Che i frutti puri impazziscono ce lo insegnava già nel 1988 James Clifford, quando, come epigrafe del suo celebre testo The Predicament of Culture: Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art (che sarebbe poi stato tradotto in italiano, per l’appunto, con il titolo I frutti puri impazziscono) citava per intero la poesia dei primi anni Venti del medico e scrittore William Carlos Williams [1] To Elsie. Il poeta riconosceva in Elsie, una giovane nativa d’America, l’epitome dei suoi tempi: il disorientamento culturale ed interiore di un popolo che ha perso di vista la propria identità e purezza.
Nell’introduzione a quello che è poi diventato uno dei testi più influenti della storia degli studi culturali e antropologici, a commento della sopracitata poesia Clifford scrive:
«Spero che [i versi] possano valere come spunto per questo libro, un modo per entrare in argomento con un concetto problematico. Chiamiamo tale concetto modernità etnografica: etnografica perché Williams si trova spiazzato in mezzo a tradizioni frammentate; modernità dal momento che la condizione di sradicamento e d’instabilità con cui egli si confronta è sempre più un destino comune. Elsie simboleggia, a un tempo, una disgregazione culturale locale e un futuro collettivo»[2].
È dunque in questa poesia di Williams che Clifford ravvisa un nuovo approccio alla trasformazione culturale: un modo di guardare al cambiamento, al disordine, alla frammentazione della realtà in modo spregiudicato, nessuna nostalgia per una fantomatica purezza perduta, nessuna retorica vuota di significato.
«L’immagine di Elsie suggerisce una svolta inedita. Nel corso degli anni Venti è diventato concepibile uno spazio realmente globale di connessioni e dissoluzioni culturali. […] La risposta di Williams al disordine che ella [Elsie] rappresenta è complessa e ambivalente. Se le tradizioni autentiche, i frutti puri, si stanno ovunque arrendendo alla promiscuità e all’insignificanza, la scelta della nostalgia non possiede fascino. Non c’è un ritorno possibile, non c’è nulla da recuperare» [3].
Come non c’è nulla da recuperare, non c’è quindi proprio nulla da difendere. Non una cultura autentica da preservare dalle minacce esterne di invasori stranieri, non una famiglia tradizionale (o come viene tragicamente definita sempre più spesso oggi, “naturale”) da difendere da modelli alternativi. Eppure queste ultime due asserzioni sono, tra le altre, le tesi basilari che hanno fondato e rinvigorito la campagna elettorale e le linee guida politiche delle forze di governo dell’ultimo anno in Italia. Ci sono alcuni episodi a cui la mia mente corre mentre, scrivendo, faccio riferimento a queste grossolane argomentazioni. Il famoso Congresso Mondiale delle Famiglie tenutosi a Verona nel marzo 2019, le manifestazioni di militanti di estrema destra affiancati da comuni cittadini (o forse viceversa) per opporsi all’assegnazione, regolare e secondo graduatoria, di alcuni appartamenti a delle famiglie di etnia rom nei quartieri Torre Maura e Casal Bruciato di Roma nel mese di aprile 2019 e le polemiche seguite alla vittoria della 69ª edizione del Festival della canzone italiana giovane cantante Mahmood a febbraio. Tutti e tre questi episodi hanno sollevato un polverone mediatico, ognuno per ragioni diverse.
Il Congresso delle famiglie, organizzato con il patrocinio del Ministero della famiglia, vedeva, per esempio, la partecipazione di noti sostenitori di posizioni estremamente reazionarie sul tema della famiglia. Alcune di queste posizioni erano, per esempio, la condanna dell’aborto, considerato un atto di cannibalismo, e di qualsiasi forma genitoriale che non sia conforme a quella “naturale”, definita come «sola unità stabile e fondamentale della società»[4], ovvero composta da un uomo e una donna, con dei ruoli familiari e sociali chiaramente definiti, nonché la condanna definitiva dell’omosessualità, eventualmente considerata una malattia curabile, o meglio, di qualsiasi forma di comportamento che non corrisponda all’eteronormatività, anch’essa considerata naturale.
