di Flavia Schiavo
La città – luogo scandito da numerosi ritmi – può esser intesa come un’impronta. Traccia da interpretare in cui i segni umani: i corpi, i flussi, i transiti, le interrelazioni, gli eventi e i segni apparentemente non-umani, gli oggetti, gli artefatti, si fondono, comunicano e si fronteggiano in un rapporto molteplice, reciproco. «Le città» dice Augé (2004) «hanno un rapporto particolare con la storia. (…) L’architettura segue la storia come un’ombra» e «i luoghi del potere si spostano secondo le evoluzioni e le rivoluzioni interne».
Captare i nessi sociali, catturare e restituire il senso di tali rapporti, fisici e simbolici, al fine di predisporre azioni di governo territoriale, è pratica non facile, per i limiti endogeni dei linguaggi di rappresentazione e perché ciò che è fluido, instabile e immateriale (non-visibile) è inafferrabile e complesso da raffigurare. Gli eventi, dunque, inducono un cambiamento che si manifesta sia come processo lento, in cui viene espressa la resistenza fisica alla trasformazione propria della città, sia in termini più drastici: l’agire, il fare, qualunque esso sia, rende la città un organismo plastico, in condizione di “mettersi a servizio” del cambiamento.
Esplorare la tensione tra il centro e la periferia mette in luce l’esistenza di una dinamica ininterrotta legata al dialogo tra forma urbis e forma civitas. Inoltre riflettere, con l’ausilio di strumenti differenti di interpretazione, sulle variazioni del rapporto tra tali ambiti, mira a comprendere la fluttuazione del valore simbolico (Gasparini, 2000) e funzionale delle “qualità” attribuite nel tempo ai luoghi dagli abitanti. Aspetto importante, quest’ultimo, avocato dalla Convenzione Europea del Paesaggio che definisce il Paesaggio stesso come parte consustanziale del territorio, così come percepito dalla popolazione che lo abita, e che spinge a considerare e includere nel “governo territoriale” i “paesaggi quotidiani” e la loro rappresentazione (verbo-visiva).
Sinteticamente e prescindendo – intanto – dalle diverse strategie di scoperta e interpretazione, si può affermare che le qualità e il ruolo attribuiti al “centro” siano costanti e di segno stabile e positivo. Infatti, anche se la città contemporanea registra una recente moltiplicazione dei centri, essi sono evidenziati e riconosciuti, mostrando quasi sempre un valore qualificante anche in presenza di processi di degrado. Diversa è più fluttuante è invece l’attribuzione (di valore o disvalore) data alla periferia, acquisizione della città più recente: è infatti dopo la demolizione delle mura civiche che essa compare e viene identificata e tipizzata, divenendo, specie dopo gli anni ’50 (crf. Salzano, 2000), uno degli “oggetti” – deboli e spesso stranianti – da osservare: «le strade del nuovo quartiere» dice Flaiano (2002), che descrive la periferia romana intorno agli anni ’60, «che stanno facendo sui campi della Nomentana sono dedicate a quegli scrittori che nelle storie della letteratura vengono messi in blocco nell’ultimo capitolo e trattati con affetto un po’ sommario (…) Ormai le case assomigliano alle automobili e alle stanze da bagno; e la loro vista riesce sempre a rattristarmi».
È la comparsa della periferia che dà avvio a una inedita eterogeneità urbana, innescando un rapporto tensivo – retaggio del Movimento Moderno, oggi diversamente argomentato (Marcelloni, 2006; Belli, 2006) – tra i luoghi (tra il “pieno” e il “vuoto”, tra il “denso” e il “rado”), antitesi prima diversamente declinata o pressoché assente nella piccola città storica (in dialogo e in dipendenza estetico-funzionale con la campagna “esterna”): «Roma è lontana, dall’altra parte, e manda fin qui un boato sommesso» nota, in tal senso, Flaiano (2002). La periferia attiva uno “sradicamento” sociale e un’incerta cittadinanza; ciò mette in crisi e rende labili valori come l’appartenenza alla città o l’eguaglianza sociale tra gli abitanti, e sottolinea quanto sia importante rafforzare l’immagine unitaria della città (tra centro e periferia non dovrebbe intercorrere una reale discrasia, quanto piuttosto una interrelazione evolutiva e profonda), e quanto sia urgente rinnovare i modi del progetto e le strategie dello sguardo volto verso lo spazio fisico e le dinamiche immateriali in divenire. Come affermava Pasolini in Petrolio: «l’avvicinamento della periferia al centro aveva intanto distrutto anche le varie, particolari, culture popolari».
