Un anno fa ero ancora un fuori sede. E lo sarei stato per altri sei mesi. Un anno fa iniziavo a scrivere la tesi di laurea magistrale. E lo avrei fatto per altri sei mesi. Cercavo di dar vita ad una riflessione sulla geografia, una disciplina sull’orlo della sua stessa fine. Qualche giorno fa invece è fallito l’ennesimo tentativo di organizzare con degli amici una camminata fra le vie della vecchia Poggioreale. Abbandonata nel 1968 dopo il terremoto del Belice, fu deciso di non restaurare né ripristinare le antiche abitazioni ma di ricostruire il paese alcuni chilometri più a valle. Avrei voluto fare delle foto. Avrei voluto assaporare l’idea di un’apocalisse improvvisa. Pare infatti che finalmente nel panorama letterario italiano stiano cominciando a circolare alcune parole chiave, che in qualche modo sottendono il tema dell’apocalisse, quali l’antropocene, il surriscaldamento globale, il clima.Questi iperoggetti, che eufemisticamente sono entrati nel discorso pubblico, come la polvere che si ricaccia sotto il tappeto, smuovono un chiaro sentimento di emergenza sociale con una velocità che dipende dal grado di sensibilità e attenzione dell’individuo o di gruppi di individui allorquando rivolgono lo sguardo al mondo di oggi.
L’idea è quella di rimettere in moto l’immaginazione per prepararsi mentalmente ad una situazione di emergenza, di collasso, di mutamento radicale di abitudini e pratiche di vita che è già qui, andando a “vedere” (attraverso la letteratura, le cronache) apocalissi del passato, del presente e del futuro. Con ciò, parallelamente, cresce una cosiddetta estetica dell’apocalisse che si fa strada già da qualche decennio nell’immaginario occidentale [1]. Tutto questo per convincere taluni amici che oggi c’è un motivo in più per farsi una camminata fra le rovine della vecchia Poggioreale.
C’è un altro fatto però. Mi ero messo in testa che andare a Poggioreale significava andare a caccia di spettri. Quella spettralità, intendiamoci, paradigmatica nella concettualità dell’adesso – qui senza futuro – e quindi senza passato – sull’orlo davvero di una crisi ambientale che nei prossimi cinquant’anni cambierà la faccia della Terra. Quella spettralità [2] che non è solo di alcuni luoghi, e per la quale
«il problema non è semplicemente quello della perdita: ghiacciai che scompaiono lasciando incombente nel pensiero la loro massa mancante; foreste che ardono incenerendo un po’ alla volta le nostre geografie mentali; specie animali che si dissolvono portando a dissoluzione le architetture tassonomiche del nostro cervello» [3].
In effetti, a ben pensarci, i luoghi sono esposti più di ogni altra cosa alla spettralità. Quanto tempo ci vuole perché un luogo smetta di esistere, perché una luogo scompaia o muti talmente tanto da non essere più se stesso. Cosa è un luogo?
È, in definitiva, ciò che mi chiesi un anno fa quando decisi di fare una tesi in geografia. Una disciplina quasi fantasma, una disciplina che, per come siamo abituati a conoscerla, è quasi completamente divenuta uno spettro che si aggira nelle accademie e nelle biblioteche, sicuramente uno spettro di se stessa. Eppure la geografia doveva saperlo a cosa andava in contro. Doveva aspettarsi che con i luoghi sarebbe scomparsa anche lei o comunque sarebbe mutata a tal punto da diventare il fantasma di se stessa, colpevole di aver ceduto alla fascinazione delle spazio astratto, geometrico, della carta, rinunciando alla narrazione geografica dei luoghi terrestri.
Infatti la geografia e il luogo, inteso in termini concettuali, hanno avuto un rapporto paradossale che ancora continua ad ossessionarmi. E forse è anche questo che avrei voluto cercare fra le rovine di Poggioreale. Inoltre, devo aggiungere il fatto che in questi giorni ho avuto fra le mani Territori Spezzati. Spopolamento e abbandono nelle aree interne dell’Italia contemporanea, lavoro a cura di Giancarlo Macchi Jánica e Alessandro Palumbo per il CISGE – Centro Italiano per gli Studi Storico-Geografici (Roma, 2019), che raccoglie 34 saggi, scritti da storici, geografi, demografi, economisti e sociologi. L’approccio è quindi multidisciplinare ma la geografia è il sostrato epistemologico di tutto il volume, fornendo essa strumenti analitici (carte, mappe, studi d’archivio) che in generale sono essenziali a qualsivoglia analisi sul territorio.
