di Stefano Montes
Nei paragrafi che seguono prendo in conto cinque diversi contesti, ognuno per paragrafo, al fine di esaminarne i significati – non esaustivamente intesi – acquisiti per un soggetto consapevolmente catturato nelle cornici del mondo e della soggettività che lo orienta. Il soggetto in questione sono io stesso, inevitabilmente, poiché il presupposto è proprio quello di sondare le molteplici possibilità dell’autoetnografia condotta in prima persona. Per quanto brevi, dunque, i cinque frammenti sono da considerare delle vere e proprie incursioni etnografiche in cui il mondo viene visto come uno spazio incorniciato – non sarebbe, ai miei occhi, possibile il contrario – da un soggetto situato al suo interno per posizioni e atti spazio-temporali che sono, a loro volta, anch’essi, ineludibili cornici dinamiche dello stesso soggetto in divenire.
L’idea alla quale siamo affezionati, in molti casi, è che siamo nel mondo secondo forme di indubbio e apparentemente statico posizionamento. In realtà, dal mio punto di vista, siamo proiettati nel mondo con i nostri sensi e cognizioni, attraverso le loro forme di contatto, in un divenire continuamente ritagliato da cornici spazio-temporali. Quello che segue è dunque, nel suo insieme, un lavoro di ‘riflessione esperienziale’ sulla valenza semantica di un soggetto situato in contesti diversi. Difficile, infatti, pensarsi in maniera totalmente astratta rispetto a un luogo e a un tempo specifici. Il soggetto è, insomma, sempre versato in un contesto che non soltanto gli rimanda un’immagine del suo riflesso per sottrazione ma funziona esso stesso – il soggetto – da cornice del mondo.
Ho cercato, per quanto possibile, di fare a meno – se non altro inizialmente e nei propositi di partenza – di grandi astrazioni e di radicarmi soprattutto nelle soglie e negli interstizi dell’esperienza da me vissuta in funzione dei vari contesti. In sostanza, ho adottato la prospettiva secondo cui «la verità sta […] tanto negli interstizi quanto nella struttura» (Jackson 1989: 187). In questo scritto, ho privilegiato più le soglie che la struttura e le possibilità di astrazione. Va da sé, inoltre, che le foto che accompagnano lo scritto non sono semplici rimandi di contorno ma dei veri e propri intertesti che interrogano il discorso scritto e, da esso, interrogati.
I. Il giardino come pausa
Dopo la convulsa arrampicata fin su – al duomo – s’impone una pausa. Cos’è una pausa se non una sospensione di ciò che si faceva, una interruzione dall’attività precedente? Una pausa è questo e altro ancora. Molte forme di discontinuità, di volta in volta e in funzione del contesto, possono infatti acquisire questo tratto semantico e culturale. La descrizione di una situazione specifica può senz’altro contribuire a definire il senso di sospensione di una pausa, se non altro quella mia, in un contesto particolare, dopo una bella corsa. La pausa s’impone, la descrizione va da sé. Nei paraggi del duomo, si trova uno splendido giardino, con vista sul paese sottostante, dove si può bere qualcosa, tranquillamente. È una bella scoperta, in effetti, perché l’entrata non lascia presupporre niente di speciale; mettendo piede nel locale, invece, ci si rende subito conto che il posto è suggestivo, rilassante, spazioso, alberato.
Mi piazzo al riparo dal sole, sotto un albero, benché il sole sia ormai calante, sia un assaggio di magnifica luce diffusa sulle cose intorno a me. Mi piazzo e sono letteralmente immerso in una luce tiepida che volge al giallo tenue; sono inoltre avvolto dal verde prorompente e vivace degli alberi. Non saprei dire cosa prevale – quali dei due effetti cromatici – in questo magico momento della giornata in cui il sole non fa più sentire i morsi dell’afa e la luce diviene meno spessa, quasi incolore, magica. Prevale il giallo o il verde? È proprio questo che mi piace: questa sospensione indecisa che mi interroga. Mi spinge ad osservare, andare oltre con lo sguardo, e rimanere serenamente seduto, in pace con me stesso: immobile e svolazzante.
Devo dire che ho avuto fortuna: il giardino è grande, con tanti alberi che sembrano avviluppare le persone e, allo stesso tempo, consentire una via di fuga verso il paesaggio urbano di fronte, in basso. Sembrerebbe un quadro, sembrerebbe di essere al cospetto di una totalità composta ad arte per lo spettatore! Cosa determina questo effetto d’insieme delle cose? Non ha tutti i torti Simmel quando ricorda che a «determinare il carattere delle cose, in ultima istanza, è il fatto che siano un tutto oppure delle parti» (Simmel 2020: 299). Io posso sbizzarrirmi e lasciare correre lo sguardo sulle case in basso che formano un insieme: mi diverto a indugiare su quella che percepisco come una totalità e risiedo, al contempo, nel luogo in cui mi trovo, lasciandomi avvolgere da sensazioni piacevolmente contrastanti. Il paesaggio sottostante e il giardino in cui mi trovo sono misura, in ogni caso, l’uno dell’altro: ci si siede e ci si rilassa, si guarda giù e si beve qualcosa. Più che altro, è particolare questa duplice sensazione di elementi che si compenetrano: da una parte, essere accolto e stare sereno in un bel giardino; dall’altra, essere trasportato con lo sguardo verso l’apertura di uno spazio urbano lontano e sottostante. Il giardino e il paesaggio non si oppongono di fatto; semmai, insieme, contribuiscono a procurare questa sensazione poco usuale – contrappuntistica – di chiusura e apertura, radicamento e slancio in avanti, permanenza sul luogo e trasporto aereo.