Sia in termini concreti, sia intangibili, l’evidenziarsi della periferia, fa emergere, al di là dei variabili giudizi funzionali, delle ragioni storiche e di valore, una particolare “discontinuità” nello sviluppo urbano, e alcune nuove permeazioni tra ambiti prima nettamente diversi, mettendo in luce quanto una unità primitiva – un archetipo – (la Città), compiuta e pressoché compatta per lungo tempo, si disgreghi, esploda e si frammenti (cfr. Mumford, 1967) – tramite una sorta di “mitosi”, di divisione cellulare – in ambiti fortemente differenziati: più stabili (i luoghi della centralità), e più instabili, rarefatti e soggetti a variazione (le periferie). L’unità – la città ab origine – si divide, viene così necessariamente “ripensata” e può essere osservata come giustapposizione o intrusione di parti o di brandelli residui, come ambito discontinuo o diffuso, come sistema, come mosaico, come “arcipelago” (Indovina, 2006).
La frammentazione confuta la stessa idea storica di città, mostrando come un termine tanto persistente nel lessico (sia quotidiano che disciplinare) e apparentemente forte – “città” – assuma nel tempo un senso differente. La voce infatti, non è più sufficiente a descrivere – anche per la nascita della periferia contemporanea [2] – le sfumature recenti, così come testimoniato dalla comparsa di neologismi [3] che, dalla fine del XIX secolo, tentano di rappresentare la nuova totalità urbana, cogliendo rarefazione, compattezza, molteplicità dei tessuti e dei fenomeni, rottura dei bordi e metamorfosi della stessa unità, storicamente concepita come ambito chiuso e circoscritto.
«Quanto all’esperienza dei confini» suggerisce Augé (2004) «mette in gioco molti livelli e molti registri. Il confine città/campagna, finché la nozione di città intra muros ha avuto un senso, regolava la percezione di due mondi contigui, ma differenti. Anche le opposizioni capitale/provincia e città/sobborghi sono molto frequenti nella letteratura e corrispondono a paesaggi fisici e mentali, percepiti nelle loro differenze specifiche (…). Oggi l’esperienza della scoperta progressiva del paesaggio è diventata sempre più rara e difficile. La sistemazione del territorio, (…) la moltiplicazione delle autostrade e l’espansione del tessuto urbano ampliano l’orizzonte, ma eliminano i recessi di un paesaggio più frammentato e intimo».