Ora la mia ossessione si rinnova. Ne seguo le impronte che essa continua a lasciare dietro di sé, in un rincorrersi quasi spettrale, appunto perché la mia domanda sul luogo non avrà mai una risposta certa, non sarà mai prendibile. Nonostante ciò il senso, perché c’è un più profondo senso, di questa ricerca è lì, è visibile pur essendo non-visibile. Mi pare scorgerla dietro ogni testo, ogni approfondimento, ogni romanzo. É un po’ come la fuga del protagonista del Mondo sommerso di Ballard, una corsa spettrale nel buio tra le mangrovie di un mondo nuovo in cui l’umanità scompare sempre di più. Un cammino verso il sud, dentro la foresta, alla ricerca degli spettri interiori, subconsci, filogenetici, archetipici. Così è la mia smania di capire cosa faccia di uno spazio un luogo. In questo mi è venuto in aiuto il concetto di implacement, di cui Casey discute a proposito dei miti della creazione del mondo.
«The world is, minimally and forever, a place-world. Indeed, insofar as being or existence is not bestowed by creation or creator, place can be said to take over roles otherwise attributed to a creator-god or to the act of creation: roles of preserving and sustaining things in existence. For if things were both uncreated and unplaced, they could not be said to be in any significant sense. Given a primal implacement – a genuine “first place” – that is independent of creation or creator, things would fulfill at least one strict requirement for existing. If separation is a condition for creation, implacement is a sine qua non for things to be – even if they have never been created. […] Cosmogenesis is topogenesis – throughout and at every step»[4].
Pare quindi che il mondo (metonimia del cosmo) nasca in quanto luogo, che tutte le cose esistano in quanto esistenti in un luogo. Il mondo è il luogo di se stesso, delle cose e dell’uomo. La nascita di un luogo è la nascita di un mondo, il mondo è il luogo della genesi, non c’è genesi senza luogo. Tuan dal canto suo ci parla di sens of place, poichè «place incarnates the experiences and aspirations of a people. Place is not only a fact to be explained in the broader frame of space, but it is also a reality to be clarified and understood from the perspectives of the people who have given it meaning» [5].
Come si interroga allora un luogo abbandonato? Un luogo dove non esistono più le cose ma solo il fantasma di loro stesse? Come e dove si cerca un luogo fantasma? Perchè spingersi fino a Poggioreale? Una risposta a questa inquietudine provano a darcela proprio in Territori Spezzati, Ciaschi e Vincenti, nel loro contributo Luogo e identità: due prospettive sull’abbandono, ci raccontano di due territori, Grisciano comune dell’Appennino centrale colpito da eventi sismici nell’agosto 2016, e il comune montano di Lacedonia, in Irpinia, entrambi territori soggetti a fenomeni di spopolamento. Ci dicono così che «il luogo va definendosi, tanto nei contesti accademici, quanto in quelli amministrativi e operativi, come un sistema articolato in cui gli elementi materiali comunicano valori e caratteristiche identitarie del territorio», e che «stante la consapevolezza di come un evento sismico danneggi non solo la componente fisica dei luoghi, ma anche quella sociale, economica e politica», l’obiettivo di una qualsiasi ricerca sul territorio dovrebbe essere proprio quello di andare a «evidenziare il peso della componente immateriale nelle dinamiche territoriali». Rendersi conto di ciò che di un territorio fa un luogo è fondamentale per comprendere le modalità e i soggetti con cui questo accade. Come riportano i due autori nel loro studio di Grisciano post-sisma,
«nel caso specifico le comunità, infatti, non rappresentano destinatarie inermi di scelte prodotte in contesti emergenziali, ma sono portatrici delle identità, dei saperi, dei valori e delle competenze dei territori. Una fase di dialogo con i fruitori del territorio ha rivelato una prospettiva di osservazione sulle fasi di assistenza alle comunità colpite dal sisma in termini di riorganizzazione di spazi e pratiche abitative. È stato possibile apprendere come le microstorie raccolte e i percorsi di vita tracciati diano modo di contestualizzare lo spazio di vita degli individui e di relazionare come domande che i fruitori del territorio, specialmente in situazioni di forte criticità, possano confluire in progetti e programmi istituzionali» (ibidem).