Io, all’entrata, dopo una breve indecisione, prendo posto su una sedia a sdraio; comincio a scattare qualche foto mentre sorseggio una birra come se fosse acqua fresca, dissetante. Soddisfatta l’urgenza della sete, mi metto a sorseggiare il rimanente con calma, cercando nel frattempo l’angolo di ripresa migliore per la foto. Ne scatto tante, di foto, le riguardo ma non riesco a mettere a punto un vero e proprio principio di scelta. Vorrei selezionarne una sola che sia veramente rappresentativa dell’atmosfera. Le foto mi sembrano tutte giustificate per molti versi. Più che la bellezza in sé, tuttavia, mi attira la possibilità di fare rientrare nel fotogramma cose molto diverse e tutte, per me, significative in questo momento di altalenanti sensazioni. Più che il bello, mi interessa la resa contrappuntistica del momento. Alla fine, scelgo quella che include una luce alta sulla destra, innocua ma particolare. Sembra una luce – una lampada – fuori posto, il cui unico effetto tangibile risiede nel chiarore riflesso artificialmente, su alcune foglie dell’albero, alla sinistra del fotogramma. Nell’insieme sfrangiato, sembra essere fuori posto per la sua forma circolare, predeterminata. Eppure la sensazione di ‘fuori posto’ dura poco; ci si abitua – guardandola – a questa forma in apparenza ingiustificata, persino insignificante in sé. Contribuisce all’effetto di compresenza di cui parlavo prima: in questo caso, la naturalità della luce del sole si evidenzia maggiormente, per differenza, con l’artificialità dei riflessi emessi dalla lampada. È come se la foto, di pari passo, mettesse in scena un principio di scelta e l’irruzione, talvolta inevitabile, del caso. Mi ricorda – intimamente – che non sono mai totalmente padrone di ciò che faccio, delle mie scelte, dei miei percorsi di persona e turista. È un buon pro-memoria del momento, del mio modo di essere turista in cui caso e intenzione si devono mescolare affinché la vacanza sia di mio gradimento.
In effetti, già la scelta di questo posto di ristoro è avvenuta casualmente. Più che altro, ero esausto per la corsa e volevo soltanto stare a leggere qualche pagina in un luogo qualsiasi, senza tanti fronzoli. Ero stanco, volevo leggere e basta. E invece mi trovo per caso in un luogo splendido, di mia potenziale predilezione, in cui i diversi elementi sembrano, tutti, convergere al fine di rendere la mia pausa più gradevole, amplificando la portata sensoriale dell’esperienza. A conti fatti, le situazioni che più mi risultano gradevoli, soprattutto da turista, devono ricadere sotto l’egida dell’ossimoro; devono avere, in ultima analisi, tendenza a sfuggire a una piena comprensione unilineare della situazione in sé. Ma c’è altro. C’è qualcosa che ha una valenza più teorica. Sedendo comodamente, guardando giù verso il paese, mi sembra di estraniarmi dalla realtà e di osservare un quadro composto, per gli occhi del turista, da un artista: un quadro con una sua cornice. Simmel insiste sul fatto che la cornice del quadro ha un effetto isolante rispetto al contesto, contribuendo, così, a renderlo una totalità indipendente dal resto del mondo. È grazie alla cornice che «lo sguardo scivola verso l’interno» del quadro (Simmel 2020: 300).
In effetti, Simmel parlava – a suo tempo – di cornici vere e proprie e dell’effetto che queste avevano nell’attribuire all’opera il valore artistico. Da un punto di vista antropologico e semiotico, tuttavia, l’ipotesi di Simmel potrebbe valere, con qualche aggiustamento, per altri elementi che non sono delle vere e proprie cornici ma che ne incarnano la funzione: una finestra, per esempio, oppure, come nel mio caso, lo sfrangiarsi verso il basso dei rami di un albero che delimita il contorno superiore. Insomma, la cornice di cui parla Simmel non è, dal mio punto di vista, che un caso particolare di una figura più generale d’interposizione tra il mondo esterno e il riquadro ritagliato. Questo ampliamento di prospettive di cui parlo, più in generale, consente inoltre di meglio comprendere gli stessi riferimenti di Simmel alla distinzione tra individuo e società, presenti nel saggio sulla cornice. Secondo Simmel, infatti, separando e congiungendo, la cornice svolge una funzione nel campo del visibile – tra l’interno e l’esterno, tra il quadro e il mondo – che ha un suo corrispettivo nella tensione instaurata tra individuo e società. Se, nella mia prospettiva, consideriamo la cornice vera e propria soltanto uno dei casi attraverso cui le figure d’interposizione si mettono in opera, allora la questione acquisisce uno spessore antropologico più ampio. Nel mio caso specifico, per esempio, non si è trattato soltanto di assegnare un ruolo al visibile in sé, ma di tenere conto dei vari tratti esperienziali e cognitivi che convergevano e divergevano secondo formule diverse di interposizione, secondo tipologie diverse di figure liminari con funzione di ‘cornice’.
