di Chiara Dallavalle
Quante volte nell’arco della vita abbiamo alzato lo sguardo verso il cielo notturno, durante una sera d’estate nella speranza di vedere una stella cadente oppure nelle fredde notti d’inverno, quando tutto è silenzioso e immobile. La volta celeste ha da sempre esercitato un fascino irresistibile sull’essere umano. Agli albori dell’umanità e per la maggior parte della propria storia, l’uomo vi si è accostato con reverenziale timore, ma al tempo stesso anche con curiosità, mosso dal desiderio di penetrare i meccanismi di funzionamento dei corpi celesti, comprendere le relazioni tra gli astri e coglierne il nesso con l’esperienza umana.
Le prime osservazioni astronomiche, quelle fatte dai popoli preistorici, erano probabilmente spinte dal bisogno di relazionarsi con il divino manifestato attraverso i fenomeni celesti. Da lì in poi i metodi di osservazione si sono fatti sempre più precisi, grazie agli strumenti introdotti dalla matematica e dalla geometria, fino ad arrivare allo studio del cosmo attraverso il metodo scientifico, che ha preso il volo da Copernico in poi. Ma anche quando il cielo ha smesso di essere la sede di potenze sovrannaturali che ne regolavano il funzionamento, ed è diventato un oggetto fisico da studiare e da decifrare attraverso la scienza, l’uomo non ha mai smesso di percepirvi un carattere mistico e sovrannaturale. È qui che abita ancora oggi una visione del cosmo come sede di energie non tangibili e non misurabili scientificamente, ma attive nell’influenzare la Terra e i suoi abitanti.
Questa doppia valenza delle forze celesti nell’immaginario delle persone, tradotta banalmente nell’apparente contrasto tra scienza e credenza, è il punto di partenza del film di Leandro Picarella “Segnali di vita”.
La trama: l’astrofisico Paolo Calcidese sceglie di trascorrere un inverno in totale isolamento nell’osservatorio alpino di Saint-Barthélemy, in Valle d’Aosta, per dedicarsi ad un proprio progetto di ricerca. La scelta di rifugiarsi in alta montagna per i lunghi mesi invernali in realtà non è mossa soltanto da interessi scientifici. Lentamente emergono parti dolorose della storia di Paolo, che l’hanno quasi costretto ad una fuga dal mondo e dalla civiltà. Eppure, suo malgrado, non gli è concesso rimanere a lungo nella vita da eremita che si è scelto, perché un guasto al telescopio gli impedisce di lavorare al suo progetto, e lo costringe a ripiegare su un’attività collaterale che il direttore dell’osservatorio gli ha chiesto di svolgere. Paolo si ritrova quindi a trascorrere molto del proprio tempo realizzando un’indagine sul livello di conoscenza che i valligiani hanno dei fenomeni celesti, nel tentativo di comprendere quanto essi siano provvisti di effettive nozioni scientifiche e quanto invece il rapporto con gli astri sia ancora basato su credenze e superstizioni. Paolo si vede così costretto a confrontarsi con quelle che lui ritiene vere e proprie misconcezioni, idee sbagliate che molte persone del paese hanno rispetto all’universo. All’inizio lo sguardo con cui si accosta alla comunità locale è quello dello scienziato, spazientito dalle visioni immaginarie che animano il rapporto dei valligiani con il cosmo. Il suo atteggiamento di partenza è carico di sarcasmo e pregiudizi, e non fa nulla per smussare il modo supponente con cui tratta i suoi intervistati.
Guardando Paolo che ascolta con sufficienza le opinioni dei valligiani, è facile cadere nel tranello della semplificazione. Queste interviste fanno sicuramente emergere l’atteggiamento di superiorità con cui l’astrofisico si approccia ai locali, ma al tempo stesso sembrano confermare i pregiudizi di Paolo, quando le persone intervistate menzionano con estrema naturalezza forme di energia sconosciute che regolano la relazione tra uomo e astri, oppure confondono l’astronomia con l’astrologia. La stessa semplificazione sembra emergere dalla narrazione sotterranea e mai esplicitamente menzionata dal regista della montagna come luogo arcaico, isolato e chiuso nella propria alterità. Questa montagna si scontra con la visione aperta di cui Paolo è portatore, in quanto scienziato e in quanto uomo della città.
In realtà queste visioni dicotomiche sono tali solo in parte, perché piano piano, nel dipanarsi della storia, le divisioni si mitigano e i personaggi lasciano emergere la molteplicità dei propri punti di vista. Paolo stesso in alcuni momenti appare vittima della propria forma mentis scientifica che gli impedisce di andare oltre i propri pregiudizi per incontrare l’altro così com’è. Allora la scienza, che nella sua narrazione è lo strumento principe per affrancare l’uomo dall’ignoranza, diventa essa stessa pretesto per non aprirsi al diverso, a percorsi di pensiero alternativi. Sull’altro versante, anche i valligiani lentamente si lasciano contagiare dalla curiosità verso il nuovo venuto a cui iniziano più o meno cautamente a raccontarsi.
I dialoghi smettono di restare circoscritti all’interno del questionario sulle false credenze, e iniziano a far trapelare aspetti intimi della vita sia dei locali sia dello stesso Paolo. È in questa intimità crescente che il pregiudizio piano piano si affievolisce. Emerge allora che la vita in montagna non è così idilliaca come sembra all’inizio, non tutti i giovani vedono il proprio futuro in quella vallata, dove li aspetta un’esistenza dura, fatta di lavoro faticoso e continui sacrifici. E al tempo stesso qualcuno inizia ad essere curioso di ciò che la scienza ha da raccontare rispetto al grande mistero della natura. Ed ecco che il film termina con una richiesta a Paolo: prima di andartene ci faresti conoscere il cielo? È così che tutta la comunità si ritrova all’osservatorio, dove Paolo racconta la volta celeste dal suo punto di vista, quello dell’uomo di scienza che ha saputo trovare una via di dialogo con la diversità.
Questo evento corale sembra davvero segnare il passo rispetto all’inizio del film. Paolo non si è trasformato in un valligiano, non ha concesso nulla alle credenze sugli astri che per lui continuano a non avere alcun fondo di verità, ma ha saputo accoglierle all’interno della relazione che si è creata tra lui e gli abitanti. I quali non sono più solo “i locali”, ma hanno finalmente un nome, una storia, paure, desideri e visioni della vita.
Se in principio mi sono lasciata trascinare dentro la narrazione pensando che i segnali di vita del titolo avessero a che fare con il rapporto tra uomo e cosmo, mi sono poi resa conto che questo è in realtà il pretesto per fare un affondo sul senso delle relazioni di comunità, così come sono agite nel presente. La comunità non è un luogo idilliaco in opposizione all’individualismo della metropoli. Al contrario dal film appare come un luogo denso di contraddizioni, dove permangono dicotomie e assenze di significato, ma dove esiste ancora uno spazio in cui le relazioni possono sperimentarsi in forme nuove. Relazioni non sempre facili, a volte conflittuali, mai risolte e mai scontate, ma pur sempre sede dell’incontro tra esseri umani che scelgono di esplorare l’alterità.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Chiara Dallavalle, già Assistant Lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia Culturale, collabora con il settore Welfare e Salute della Fondazione Ismu di Milano. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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