Personalmente trovo il concetto di territorio alquanto macchinoso, mi sembra porti con sé, in maniera subliminale, tutta una serie di pre-giudizi e pre-concetti tipici dell’approccio cartografico ad una porzione di spazio. Il che, se volessimo seguire l’interpretazione di Franco Farinelli, significa fraintendere totalmente l’epistemologia di uno spazio qualora se ne voglia studiare l’identità, il suo essere un luogo, quel luogo con quelle peculiarità irripetibili [6]. E allora si ritorna indietro, alla geografia che è un fantasma, è lo spettro di sé, perché un tempo ci spiegava come il mondo funzionava, dove le cose avevano un luogo, e adesso non più, perché le carte non ci dicono più nulla sul mondo, nulla più di ciò che sappiamo già, nulla su quelle microstorie e su quelle relazioni con cui gli individui investono un determinato spazio per dargli un senso, per farne un luogo. Un luogo per loro, un luogo di loro, un luogo in loro, possibilmente. Un luogo che dobbiamo essere disposti a saper perdere – quanti luoghi del cuore perdiamo durante la nostra vita, quanti luoghi dell’anima ci scavano dentro dei vuoti incolmabili.
Luoghi e vuoti sono gli spettri presenti-assenti su cui le emozioni, le relazioni, i significati, si costruiscono. Luoghi vecchi e luoghi da inventare, vuoti da lasciarsi alle spalle e vuoti da colmare per immaginare il futuro. Sì, perché non facciamo altro che procedere seguendo una pista a naso cercando il grande invisibile chiamato futuro. I luoghi così si perdono, si trovano, si reinventano. Penso a quella casa a Bologna. A quel luogo, a quella mia sede, del mio essere stato fuori-sede. Un anno fa. Penso alla mia tesi su una disciplina sull’orlo della completa spettralizzazione di sé. Ci penso adesso che non riesco neanche ad organizzare una camminata con degli amici a Poggioreale, alla ricerca degli spettri di un luogo del mondo in un luogo fantasma.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Note
[1] Serie tv, film, videogiochi, romanzi stanno alimentando un certo feticismo apocalittico. Hanno fatto scalpore, recentemente, i migliaia di turisti a Chernobyl; si veda, per esempio, https://lagrandestinzione.wordpress.com/2019/08/19/chernobyl-immaginari-ed-estetiche-di-una-grande-possibile-estinzione/
[2] Evocata in saggi chiave a cui ho già fatto riferimento nei precedenti articoli qui in Dialoghi Mediterranei, testi come Iperoggetti di Morton, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine di Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, La grande cecità di Amitav Ghosh, ma anche il recente La Grande Estinzione. Immaginare ai tempi del collasso di Matteo Meschiari.
[3] Meschiari M., 2019, Antropocene fantasma, in “Doppiozero”, 8 dicembre.
[4] Casey E., 1987, The Fate of Place. A Philosophical History, Berkley-Los Angeles, University of California Press: 5. “Implacement” è quindi un concetto cardine se si vuol sviluppare una riflessione sul luogo è ci fornisce uno strumento interpretativo fondamentale. Le riflessioni sullo spazio (nel senso di fatto naturale, categoria dell’esistenza umana) inizia, storicamente, attraverso il concetto di luogo. Nell’implacement individuato da Casey come leitmotiv epistemologico ed esistenziale umano, possiamo leggere quella necessità antropologica del “fare luogo” che caratterizza Homo sapiens nel suo esser-ci nello spazio, noto o incognito che sia.
[5] Tuan Yi-Fu, 1979, Space and Place: humanistic perspective, in «Philosophy in Geography», vol. 20: 387-428. Secondo Tuan sense of place si può riferire a una modalità di esperienza e conoscenza visuale (o estetica) del luogo, quindi più esplicita, oppure a un tipo di conoscenza più profonda. Questa si può caratterizzare per un’esposizione più duratura al luogo attraverso tutte le forme di sensibilità sensoriale oppure può derivare da una conoscenza implicita, per dirla in altri termini, una conoscenza-esperienza intuitiva, subconscia, memoriale, un luogo può essere, inventato, ricordato appunto, un luogo può essere immaginato.
[6] Farinelli F., 2003, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi.
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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