Voglio ricordare, per esempio, che anche la pausa – per quanto avente un carattere in apparenza temporale – è anch’essa una figura d’interposizione, una sorta di cornice tra due attività e tra contesti d’uso. In definitiva, se è impossibile estrapolarsi dagli spazi in cui noi tutti ci situiamo, allora è utile capire in che modo l’inserimento del nostro corpo e del nostro dispositivo visivo in questi spazi li delimita orientando, di conseguenza, il nostro stesso vedere e percepire, così come il mondo e «i punti d’inserzione, i modi di funzionamento e le dipendenze del soggetto» (Foucault 1971: 20). Ciò non riguarda soltanto il soggetto e il mondo: il soggetto che percepisce e il mondo che viene ritagliato dallo sguardo e dai sensi (e, viceversa, i ritagli geometrici che impongono certe percezioni e prospettive al soggetto). La questione ha a che vedere inoltre con tutti quei dispositivi che consentono di immagazzinare in memoria questo rapporto che si instaura tra il soggetto e il mondo. La fotografia è anch’essa – benché a un livello secondo – un dispositivo di delimitazione e inquadramento del mondo e del soggetto che lo percepisce e ci ragiona definendosi e definendo il rapporto tra se stesso e il mondo, tra l’individuo e la società.
II. La narrazione del cesso
È una cornice. Lo è, ma è anche altro. Per precisare, direi che è la cornice di un bagno. Così è, così non sembra dalla foto! Meglio dirlo prima, altrimenti potrebbe sembrare chissà che: forse un bagno casalingo o, addirittura, un pezzo di salone di una casa privata. E lo spettatore-lettore, nella confusione e incertezza, potrebbe perdersi in tante e diverse interpretazioni, in inutili circoli ermeneutici. Sarebbe tempo sprecato. L’ho quindi specificato sin dall’inizio. La foto, per di più, non dà tracce; la foto, in sé, non dice dove potrebbe effettivamente svolgersi l’azione (se di azione si può parlare in questo specifico contesto in cui il corpo prende il sopravvento autonomamente, scaricando la intenzione esplicita e pianificata del soggetto preposto). È la cornice di un bagno: un bagno pubblico; il bagno di un bar; un bagno qualsiasi; il bagno in cui mi sono imbattuto, oggi, nel corso della mia passeggiata pomeridiana. Non ce la facevo più. Non reggevo oltre. Non tenevo.
Mi trovavo a passare da quel bar e ho pensato di andare in bagno (dico ‘quel bagno’ e non ‘questo bagno’ perché penso già il tutto come un evento lontano dalla mia esperienza vissuta). Mi sono detto: perché non andare in bagno? Che male può fare sostare un po’, interrompendo la passeggiata? Una passeggiata, se tale, non ha scopo. A dire il vero, il bisogno non era così impellente. A cose fatte, me ne sono reso conto. Avrei potuto resistere. Avrei potuto passeggiare a lungo e riservarmi il privilegio del bagno in un secondo tempo. Ma, avendo visto il bar, passando, ho pensato di sbarazzarmi di quello che avrebbe – eventualmente – potuto essere un problema nel seguito della passeggiata. Avrei potuto avere bisogno di un bagno, nel corso della passeggiata, e avrei poi dovuto cercarlo di proposito. Meglio assecondare il caso che ha voluto che passassi davanti un bar e scongiurassi il pericolo dell’imprevisto futuro. D’altronde, come si combatte l’imprevisto? Prendendo le adeguate misure anzitempo, calcolando il futuro dell’azione in corso, riflettendo sulle possibili forme di interazione di tipo oppositivo. Non riuscire a trovare un bagno quando lo si cerca corrisponde, in termini attanziali, a un vero e proprio opponente: un antagonista che ostacola l’azione principale del soggetto della quête. In fondo, un modello di prevedibilità non è altro che un’operazione di valutazione dei possibili antagonisti all’azione del soggetto principale. Meglio essere previdenti dunque e tenere conto delle giuste strutture attanziali, come insegna Greimas nelle sue analisi. Meglio annullare, finché si può, la funzione negativa del caso e della coincidenza. Meglio tenere conto di quei rituali quotidiani che consentono – grazie a un’efficacia presunta, quell’efficacia di cui parlava pure Lévi-Strauss a proposito di cura sciamanica – di tenere lontana la cattiva sorte.
In ultima analisi, cos’è la cattiva sorte se non un modo imprevidente dell’azione che non tiene conto dell’universo mitico individuale o collettivo? Io mi sono adeguato: sono andato in bagno per tenere a bada la cattiva sorte. Ma, poi, perché lo chiamo bagno e non cesso? È un bel bagno, pulito, con una cornice simpatica che fa venire voglia di guardarsi allo specchio e di riflettere la propria immagine a tutto tondo. Tra una cosa e l’altra, si può sempre dare un’aggiustata ai capelli o una allisciata alla barba. Si possono fare tante cose in un bagno. Ciò che conta è comunque che, in qualche modo, era come se lo sapessi: di trovare un bagno pulito, con una bella cornice pronta a riflettere immagini costitutive dell’identità del soggetto (si sa: dopo aver fatto un uso proprio del bagno, il riflesso della propria immagine allo specchio è gratificante). Forse avevo in memoria il bagno, nonostante non ne fossi del tutto consapevole al momento? Questa è la ragione – implicita – per cui mi è venuta voglia di visitare proprio questo bagno in particolare? Un bagno che non è un cesso. Un bagno con cornice. Un bagno pulito. Un bagno atto a scongiurare il pericolo dell’imprevisto.
