Nell’aprile del prossimo anno saranno cinquant’anni dalla pubblicazione di Padre padrone di Gavino Ledda. Cinquant’anni nel corso dei quali il libro è diventato un classico, almeno nel senso suggerito da Calvino di un libro che porta su di sé «la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che ha lasciato nella cultura o nelle culture che ha attraversato». È anche da dire che Padre padrone, almeno in questo senso, un classico lo è diventato molto presto. Chi, come chi scrive, lo ha letto alla fine degli anni 1970, prima ancora di averlo tra le mani, era stato raggiunto dal clamore delle diverse (e contrapposte) letture che ne erano state date. Prima fra tutte, quella, con il loro film, dei fratelli Taviani.
È del 1978 la raccolta di opinioni in proposito curata da Manlio Brigaglia, a cui il curatore aggiunse una sua lunga intervista a Gavino Ledda. Tra i diversi interventi, spicca quello di Michelangelo Pira, che in realtà rivolge tutta la sua l’attenzione sul film dei Taviani. Letto quest’ultimo come una operazione che restituiva a un pubblico nazionale e internazionale un’immagine del mondo pastorale (e in qualche misura della Sardegna stessa) modellata sui più consunti stereotipi, e quindi fatalmente etnocentrica (per non dire razzista):
«Una regione – scriveva Pira – costruita su una aneddotica diffusa tra la piccola borghesia settentrionale e riguardante l’altro (meridionale, sardo, siciliano, africano) sul quale l’etnocentrismo dei Taviani, come ogni etnocentrismo, si compiace di alienare la propria inconscia barbarie».
Nell’intervento di Pira, l’opera di Gavino Ledda finiva per passare in second’ordine, anche in conseguenza di un giudizio sul libro che sarebbe stato espressione «dell’innocenza, dell’ingenuità picaresca» con cui lo scrittore si lascerebbe manipolare dall’industria culturale.
«Un padre a suo modo educatore – aggiunge Pira – gli appare un padrone. Nel suo egotismo infantile considera se stesso l’unica vittima del contesto pastorale; non sa vedere la vittima nel padre, come non sa distinguere tra rapporto di produzione e rapporto pedagogico e i nessi tra i due. La sua ingenuità e la sua solitudine gli fanno apparire la scuola ufficiale, persino la caserma, l’emigrazione e in ogni modo l’abbandono della propria cultura come luoghi e momenti di autentica liberazione e non già quel che sono: luoghi e momenti di più severa cattività e di più pericolosa alienazione».
Colpito e affondato, verrebbe dire, almeno dal punto di vista di quel sardismo culturale – mi si perdoni l’approssimazione – di cui Michelangelo Pira è stato un sostenitore rigoroso. Se non fosse che Gavino Ledda, non ci stava allora (né ci sarebbe stato più tardi) a fare da bersaglio. Ritorniamo alla raccolta di opinioni intorno a Padre padrone – libro e film – curata da Brigaglia e alla lunga intervista fatta allo scrittore. Segnata, nelle risposte di Gavino Ledda, dalla orgogliosa rivendicazione della sua personale esperienza – e del racconto che ne fa nel libro – come una lunga e difficile marcia di emancipazione individuale attraverso le istituzioni statali, in questo caso la scuola pubblica e l’esercito. Un processo che parte dalla ribellione di Gavino contro il padre, a cui (nel libro) dice: «Tu non mi hai aiutato per niente. Se ho studiato lo devo ad amici e non a te. Tu invece non solo sei uno che non mi aiuta, ma sei, anzi, uno che mi disturba, che impedisce questa mia crescita». Ribellione, che così come la condizione da cui nasce, si colloca, a sentire lo stesso scrittore, in una dimensione collettiva.
Questo non significa che l’esperienza pedagogica del ragazzo-pastore sia vista univocamente come l’esercizio di un potere brutale del “padre padrone”. Pagine molto belle del libro, forse le più belle, sono quelle in cui il padre applica concretamente il suo credo pedagogico nei confronti di Gavino. Si tratti di una serpe che sbuca fuori da un cespuglio o di affrontare le minacce portate dagli uomini, indicazioni pratiche si intrecciano con una costante riaffermazione dei valori alla base di quella pedagogia: riassumibili nel principio del contare soprattutto su se stessi. È un mondo, insomma, quello dell’infanzia e della giovinezza del pastore Gavino, alle cui regole lui stesso si ribella pur continuando a portarlo dentro di sé come l’ordine naturale delle cose. Su questa ribellione ritornano le ultime pagine di Padre padrone. Benché lo scrittore comprenda le ragioni del padre, la sua figura gli si staglia di fronte come un’opprimente proiezione mentale. D’altro canto, non si può negare la straordinaria forza (non solo letteraria) dello scontro, quando il giovane protagonista è così appassionatamente ansioso di salvezza mentre il vecchio, indomito fantasma, rimane, altrettanto appassionatamente, fermo dentro il suo mondo.
Ribellarsi all’ordine naturale ha comunque per Gavino dei costi: non solo un senso di colpa – che, come in una tragedia greca, può rivelarsi inestinguibile – ma soprattutto l’allontanarsi dalla propria comunità naturale. Così, con la decisione del protagonista di lasciare il suo paese, si conclude Padre padrone. Contraddetta, per altro, questa conclusione, da scelte di vita (ma anche etiche e intellettuali) che Gavino Ledda ha confermato sino ad oggi, ponendosi – sono parole sue – come un
«intellettuale che è nuovo, nel senso che non se ne va, si laurea, studia, contro tutti, turbando, riesce contro tutti, poi ad un certo punto viene amato dal paese, dalla comunità, e diventa modello. Però poi scrive, e turba ancora perché mette per iscritto le vergogne, i tabù, che erano stati sempre nascosti: insomma, contro la politica dei ‘panni che si lavano in casa’, li ha lavati di fronte a tutti. C’è questo intellettuale che descrive la comunità, la interpreta, la scuote, e scuotendola la fa crescere».
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Luciano Marrocu, insegna Storia contemporanea all’Università di Cagliari, dove vive, ed è autore di saggi e romanzi. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Il salotto della signora Webb (1992), Orwell. La solitudine di uno scrittore (2009) e i romanzi Fàulas (2000, 2010), Debrà Libanòs (2002), Il caso del croato morto ucciso (2010), Affari riservati (2013). Per la casa editrice Donzelli ha curato il volume La Sardegna contemporanea (2015), e per Laterza ha scritto, Storia popolare deli sardi e della Sardegna (2021).
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