Gli spazi periferici, i margini, i bordi discontinui, tra gli elementi caratterizzanti la città contemporanea, sono – oltre che cardini instabili, siti “deboli” e sensibili, ambiti problematici di difficile percezione e lettura – soggetti all’abbandono, tanto quanto all’intenzionalità del governo o alle azioni spontanee: «Al di là del semaforo, da una parte c’erano dei praticelli neri. Con sopra i resti di alcune baracche, e dietro, pareti incatramate di palazzoni che si perdevano nel cielo pieno di un vapore freddo e bluastro. Nel mezzo uno spiazzo di fronte a quei palazzi, un terreno vago su cui aveva piantato le tende un Circo (…) c’era una piccola costruzione rosa isolata: c’era un bar tutto sfavillante (…) Più indietro ancora c’era un capolinea pieno di autobus, un cinema, e, insomma, l’inferno» (Pasolini, Petrolio, 1992)
E possono, per tali ragioni, essere definiti spazi di transizione, luoghi tangibili e plastici, dotati di una grande attitudine al cambiamento e, pertanto, di questo, punti focali. Essi configurano una città intermedia. Un territorio che spesso confonde per l’esiguità dei punti di riferimento, disorientante «per uno appena sbarcato dal treno, si sa, la città è tutta una stazione: gira gira e si ritrova in vie sempre più squallide, tra rimesse, magazzini di spedizionieri, caffè col banco di zinco, camion che gli soffiano in faccia getti puzzolenti» (Calvino, 1993) e difficile da rappresentare, tuttavia portatore, se vissuto, di specifici segni d’uso “comunitario” e familiare. La «periferia» è «casuale, irriferibile» suggerisce P.P. Pasolini, ponendo l’accento su quanto sia impegnativa la descrizione di oggetti territoriali inediti, specie se compiuta con gli strumenti di indagine consueti e correnti.
«Anche i luoghi semplici e miseri» – afferma infatti Lynch (1992) – «hanno il loro fascino (…), nelle città ci sono posti trasandati dietro ai quartieri maestosi. Gli ambienti decorosi, formali sono ben ordinati e controllati, mentre i “retri”, più trascurati e informali, sono usati da quei pochi che li frequentano stabilmente. (…) Molti oggetti passano da qui per poi estinguersi. (…) chi è del mestiere, in pianificazione, sa che questi sono i posti da osservare se si vuole sapere qualcosa di una zona: camminare per i vicoli, guardare nei cortiletti, sbirciare nei retrobottega dei piccoli negozi d’angolo. I luoghi dimessi, ordinari sfuggono al peso del potere, all’intento di impressionare: sono zone liberate».
Da un lato essi sfuggono al “peso del potere”, dall’altro sono diretta conseguenza di esso, perché ambiti di segregazione e di scarto. Urbanistica e pianificazione hanno, nel tempo, declinato con tali luoghi una bifida, inconseguente e antinomica relazione – annettendoli o escludendoli dal dominio urbano – esercitando su essi un controllo normativo, in fase più recente una più attenta “riscoperta” delle qualità potenziali (a volte solo retorica), o attivando una sorta di rimozione e abbandono, consentendo che nei luoghi di confine si esprimessero le tendenze populiste (spesso acriticamente interpretate, per es. quelle relative all’edificazione di quartieri popolari: cfr. Vittorini, 1934). Lasciando che si manifestassero, quasi in assoluta deregulation, le aporie urbane, così come le contraddizioni insite nell’assenza di pianificazione, ammettendo che i margini divenissero una sorta di ground zero, teatro dell’irrisolto, dello scarto, del degrado non affrontato, dell’entropia, dell’accumulazione delle scorie: «le isole marginali sono sempre prede disponibili» (Lynch, 1992). Incompletezza, fragilità e inconsistenza – concreta e simbolica – comunicano un senso di spaesamento e di perdita», è il «lato scuro del cambiamento», afferma Lynch (1992). In tal senso le periferie possono essere definite come rovine contemporanee: «ogni secolo» scrive V. Wenders (cfr. Colusso, 1998) «ha le sue rovine e un suo modo di metterle in immagine facendone paesaggio».
L’osservazione di esse non dovrebbe, però, condurre a esprimere giudizi negativi, quanto a meditare che tale milieu – paesaggio impensabile in cui si rivela e fonde insieme la bellezza dell’imprevisto e il terrore dell’incontrollato – un agglomerato costituito da un’architettura spesso indifferente al contesto e alle persone, non va inteso come un non-luogo (cfr. Belli, 2006), ma può esser considerato come un tessuto vissuto e abitabile – «appena gli individui si accostano fanno del sociale e organizzano dei luoghi» (Augé, 1993) – che permette gli attraversamenti, accetta le contaminazioni e di cui può esser rivelato un nuovo senso, agendo sulle connessioni funzionali e simboliche, messe così bene in luce dalla narrazione contenuta nelle restituzioni letterarie, filmiche e nella percezione degli abitanti.