Di tanto in tanto, vado a prendere un caffè in questo bar ed è possibile che da qualche parte, nel mio intimo, sia rimasta traccia di questa cornice. Allora, per avvalorare questa ipotesi o, comunque, per mantenere traccia di questa narrazione – in fondo, un’ipotesi non è altro che una narrazione contratta, dice Bateson in Mente e natura – ho deciso di scattare una foto mentre ero abbassato e facevo finta di lavarmi le mani. Ho pensato: un po’ di finzione in un bagno (o cesso che sia) non guasta: non può che essere un valore aggiunto. Così, io ci sono nella foto, mi sono ripreso nella foto, ma solo in parte: quella parte di me che definirei spalla. Anche se, per onestà, devo dire che si vede pure il riflesso di una parte del collo e della mascherina che avevo momentaneamente abbassata. A che vale, d’altronde, tenere la mascherina sul volto mentre si è in bagno? Così, l’ho abbassata con cura, facendo attenzione a toccare soltanto l’elastico per non contaminarla. Così facendo, ho prodotto un ulteriore effetto di cornice rispetto al mio stesso corpo e all’eventuale integrità di soggetto che penso di essere. Sono intervenuto incorniciando.
Parlare di cornice, comunque sia, non è cosa semplice. Io vado al sodo – al bisogno fisico senza indugiare – ma la questione ha un fondo teorico di una certa importanza, legata al valore che attribuiamo agli oggetti, nonché alla distinzione che facciamo tra testo e contesto. Di fatto, se mettiamo qualcosa all’interno di una cornice – per esempio, un quadro o una statua all’interno di un museo – vuol dire che attribuiamo valore a ciò che sta al suo interno e delimitiamo l’esterno senza valore o, comunque, con un valore minore. L’incorniciare, in quanto tale, mette l’accento sull’azione di racchiudere in una cornice un elemento che è oggetto di particolare riguardo. Se la cornice delimita già di per sé, in qualche modo oggettivamente o oggettivando, allora l’incorniciare è quell’azione che consente di intervenire reinvestendo – personalmente o socialmente – di valori ciò che viene delimitato. Io, per di più, ho finto. Non stavo lavandomi le mani. Mi ero abbassato e facevo finta di lavarmele, mentre invece scattavo la foto tenendo la mia testa in disparte, nascosta.
Ho operato un ulteriore effetto di cornice all’interno della cornice-oggetto che ritaglia la mia immagine nello specchio. Certo, ho finto. Ma ciò che più conta è che ‘io’ ero fuori dall’inquadratura. Se lo ero, è proprio perché amo essere fuori luogo, decentrato, fuori testo. Se ho aggiunto un pizzico di finzione, poi, era certamente perché è impossibile attenersi al vero senza un pizzico di finzione o, comunque, di narrazione che mette alla prova l’effetto di realtà. Tanto vale, mi sono detto, farlo di proposito. Andare al cesso di proposito. Andare in quel bar di proposito. Essere soltanto in parte nella cornice di proposito. Raccontare questa storia di cesso di proposito. Detto ciò, rimarrebbe un elemento da discutere di proposito. Ho fatto riferimento a Bateson e Greimas di proposito. L’ho fatto adottando una cornice metacomunicativa di tipo riflessiva e giocosa in quello che può, altrimenti, essere considerato un intervento scientifico, benché non accademico. La domanda più generale che mi sta a cuore è: come interrogarsi sui modi in cui il quotidiano più ordinario può essere colto e, di conseguenza, trasposto in discorsi, narrazioni e foto? Il quotidiano ha come tratto principale proprio quello di essere sfuggente e di tendere a sfuggire a una messa in forma che lo inquadri una volta per tutte (l’inquadratura è, anch’essa, una cornice). Affrontare un’interrogazione – quale che sia – con giocosità consente di alleggerire l’inappuntabilità e l’indifferibilità dello scopo. Proporre un’interrogazione scientifica in forma giocosa è quindi una strategia: una cornice che consente maggiore libertà all’autore e al lettore. Chi legge può scegliere tra diverse opzioni: può dire che si tratta di un gioco o di una riflessione seria. Chi scrive ha maggiore autonomia rispetto ai propri scopi perché può scoprire qualcos’altro durante la fase di scrittura e includerlo senza premurarsi di dover correggere l’intento iniziale. Propongo dunque il gioco come cornice del mio deambulare in bagno. Propongo il gioco come cornice del mio – finto o meno che sia – divagare nello scrivere e nel passeggiare. E ciò tenuto conto del fatto che il gioco «può essere intrattenimento, educazione, o un processo di autoscoperta» (Bateson 1996: 149). Nel mio caso, spero che abbia tutt’e tre gli effetti, se non altro per me stesso, nonché per i miei bisogni (ovviamente scientifici e spirituali).
