempo del virus sovrano, in «Krisis. Corpi, Confino e Conflitto», Catartica Edizioni, Sassari 2020.
[4] M. Tozzi, La rivincita della plastica, «Touring», luglio-agosto 2020: 22.
[5] M. Matteo, in «A Rivista anarchica», n. 443, maggio 2020: 12.
[6] Ivi: 32.
[7] G. Caliceti, «Mi ricordo quando suonava la campanella. Invece nella scuola al computer non suona mai la campanella, non suona mai niente», «il manifesto», 14.5.2020.
[8] La didattica a distanza accresce le disuguaglianze, in «Altroconsumo Inchieste», n. 353, dicembre 2020: 11.
[9] M. Foucault, Sorvegliare e punire (Surveiller et punir: Naissance de la prison, 1975) trad. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976: 37.
[10] G. Easterbrook, Our Warming World, in «New Republic», 11.11.1999, vol. 221: 42.
[11] V. Cardella, Il terrore ai tempi del coronavirus: tra mostri, irresponsabili e bravi cittadini, in «Filosofi in ciabatte. Divagazioni filosofiche ai tempi del Coronavirus», a cura di M. Graziano, Corisco Edizioni, Roma-Messina 2020: 42.
[12] G. Leopardi, Dialogo della natura e di un Islandese, in «Operette morali [1834]», a cura di P. Ruffilli, Garzanti, Milano 1982: 157.
[13] Editoriale di «Indipendenza», anno XXIV, n. 49, settembre/ottobre 2020: 1.
[14] Corpi e corpi. In presenza, in «Corpi e politica», 28.6.2020.

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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Sociologia della cultura. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Nel 2020 ha pubblicato due libri: Tempo e materia. Una metafisica (Olschki Editore), Animalia (Villaggio Maori Edizioni).

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