Leggere la forma/scrivere la forma
Ogni azione di governo dovrebbe scaturire da letture, da interpretazioni e dal “riconoscimento” delle qualità dei luoghi. Occorre, in tal senso, per aprire le strade mirate alla comprensione territoriale, moltiplicare gli “sguardi”, ascoltare, osservare.
Oltre alla esplorazione tecnica (analisi urbanistiche e strumenti ortodossi di studio) può essere proficuo – in special modo per siti così instabili e difficili da intendere e con una storia recente, come le periferie – esplorare cosa emerga da sistemi di lettura e di rappresentazione, fondati su altri linguaggi, attivando una crasi tra modi e generi eterogenei, ma compatibili: «lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo», suggerisce Perec (1989). La molteplicità, la contaminazione tra diverse indagini si traduce in una ricchezza e densità interpretativa, in un ibrido corpus costituito da diverse visioni, che comprendono le analisi urbanistiche e territoriali, le restituzioni delle “immagini” degli abitanti (Schiavo, 2005), ciò che affiori dalla trama letteraria dei romanzi (Schiavo, 2004; 2005a), il “racconto” verbo-visivo delle “storie” (Schiavo, 2005) dei residenti, e delle biografie (Marradi, 2005) – “racconti di vita” (Bertaux, 1999) – dei soggetti che appartengono e abitano da insider la città, i racconti di viaggio, (Mondada, 2000), le immagini e le sequenze emergenti dal cinema e dalla fotografia del quotidiano (Schiavo, 2007).
La ricerca minuziosa del dettaglio, possibile incrociando numerose fonti, più che essere un esercizio tassonomico, è un percorso di riflessione e di scoperta. Soprattutto se in sinergia con l’attraversamento lento del cammino, nella città e nel paesaggio, agito a livello del suolo.
La molteplicità dello sguardo moltiplica il senso urbano, attivando – consci di quanto sia impossibile una restituzione onnicomprensiva – un metodo di ricerca che amplifica la comprensione, evidenziando da un lato come alcune fratture e forti trasformazioni (per esempio la comparsa della periferia) agiscano da elementi scardinanti, possedendo un valore di rifondazione urbana e, dall’altro, come ogni “linguaggio” di rappresentazione, “radicato” in uno specifico campo espressivo-disciplinare, sia soggetto a regole precise, enfatizzando alcuni aspetti, obliterandone altri: è la configurazione espressiva che fornisce agli oggetti descritti, in questo caso le periferie, un preciso regime di esistenza. I linguaggi, in tutta evidenza, non sono mai neutrali, non si riferiscono a contenuti o rappresentazioni date, ma agiscono come “pratiche” che materializzano gli stessi oggetti di cui parlano. I sistemi di rappresentazione, le narrazioni, le immagini sono, dunque, atti culturalmente creativi e possiedono un valore performativo. In tal senso non sono solo strumento minuzioso, ma possono esser considerati come pratiche di fondazione di spazio e di luogo.
La lettura sinottica, complanare e comparativa di tali “linguaggi”, modi e generi assai differenziati di percezione e restituzione costituisce una sorta di insieme interdiscorsivo, evidenziando come i luoghi possano essere indagati sia tramite una “conoscenza zenitale”, sia per mezzo della “conoscenza percorso” (Schiavo, 2005; 2005a).