III. Il tergicristallo e la musicalità del vivere
Spizzichi di realtà contrapposte. Gocce d’acqua fuori norma. Strane musiche, improvvisate, reiterate e poi variate, a tempo, fuori tempo. Il profilo, appena accennato, di un palazzo marrone con una grande porta bianca apparso in parte sul parabrezza appannato. La parte fa a pugni con il tutto, nessuno dei due cede all’incedere incisivo dell’altro. Si intravede una sagoma irregolare, subito ricoperta dalle gocce di pioggia grigia. Il tergicristallo passa e ripassa senza stancarsi. Il tergicristallo sottolinea e rimodella a suo piacimento la realtà esterna. A volte stride, fa ostacolo, sembra quasi sul punto di incepparsi. Stride la realtà, stride il tergicristallo. Ma non succede. Non si inceppa. Non funziona come dovrebbe. Non funziona come speravo. Dovrò cambiarlo. Dovrò farlo. Le gocce, intanto, martellano continuamente sul parabrezza, si confondono con i miei pensieri. I ritmi mutano senza avviso alcuno. Io guido. Più che altro, attendo. Avanziamo a passo d’uomo, molto lentamente, nel traffico. Ho un libro aperto sul grembo. Riesco a leggere qualche frase. A intermittenza. Mi basta per pensarci su, per distrarmi. Senza averne coscienza piena, mi adeguo al ritmo variabile della pioggia, al suo martellare, agli squarci di realtà che si intravedono di tanto in tanto attraverso il parabrezza, dal finestrino. Mi adeguo agli eventi. Mi adeguo al manifestarsi, a tratti, di una permeabilità incerta del mondo. Mi adeguo al senso dello scrosciare. Non mi spiace; l’incertezza lascia presagire altri piacevoli movimenti interiori ed esteriori; non ho comunque scelta.
Sono in auto, dovrò restarci. La musica varia del mondo è in rotta con la pace interiore di poc’anzi, mentre mi trovavo in acqua e nuotavo. Eppure, mi adeguo, mi lascio andare. Non è forse un’occasione per capire cosa si prova quando l’interno e l’esterno sono in conflitto? Leggo per spizzichi e bocconi. Leggo senza impormi altro. Il libro va nel senso dell’antropologia che piace a me. Leggo e ascolto i ritmi vari del mondo esterno. Inizialmente, mi aspettavo che smettesse di piovere: così improvvisamente come è iniziato. Speravo in un ritorno alla calma che mi avrebbe consentito di tornare a casa nel più breve lasso di tempo possibile: senza attese, senza imbottigliamenti. Ma non me ne importa adesso. Sono intrappolato, sono nel traffico. Siamo imbottigliati, tutti, ma non mi sento un topo in trappola. Il mare è certamente alle spalle. L’acquazzone è scoppiato senza preavviso, senza nulla chiedere in anticipo. Mi ero accorto, mentre ero in acqua, a mare, che in lontananza si accumulavano nubi nere, dense e minacciose. Le barche si affrettavano verso il porto, lasciando alle spalle lunghe strie bianche che mi ipnotizzavano mentre, nuotando, alzavo lo sguardo di tanto in tanto per vedere cosa succedeva nel mondo sopra il pelo dell’acqua azzurra.
Nuotare è una strana cosa: facile farlo in pratica, difficile descrivere esattamente le sensazioni minute che si provano in rapida successione. Si sa, per certo, che finirà presto. Si è immersi quasi totalmente in una realtà liquida e accogliente, ma il mondo esterno, quello di sempre, è in ostinata attesa. C’è sempre una resa dei conti. Prima o poi, bisogna arrendersi alla sua insistenza, alla sua apparente solidità. Basta alzare la testa e si ripresenta il mondo dell’assidua solidità, dissolvendo il sogno di un incedere dolce e senza sforzo. In acqua, si scivola, si dimentica l’attrito. La linea della superficie, pur essendo confine tra due mondi diversi, non è tuttavia una vera e propria separazione. Anzi, mi piace questa possibilità che ho: stare tra due mondi, stare in mezzo e sul confine. Ora, in auto, non mi sento a disagio come al solito, come in passato, come quando è successo di stare, al rientro, in lunghe file di attesa. Fuori piove a dirotto, ma posso leggere, posso guardare la pioggia dare una diversa conformazione al mondo esterno, posso concentrarmi sui diversi ritmi che si susseguono, che si sovrappongono. Immagino di prendere la chitarra in mano. Immagino – chissà poi perché – di accordare i ritmi vari del mondo con un pezzo, molto semplice, dei Clash, il cui titolo è Police on my back. Il giro armonico si basa su un paio di accordi. Niente di che! Ma il testo dice che qualcuno scappa perché è inseguito dalla polizia. Il motivetto è accattivante, ma non ha niente a che vedere con la situazione in cui mi trovo. Non ho niente da temere. La polizia non è alle mie calcagna. Io non corro da nessuna parte. Anzi, direi che siamo proprio bloccati, tutti quanti, nel traffico. Intanto, mentre squarci del mio passato si ripresentano alla mia mente, lo sguardo ricade nuovamente, in basso, sul libro aperto sul grembo: «I wanted to tell stories about how my life as a musician and researcher became critically entangled in other searching musical lives, lives whose detail, nuance, and difficult positioning mattered to me far beyond academic intrigue» (Feld 2012: 6). Nel caso di Feld, ricerca e vita coincidono, a tal punto che non pianificava all’inizio della sua permanenza in Africa di scrivere un libro sui suoi incontri con altri individui, con altri musicisti, avvenuti ad Accra. Che dire di più? Direi senz’altro che, oltre tutto, oltre i confini sgretolati, sono personalmente attratto dai tangles, gli intrecci e i grovigli.