Il secondo episodio a cui ho fatto riferimento è avvenuto nei primi giorni del mese di aprile, nella città di Roma, a Torre Maura, quando un gruppo di cittadini del quartiere insieme ad alcuni militanti del gruppo politico di Casapound hanno protestato per il trasferimento di una famiglia rom in una delle palazzine della zona. Tra le varie azioni di protesta, la più significativa e violenta, visto che la violenza simbolica non è meno pericolosa di quella fisica, è stata il calpestare il pane destinato a quella famiglia. Un’azione di una brutalità spiazzante che esprime una incontenibile rabbia, indirizzata verso un gruppo di persone di cittadinanza italiana, regolarmente iscritte alle graduatorie dell’edilizia popolare, ma prese di mira solo perché rom, espressione diventata sinonimo per i manifestanti di Torre Maura, come per molti italiani, di “criminale, ladro, disonesto” e chissà quale altra appellativo denigratorio. Pochi giorni dopo, in un altro quartiere di Roma, Casal Bruciato, un episodio analogo vedeva anziani e comuni cittadini al fianco di attivisti di estrema destra per contestare un’altra regolare assegnazione ad una famiglia rom [5].
L’ultimo episodio che ho menzionato riguarda la vittoria dell’ultimo Festival di Sanremo, con la canzone “Soldi”, di Mahmood, giovane cantante ed autore di testi musicali, poco conosciuto nel panorama nazionale prima della vittoria. All’indomani della fine del Festival della canzone italiana molte sono state le polemiche agitate da chi avrebbe preferito vedere sul podio altri cantanti, poiché la canzone di Alessandro Mahmoud non è stata considerata sufficientemente rappresentativa della “musica italiana”. Addirittura il presidente della commissione Trasporti e telecomunicazioni della Camera, Alessandro Morelli (Lega, ex direttore di Radio Padania), facendo proprio riferimento alla vittoria del cantante, ha proposto un disegno di legge che avrebbe previsto che un terzo delle canzoni trasmesse dalle radio avrebbe dovuto essere italiano. Questa proposta di legge, chiaramente accantonata in poco tempo, suscita comunque delle perplessità per diversi motivi. Prima di tutto, cosa si intende con l’espressione “musica italiana”: il testo deve essere tutto in italiano, il cantante deve essere italiano, il produttore deve essere italiano, il sound del motivo deve ispirarsi ad una fantomatica tradizione musicale italiana? Tutti i criteri sopra menzionati sono palesemente privi di valore [6]. Inoltre, anche qualora volessimo prenderli in considerazione il giovane Mahmood rientrerebbe in molti dei criteri elencati: è un cantante italiano, milanese, di madre sarda e padre egiziano, nato e cresciuto in Lombardia; il testo della sua canzone è tutto in italiano, fatta eccezione per alcune brevi frasi in arabo; i suoi collaboratori e produttori sono italiani, e non etichette straniere, come spesso avviene invece per altri italianissimi cantanti. Come se non bastasse porre delle barriere e dei confini alla definizione di un elemento artistico come la musica, è quanto di più profano si possa fare per una forma artistica che vede i suoi punti di massimo valore nella connessione e nell’influenza tra generi, suoni e lingue [7].
Senza soffermarmi sulle motivazioni e sulle analisi dei singoli episodi che ho qui riportato, vorrei adesso provare a porre una domanda: cosa è che ci spinge ancora oggi nel 2019 a porci in un atteggiamento di difesa e rivendicazione così fermo? Cosa ci spinge a difendere in modo così sfegatato la famiglia tradizionale, da cosa ci sentiamo minacciati quando l’appartamento vicino al nostro viene abitato da una famiglia di etnia rom, qual è il pericolo che incombe sulla musica italiana e sulla nostra autenticità culturale?
I versi di Willian Carlos Williams e l’accurata analisi di James Clifford rispondono già in modo appropriato a queste domande. Tuttavia c’è un’altra autrice che in modo quanto mai eloquente spiega quale sia il reale pericolo da cui mettersi al riparo. Questo è quello che la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, in un famoso e bellissimo intervento per una conferenza TEDGlobal nel 2009, definisce «Il pericolo di una storia singola». In un lungo discorso molto ben argomentato e corredato da numerosi esempi tratti anche da esperienze personali, l’autrice spiega che sono le storie che noi ascoltiamo che creano il nostro immaginario, raccontare dunque una singola storia, una versione unica di una storia, produce un’idea, uno stereotipo che in tutti i casi non coincide con la realtà.
«The single story creates stereotypes, and the problem with stereotypes is not that they are untrue, but that they are incomplete. They make one story become the only stor»y [8].