Grazie a tale intreccio tra formalizzazioni diverse e attraverso la moltiplicazione delle visioni, è possibile percorrere i luoghi e nel contempo guardarli con occhio più distaccato. Il passaggio dalla visione zenitale (insito nelle mappe), all’attraversamento, esperibile per mezzo delle descrizioni visive e verbali, della letteratura, della fotografia, del cinema e delle “visioni” degli abitanti, mostra, allora, almeno, due città possibili: «la città-panorama» che è «un simulacro “teorico”, un quadro insomma, che ha come condizione di possibilità un oblio e misconoscimento delle pratiche» (De Certeau, 2001) e una “città vivente”, porosa, umanizzata, permeabile a livello del suolo dove si realizza un altro genere di visibilità, dove si muovono coloro che vivono quotidianamente il luogo. La rappresentazione interdiscorsiva verso cui si punta origina dall’incrocio tra una visione “esperta” e una “comune”, due Terre e due Mappe, da integrare: una, più sgranata, composita, fondata sulla narrazione verbo-visiva, attiene al luogo concreto e simbolico degli abitanti e degli insiders, l’altra coincide con lo spazio in prevalenza quantitativo e bidimensionale delle analisi e delle indagini cartografiche o statistiche. Dove la mappa ortodossa divide e segmenta, il racconto attraversa.
Gli scrittori, il cinema, la fotografia, le visioni degli abitanti registrano – con una sensibilità diversamente attenta da quella manifestata dal linguaggio urbanistico – la coesistenza tra aspetti contraddittori, mostrando che alcuni caratteri, anche deteriori, come quelli raccontati da Parise (2001): – «un immenso quartiere senza cielo (…) pieno di enormi edifici simili a caserme, con stradicciole malconce, dall’asfalto rotto e sfondato dal peso dei camion, o con viuzze dal fondo di polvere di ferro» –, possono esser parte dell’identità urbana. I linguaggi prevalentemente narrativi, di descrizione e di scoperta possono additare, tramite un allargamento e una complessità di campo, quali strategie mettere in atto per ripensare e rifondare gli spazi periferici, affrontando, secondo una diversa prospettiva (non-esperta; non tecnica), il vacuum insediativo, includendo la componente e la percezione umana, gerarchizzando, se necessario, e problematizzando criticamente il nodo relativo al vuoto di senso dei luoghi.
Parafrasando Wittgenstein possiamo affermare che abitiamo l’isola della descrivibilità logica, isola circondata da un vasto oceano, relativo a questioni per le quali le regole e i modi di tale descrivibilità non sono sufficienti. Esplorare quell’oceano ci fa allontanare dalla logica corrente e ci espone all’instabilità del pensare: il viaggio è avventuroso e rischioso, ma promettente. È possibile, anche secondo tale suggestione, rilevare con intenti operativi, una differenza sostanziale, tra i diversi linguaggi descrittivi. Quello proprio degli abitanti punta, tramite rappresentazioni verbo-visive non del tutto codificabili, a restituire il rapporto esistente tra lo spazio e il sé (concependo il primo termine non in astratto, ma pensandolo quale luogo dell’esperienza), considerando la “visione” e la fruizione.
Quello letterario mostra in modo inclusivo aspetti eterogenei dei luoghi, fusi insieme alle vite degli “abitanti”. Cinema e fotografia puntano a testimoniare l’esistente, con documentaria esattezza, a trasfigurarlo simbolicamente, a comporre sequenze e regesti visuali, dando vita a una sorta di iconoteca da cui emergono le pratiche, i desideri, l’uso e i percorsi, il rapporto di appartenenza, le barriere, le fratture, i nodi irrisolti, la forma urbis e la forma civitas. L’immagine complessa che ne risulta, di tipo verbo-visivo, non è solo documento, è una sorta di “montaggio” che, oltre a notare e conservare, denota e connota: i linguaggi non-esperti traslano e traducono, attivando, soggettivamente e – per trasposizione e in parte – collettivamente, una forma di conoscenza “implicita”, che attiene a ciò che non è facilmente enunciabile, né dicibile attraverso restituzioni standard (Ricolfi, 1997) o quantitative.