IV. L’inferriata e l’attrito
Mentre passeggio, in via Libertà, a tarda sera, qualcosa mi attira verso il cielo; alzo lo sguardo, noto questa bottiglia d’acqua lievemente poggiata su un’inferriata, in alto e in bilico, quasi stesse per cadere. L’inferriata lascia passare luci e forme: luci soffuse e forme ridondanti. L’inferriata è nera, ma non importa. Sembra solida e seria, ma importa anche meno. Il palazzo sullo sfondo dovrebbe occupare tutto lo spazio dello sguardo. Il mio sguardo? Il mio sguardo non è più mio: è incollato sulla bottiglia adesso, la segue come se si spostasse. Ma la bottiglia non si sposta e il mio sguardo non si stacca. Ha una sua autonomia ribelle, tenace e persistente. La luce, pur fioca, manda segnali insistenti. Eppure la bottiglia d’acqua è ciò che veramente cattura la mia attenzione, il mio sguardo. Alla lettera, cattura. Sono perplesso, pensoso. Attendo. È come se ondeggiasse, la bottiglia. Anzi, è come se scivolasse pian pianino verso di me, verso il basso: un puro significante – oserei dire, pensando a Lacan – che si mostra, allo spettatore, nel suo movimento di discesa, senza attrito, verso il significato che lo attende pazientemente. E io sono lo spettatore di questo dinamismo semantico. Ne sono consapevole. Non c’è nessun altro intorno. Non passano auto. Non ci sono rumori. Non ci sono distrazioni. Ci sono soltanto luci e forme. E la bottiglia che sta per scivolare. Scivola?
Io sono qui, alle prese con una bottiglia posta in alto su un’inferriata. È tutto. Potrei andarmene. Potrei. Ma non lo faccio. Ho tante e buone ragioni per rimanere. Ma una eccede: la bottiglia mi sfida a pensare il contesto. Per scivolare è necessario un contesto. Scivolare non è soltanto scivolare in sé: cioè un concetto isolato da una rete d’altri concetti, svuotato d’un principio di teoria. Per scivolare è necessario un contesto, una teoria, una pratica. E il contesto deve essere adatto: altrimenti non si scivola. Io, da parte mia, non posso nemmeno dire di essere proiettato nel mondo con i miei sensi. Non appena lo dico che subito mi metto a pensare alla bottiglia che scivola verso il basso. Mi metto a pensare al fatto che sono solo e non vorrei. Mi metto a pensare all’evenienza che la bottiglia possa cadere davvero: anzi, scivolare. E allora sono fregato! Perché se la bottiglia scivola, l’incanto si perde. Io mi perdo. Perché scivolare ha a che vedere con altro: intesse relazioni con concetti teoricamente rilevanti e differenziali, simili e dissimili, quali, per esempio, l’’attrito’ o l’’impigliarsi’ di cui parla – guarda caso – Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche.
Allora penso allo scivolare. Penso all’attrito. Penso al caso. Penso all’assenza di rumore. Che spettacolo! Decido di rimanere e interrogarmi. Sono coraggioso. Lo faccio. Avanzo per quesiti e ipotesi. Se la bottiglia non scivola è soltanto perché c’è, sotto, il giusto gradiente di attrito? Giusto. Non può essere che così. Problema risolto! Potrebbe però pure avere a che vedere con l’acqua. Se la bottiglia fosse piena d’acqua, grazie alla pesantezza, rimarrebbe solidamente attaccata all’inferriata. E non scivolerebbe. Non scivola infatti. O sta per scivolare proprio in questo momento? Non ne sono sicuro. Non ricordo più da quanto tempo sono qui a interrogarmi sulla bottiglia che scivola. Non riesco nemmeno a capire se c’è acqua al suo interno. Mi sposto, allungo il collo, mi metto in punta di piedi. Sono tutto teso verso l’alto. Niente da fare. Non lo capisco. Che devo pensare? Sì, ecco, penso che il caso ha voluto che io passassi da queste parti per andare indietro nella memoria, per tornare a questo concetto di cui ho scritto in passato: scivolare e avere attrito.