Far sì che una singola storia diventi l’unica storia è ciò che crea un unico modello di famiglia, di rom e di italiano. Ciò che va difeso perché in tutta evidenza non esiste come modello unico, e non è mai esistito neanche in un passato autentico e puro. Il presente è dunque fatto di «connessioni e dissoluzioni culturali», e lottare per preservare una tradizione ed un’identità che mai sono state realtà fa male a tutti, non solo a coloro che sono identificati come modelli non conformi alla norma. È necessario dunque – continua Adichie – raccontare storie diverse, esperienze difformi, per non stupirsi poi che la realtà non corrisponda allo stereotipo preformato presente nella nostra mente.
Cosa è dunque un italiano oggi? È possibile oggi immaginare un italiano nero, un italiano asiatico, un italiano musulmano? La risposta a questa domanda sta nelle vite di migliaia di giovani che esistono già nel nostro Paese e che sono parte di una cultura nazionale multiforme. In questo senso l’arte, che rappresenta la punta d’iceberg di un humus culturale e sociale molto più vasto e che fluttua liberamente senza alcun vincolo facendo invece di contaminazioni, melting pot il proprio punto di forza, racconta molto bene le storie diverse che compongono oggi l’immaginario di italianità. Tantissimi sono oggi i cantanti o i registi italiani delle più varie origini che popolano il panorama culturale italiano, penso appunto a Mahmood, ma anche a Ghali, Malika Ayane, Amir Issaa, Ermal Meta, Suranga Deshapriya Katugampala, Igiaba Scego, per citarne solo alcuni tra i più noti.
Sotto la punta di quest’iceberg sono molti i movimenti e le organizzazioni che cercano appunto di dar voce a questa vastissima realtà e che con intraprese di attivismo politico rivendicano un riconoscimento di diritti civili e politici per chi è di fatto italiano per tutti, ma non per il quadro giuridico italiano. Come è noto, infatti, il nostro sistema legislativo [9] non prevede lo ius soli, e regola i processi di assegnazione della cittadinanza con norme particolarmente restrittive, che nel corso degli anni si sono ancora di più inasprite, in particolar modo con l’ultimo Decreto Sicurezza proposto al Ministro degli interni Matteo Salvini e approvato in Parlamento [10].
I movimenti a cui faccio riferimento sono due in particolare: un blog redatto da giovani italiani di origini africane e non solo che prende il nome di Afroitalian Souls, all’interno del quale si trovano articoli di costume, gossip, geopolitica, storie individuali, suggerimenti per capigliature afro, etc [11].
«La missione di Afroitalian Souls è raccontare la storia italiana che vede protagonisti uomini, donne e ragazzi di origine africana, accostano le riflessioni socio-politiche, nel contesto italiano, alla leggerezza delle tendenze, fino alla scoperta di nuovi talenti artistici. Il tutto, mantenendo un occhio di riguardo verso il continente africano» [12].
Un altro movimento molto attivo politicamente e che non dà voce solo agli italiani di origine africana, si chiama Italiani senza cittadinanza. È un movimento che si batte per un riforma della cittadinanza e per una revisione della «obsoleta legge n. 91 del 1992 [che] non rispecchia l’attualità della nostra Italia, ci rende difficile e talvolta impossibile acquisire la cittadinanza italiana e molti di noi vengono considerati stranieri nel proprio Paese, liquidati come “Italiani col permesso di soggiorno”» [13].
In una delle biografie di presentazione degli attivisti del movimento, Benedicta Djumpah, giovane bresciana, afroitaliana di origini ghanesi, scrive così: «ho scelto di essere un’attivista, perché come io sono stata in grado di conciliare le mie identità, mi piacerebbe che l’Italia ormai pluriculturale, facesse lo stesso» [14].
Questa breve presentazione racchiude in poche parole la condizione attuale dell’Italia: il nostro Paese è già pluriculturale, esistono già identità multiple e interstiziali, non riconoscerlo fa male a tutti. Fa male a chi pensa che il Paese abbia perso la sua tradizione culturale e fa male a chi viene considerato difforme rispetto ad un modello inesistente ed obsoleto. Abbiamo bisogno di costruire un nuovo immaginario collettivo, che riconsideri il concetto di italianità, trasformandolo in un’idea inclusiva e non esclusiva, un concetto di italianità che non percepisca come contraddittorio o ossimorico essere neri, musulmani, asiatici, mulatti, ebrei, etc. I frutti puri impazziscono, sono gli innesti che riescono ad adattarsi ai cambiamenti.