Le rappresentazioni fotografiche, letterarie, filmiche, o quelle degli abitanti, restituiscono in primo luogo qualità, in chiave intersoggettiva – non quantità alfanumeriche – attraverso la stessa mobilità del transito: come in un viaggio, infatti, le immagini (le narrazioni) sono spesso “riprese” (esperite) dalla prospettiva del passante, testimone che osserva e sperimenta. In una certa misura anche chi non dovesse partecipare all’elaborazione e all’interpretazione di tali visioni e raffigurazioni è portato a riconoscersi e a immedesimarsi nel percorso conoscitivo. Non si tratta di un’identificazione ideale o teorica, ma una concordanza in itinere, un’appartenenza e un’adesione evolutiva più profonda col luogo e con gli stessi linguaggi espressivi: guardando un film, leggendo un romanzo, osservando le restituzioni e le narrazioni urbane di alcuni abitanti è possibile dire: «quelle immagini, quelle parole, quelle narrazioni siamo Noi».
La strategia induce lo spostarsi partecipando e osservando, come in un’esperienza interiore, sé e il luogo insieme. Il viaggio include il corpo, gli occhi, il pensiero, l’emotività, delinea un modo per percepire il volto urbano e esprimere intuizioni non formalizzate in precedenza. La rappresentazione che ne deriva, formalizzata tramite i linguaggi non tecnici, configura una sorta di vedutismo contemporaneo (diverso dalla restituzione zenitale o dalla veduta sei-ottocentesca), in cui il soggetto è coinvolto e abita dentro tale appercezione e restituzione empirica, in cui si è presenti e partecipanti e in cui è inclusa e contemplata l’instabilità come valore, il dubbio esplicitato, il dislocamento.
Le città di cui si intenda conoscere l’esplosione periferica e i suoi nodi critici, possono essere osservate incrociando, quindi, varie restituzioni e testi prodotti da scrittori e cineasti. Tale intersezione tra immagini diverse punta a riflettere su quali trame, qualità, informazioni e quali categorie vengano evidenziate, ragionando sulle potenzialità e sui limiti dei diversi linguaggi. L’obiettivo è dar corpo a un ragionamento che integri la componente storica, con la quotidianità fatta da eventi generali e singolari. Per raccontare un incontro, tra tempo e luogo, che metta in discussione ciò che emerge dalle analisi ortodosse disciplinari. Il territorio viene letto tramite una sorta di trasfigurazione: luoghi abitati, frammentati, permeabilità, flussi.
Immagini, metafore e racconti fungono da frame, stabilendo un ordine non-usuale, isolando alcuni elementi e ponendoli tra “parentesi”, in chiave generale e idiografica (es. i segni “micro-identitari”, le pratiche sociali, le eccezioni). Per la comprensione delle periferie, quindi, oltre Pasolini, possono essere chiarificatori gli scritti di autori come Levi, Gadda, Lodoli, Moretti, per quanto riguarda Roma. Film come Caro diario (attraversamenti della periferia contemporanea a partire dalla Garbatella) o come Roma città aperta (in cui si presta attenzione alle macerie e alla condizione sociale, dopo la II Guerra mondiale), o Ladri di biciclette, raccontano l’estrema periferia, mentre Fellini-Satyricon e Fellini-Roma dicono di una città senza connotazione e senza confini, così come Boccaccio ‘70 (girato in parte all’Eur) o Una giornata balorda manifestano capacità documentaria del luogo inteso come generatore e specchio delle esperienze vissute e della storia.
Come affermava Pasolini nel 1962 (vd. Pasolini, “Mamma Roma”, in: I Meridiani, a cura di Siti, 2001, Per il cinema, tomo II): «nessuna mia inquadratura può cominciare con il paesaggio vuoto. Ci sarà sempre anche se piccolissimo il personaggio», a testimonianza di quanto la descrizione non-tecnica possieda una ricchezza, includendo le componenti umane.