Per Wittgenstein fare presa sul terreno scabro significa, metaforicamente, avere l’attrito necessario a prendere le distanze da quelle condizioni ideali che non consentono più di camminare, in altri termini non consentono di occuparsi del linguaggio quotidiano in sé, lontano dalle sofisticherie logiche e dalla trascendenza di alcuni rigidi metalinguaggi: «Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci» (Wittgenstein 1967: 65). Vale questa ipotesi per tutti i contesti d’uso? Non saprei. E poi cosa importa adesso, in questo momento? Sono in contemplazione di una bottiglia che sta per cadere per terra. Sono alle prese con una bottiglia e con qualche ricordo. Non voglio perdermi, per nulla al mondo, lo spettacolo di una bottiglia che scivola per terra mentre io passeggio in via Libertà, alzo lo sguardo e la noto. Il palazzo alle spalle mi è indifferente. Fa da sfondo; anzi, di più, direi che il palazzo è la possibilità stessa che si ritaglia la bottiglia di una caduta in basso, per terra, mentre io guardo. Il palazzo ha la consistenza della realtà mentre la bottiglia assume significato per differenza. Saussure? No, semmai pensavo a Geertz e all’attrito. Geertz usa la metafora dell’attrito di Wittgenstein per introdurre il suo testo su Antropologia e filosofia. Geertz dice di riconoscere in Wittgenstein il maestro che gli consente di parlare di un pensiero che ritrova aderenza su un tipo di etnografia lontana dai sistemi astratti:
«ritrovare aderenza non è per me solo un’idea di per sé convincente, ma è un’idea, sottintesa e non formulata, che in primo luogo mi spinse a migrare da un campo all’altro, in entrambi i sensi della parola ‘campo’. Stanco di scivolare su lastre di ghiaccio kantiane, hegeliane o cartesiane, io volevo insomma camminare. Per lo meno volevo girovagare. Muovendosi tra luoghi e popoli […] non si costruisce tanto una posizione […] quanto piuttosto una serie di posizionamenti» (Geertz 2001: 11).
Come è possibile che questo lungo enunciato sia rimasto nella mia mente così tanto tempo? C’è qualcosa che non va nella mia mente! Mi frugo le tasche. Non vorrei essere quell’altro che pensavo di essere mentre sognavo di non essere più me stesso. Allora mi frugo le tasche. E trovo questo biglietto che ho scritto io, di mio pugno, e dimenticato in tasca. Dice: un’esplorazione del concetto di “scivolare” può essere un utile ponte verso altri concetti d’uso in antropologia e altrove (semiotica, filosofia, letteratura): per esempio camminare (Geertz), essere scagliati (Jackson), scrivere (Taussig), decentrarsi (Strathern), incarnarsi (Sartre), pianificare (Greimas), divenire (Deleuze). Scivolare fa parte, oltre che della vita quotidiana, anche della teoria e delle pratiche di analisi e può essere un atto indicativo dei modi in cui, letteralmente e metaforicamente, ci proiettiamo nel mondo o ne prendiamo teoricamente le distanze considerando qualcosa un semplice caso irrilevante o, al contrario, un elemento di pertinenza metodologica. L’appunto finisce qui. È soltanto un biglietto dimenticato nella mia tasca posteriore. Ma che ci fa questo biglietto nella mia tasca di un paio di pantaloni che non indossavo più da tempo, mentre una bottiglia sta forse per scivolare per terra da un’inferriata? Si tratta di un caso di sincronicità? Non ne ho la minima idea. Meglio riprendere a passeggiare. Meglio non pensarci più. Riprendo a passeggiare. In fondo, passeggiare non è altro che un passare che lascia tracce evanescenti e qualche piccolo ricordo.
V. All’improvviso, la mano s’interpone
Intanto, il titolo a cui aspiro, che m’ispira: “All’improvviso, la mano s’interpone”. Il titolo ricorda una poesia. Ricorda la vanità, l’immensità, di cui parla Ungaretti. Ricorda lo stupore di rinvenirsi ombra tra le macerie e l’acqua. Mi ricorda l’identità franta, l’identità in guerra. Mi ricorda che non intendo essere originale, che non intendo essere altro che vaga traiettoria, senza né capo né coda. Non intendo essere altro che questo: presunta assenza, presunto vagabondare. Prendo qualche appunto, riporto qualche citazione, mi distraggo, prendo tempo dalla scrittura per dovere. E, mentre lo penso, d’improvviso, il documento si chiude da sé nel computer. Che succede all’improvviso? Per un involontario movimento della mano, il documento scompare dallo schermo; io lo recupero, riappare con il titolo inatteso di “All”, lo prendo per un suggerimento, lo prendo per quello che è: “all” vuol dire “tutto” in italiano. La mano è un tutto che ha un suo specifico spazio di pertinenza antropologica. Parlare della mano è un modo per sganciarsi da un’idea di identità omogenea organicamente situata nella testa, da un principio unicamente cognitivo di significazione dell’essere umano. Parlare della mano riconduce a una porzione di corpo che ha una sua autonomia, una sua intenzionalità da esplorare in molte direzioni. Non è forse vero, per esempio, che con la mano si può andare verso l’altro, toccarlo, essere toccati? La mano è già, di per sé, un’intenzione, un «dirigersi verso qualcuno» (Wittgenstein 1967: 174), verso qualcosa di diverso da un’origine precostituita: è un darsi in un movimento che prevede reciprocità. Spesso senza esserne veramente consapevoli! È effettivamente successo, a me, mentre scattavo la foto: la mano si è interposta improvvisamente senza che io lo volessi veramente. Il risultato è diverso da quello previsto inizialmente. Così, la foto dice altro, la foto presenta un’alterità, la foto sospende le intenzioni di chi scatta. Ragione di più – penso – per immedesimarsi, per mettersi nei panni della foto e della mano, per mettere in campo la composizione del corpo come diversità.
E dire che all’origine, oggi, avrei voluto riprendere un mondo nettamente diviso in due: da una parte, la finestra riflessa su cui scivola il mio desiderio di fuga verso l’esterno (la finestra è una cornice rispetto all’esterno); dall’altra, la pila di libri che mi risucchia verso il dovere da compiere (la pila di libri ritaglia, anch’essa, lo spazio e lo incornicia). Da una parte, dunque, la realtà incarnata dai libri in presenza; dall’altra, infine, un riflesso che è ben raffigurato dal sole, dalla vita all’aperto. Insomma, per riformulare nell’universo semantico del momento: bagno a mare o tentativo di finire l’articolo? Nuotare in acqua o tentare al computer? A cose fatte, scattata la foto, mi sono reso però conto che la mano aveva – anch’essa – la sua da dire a proposito: la mano aveva la sua ipotesi da avanzare, oltre me stesso, al di là di un progetto. Una mano può, infatti, volere dire tante cose. La mano intende; la mano s’interpone; la mano mostra le interferenze – troppo spesso trascurate – che s’instaurano tra un soggetto in divenire e un soggetto in qualche modo oggettivato. Il soggetto s’inserisce, sempre, in uno spazio della cultura in cui si richiamano – in qualche caso sovrapponendosi – non soltanto oggettività e soggettività, ma anche totalità e frammento, posizione e posizionamento, caso e intenzione. Difficile infatti, se non addirittura impossibile, estrapolare un’intenzione senza tenere conto di una situazione che ne accoglie il senso nel contesto d’uso dell’agente, adattando quindi l’origine – in cui sembrerebbe essersi prodotta l’intenzione – alla ricezione che la situa dinamicamente, riorientandola. Ciò che vale per l’intenzione, vale pure per l’identità e la considerazione «dell’altro in quanto se stessi in altre circostanze» (Jackson 2012: 8).
Per quanto riguarda la mano, più particolarmente, un riferimento importante è Merleau-Ponty. Il filosofo francese parla di una riversibilità posta tra noi e gli altri: questa riversibilità trova la sua espressione migliore nella mano toccante, toccata. Con la mano, nella stretta di mano, non soltanto si tocca, ma si percepisce anche il tocco dell’altro. La mano prende corpo, si anima, nell’esplorazione che prende luogo nel toccare e lasciarsi toccare. La mano riflette, si riflette. La mano mostra, così, tutta la forza implicata dalla riflessività che le appartiene. Nella stretta di mano si ritrova quel senso di reciprocità che, più in generale, consente di dire che «sentire il proprio corpo è anche sentire il suo aspetto per l’altro» (Merleau-Ponty 2014: 632). Benché legata in apparenza al singolo, la sensibilità è fondamentalmente riversibilità del vedere e del toccare che s’instaura tra l’unità del corpo individuale e il corpo degli altri. La mano è, in sostanza, il caso maggiore di riversibilità tra noi e gli altri perché non soltanto essa ricade nell’ambito del visibile nostro e altrui, ma è anche toccante e toccata: «la stretta di mano è reversibile, io posso sentirmi toccato nella stessa misura e nello stesso tempo in cui mi sento toccante» (Merleau-Ponty 2014: 385). A cose fatte, ricordato e sottolineato il valore della mano, posso dire che non mi spiace affatto che ci sia stata, oggi, questa interposizione tra me stesso e la mia idea di mondo diviso in due. Uscire dal gorgo delle intenzioni preposte può, talvolta, avere i suoi effetti positivi. Può ricordare la reciprocità del toccare e del vedere. Può ricordare che ricordare ha le sue ragioni. Può ricordare che esiste, a volte, una terza possibilità.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
Riferimenti bibliografici
Bateson G., “Questo è un gioco”. Perché non si può mai dire a qualcuno “gioca!”, trad. e cura di D. Zoletto, Raffaello Cortina, Milano, 1996 (1956)
Feld S., Jazz Cosmopolitanism in Accra, Duke University Press, Durham and London, 2012
Foucault M., “Che cos’è un autore?”, in Scritti letterari, trad. di C. Milanese, Feltrinelli, Milano, 1971 (1969), 1-21
Geertz C., Antropologia e filosofia, trad. di U. Livini, Il Mulino, Bologna, 2001 (2000)
Greimas A. J., Del senso 2. Narrativa, modalità, passioni, trad. e cura di P. Magli e M. P. Pozzato, Bompiani, Milano, 1985 (1979)
Jackson M., Paths toward a clearing, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 1989
Jackson M., Between One and One Another, University of California Press, Berkeley, 2012
Merleau-Ponty M., Il visibile e l’invisibile, trad. di A. Bonomi, a cura di M. Carbone, Bompiani, 2014 (1964) (impaginazione calibre)
Simmel G., “La cornice. Saggio di estetica”, Stile moderno. Saggi di estetica sociale, trad. di F. Peri, a cura di B, Carnevali e A. Pinotti, Einaudi, Torino, 2020 (1902), 299-305
Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, trad. di R. Piovesan e M. Trinchero, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino, 1967 (1953).
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
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