Per Roma, forse è proprio Pasolini l’autore chiave per comprendere come la città abbia, tra gli anni ’50, ’60 e ‘70, trasformato il proprio ambito agricolo e generato altri spazi. Le visioni poetiche e narrative (per es. in Petrolio), raccontano il paesaggio di una “città contesto” in cui si materializza lo strappo con la storia precedente. Cesura chiaramente esplicitata in un brano, Com’è mutato il linguaggio delle cose, del 1975 (vd. Gennariello; in: a cura di W. Siti, 1999, I Meridiani, Saggi sulla politica e sulla società) dove, descrivendo le periferie urbane, si affronta il rapporto tra storia locale e storia globalizzata, tra tradizione culturale e perdita di questa. Raccontando una periferia che, da luogo prima appartenente agli abitanti, si sia differenziato e trasformato in ambito estraneo, mostrando un volto lacerato e lacerante.
Il territorio di Pasolini non è una “veduta” (anche quando come a Orte, la veduta sia proposta come mezzo della rappresentazione) o un paesaggio vuoto in senso ottocentesco, la città non è mai colta evidenziando le valenze esornative o monumentali (come per es. ne La notte di Antonioni), ma è costantemente ripresa ad altezza d’uomo e di donna, celebrando il viaggio del sé nel luogo e l’attraversamento disvelante, interiore e concretamente radicato nell’umano (oltre la sfera sociale), con un’ottica che non è né generalista, né massificante.
Rivoluzioni percettive
Gli anni ‘50 e ‘70 – in un’ampia porzione del territorio italiano, in gran parte dell’Europa, e con altri caratteri in America del Nord, non solo nelle grandi città – furono contraddistinti da una consistente mutazione del paesaggio urbano e territoriale. Più precisamente, in Italia e in Europa, da una sostanziale trasformazione della struttura e della forma urbana storica e del rapporto tra città e campagna, già spezzato quando nella seconda metà dell’Ottocento molte città avevano demolito le proprie mura civiche. In quella fase alcune grandi città si erano dotate di Piani in grado di trasformare l’impianto medievale, pur mutato in epoche successive, secondo una logica prevalentemente razionale. Ognuno di questi strumenti urbanistici, oltre a prevedere un’espansione e un insieme di regole per governarla, agiva soprattutto sui “bordi”, non semplici linee, inventando oltre alla città borghese, un inedito “oggetto” urbano, la periferia che, soprattutto inizialmente, ebbe con i margini una strettissima relazione, divenendo uno dei paesaggi del Novecento.
Numerosi autori soprattutto americani, tra cui P. Blake, ne L’architettura degli anni Settanta, del 1971, J. Venturi in Learning to Las Vegas, e alcuni anni dopo, tra gli europei, M. Augé (1997) o E. Turri (1998) ragionarono sul fenomeno, mettendo in luce alcuni elementi di questo nuovo paesaggio. Compiendo un’indagine che non riguardava solo la forma urbis o la sua estetica, ma esplorava, in termini di azione e retroazione, anche gli effetti della forma e della struttura sui modi di rappresentare e vivere lo spazio urbano, sul progetto dello stesso (o sulla assenza di progetto), sulle questioni di ordine sociale, sul feedback tra la forma e le condizioni di vita e sul valore politico della medesima forma. Alla ricerca, direbbe Augé (1997), dell’«etologia della modernità».
Un tema trasversale e ricorrente: la banalizzazione e la volgarizzazione del paesaggio. Un paesaggio che in Italia e in Europa – soprattutto nella lunga fase di ricostruzione post II Guerra mondiale, e grosso modo sino alla fine degli anni ’80 [4] – faceva i conti con le politiche infrastrutturali, con la stagione delle case popolari, con il considerare i centri storici e la periferia rimossi abbandonici e con quelle scelte che già mostravano le proprie incrinature se osservate evidenziando i rapporti non risolti della trasformazione con la storia, con i paradigmi interpretativi dell’urbano, con gli effetti sull’abitare, con le relazioni tra il concetto di “forma” e il diritto alla cultura dei luoghi.
Se la forma non viene intesa unicamente come una qualità geometrica, ma come manifestazione visibile della dinamica del mutamento e del rapporto tra luogo e potere esercitato [5], può essere esplorata nella sua complessità: cosa vuol dire, infatti, alterazione della forma? Cosa riguarda tale alterazione? Come e perché essa viene percepita? Come viene trattata dal progetto, o restituita nelle rappresentazioni urbane, nel cinema o in letteratura? Come viene concepita, vissuta o subìta dagli abitanti?
La periferia, città “oltre” la città esistente, viene percepita in modi diversi e genera differenti reazioni: può essere luogo sofferto; può dar vita a risposte forti; può produrre negli abitanti comportamenti imprevisti.
Per comprendere tali modi, oltre al documentario di Pasolini, La forma della città, potrebbe essere interessante analizzare numerosi altri film, tra essi: La Haine (tit. it. L’odio, di Mathieu Kassovitz, del 1995) e Florida Project (del 2017, di Sean Baker, girato a Osceola County, Florida). Il primo sulla banlieue francese e sui disordini avvenuti poco prima che Kassovitz girasse il film (vd. Schiavo, 2016); il secondo sul paesaggio americano sgranato colto all’interno di una deformazione e di un disagio sociale. Da questi due film emergono questioni, rappresentazioni e soluzioni differenziate per “abitare”, ma in ognuno di essi si indaga sulla polis, sul ruolo “politico” dello spazio e sui rapporti di potere. Ne La Haine, la forma alterata della città diventa segregazione; in Florida Project la forma coincide con la deformazione propria del paesaggio americano di cui parlano Blake e Venturi, ma consente, pure, di vedere come negli interstizi esistano paesaggi culturali alternativi.
Il cambiamento del paesaggio va esplorato, dunque, per comprendere come esso abbia influito non solo sulla percezione dell’idea città, ma abbia avuto rilevanti effetti socio-culturali.
Ogni autore esprime posizioni diverse riguardo alla perdita della forma e all’insorgere di nuovi paesaggi sociali, come quelli delle periferie italiane: per Pasolini, che manifesta una reazione intellettuale, politica ed emozionale, non solo nel documentario del 1974, la forma si rapporta con la storia e con la relazione tra il potere, i luoghi e le persone.
Se come rilevano alcuni autori il paesaggio, costituito dall’insieme dei «sordidi chioschi sparsi lungo le autostrade» (Blake, 1971), da «autostrade a quattro corsie, centri commerciali, grandi complessi immobiliari che condannano piuttosto l’individuo alla solitudine e all’anonimato proprio nella misura in cui questo “paesaggio” si squalifica» (Augé, 1997) è reputato senza passato e in attesa di un futuro senza forma, va detto che lo stesso territorio non mostra solo la propria rovina, lo scivolamento verso il casuale, la sperequazione o la sua destrutturata rarefazione, ma influenza l’interpretazione del fenomeno urbano, mettendo in crisi i paradigmi precedenti dello stesso. Inoltre e forse in virtù della nuova articolazione, per la presenza di bordi sgranati e ambiti ibridi, offre opportunità di trasformazione attuate dagli abitanti che potenzialmente potrebbero modificare i luoghi o i comportamenti indotti dalla forma e dalla struttura dello spazio, imprimendo, oltre la coazione, traiettorie impreviste. Tra i numerosi esempi: alcune riconversioni bottom-up di aree dismesse (Schiavo, 2019), gli orti urbani, i gardens community (Schiavo, 2017) e la street art (Schiavo, 2018).
Tali azioni sperimentali, indisciplinate o anarchiche e comunque empiriche, inducono nuovi modi di abitare, un abitare che ha un enorme valore politico, che a volte trascende i progetti di riqualificazione, spesso top-down e costituiti da gesti isolati, come può essere una grande architettura che genera nuovi assetti o nuova bellezza ma non affronta le questioni sociali insite nel quotidiano.
Guardare alla “forma” dunque non significa solo osservare i bordi di una città, o la sua articolazione nel confronto con la storia, ma vuol dire interrogarsi su come alcuni irrisolti della modernità vengano affrontati o inneschino percezioni e reazioni a volte dure (come gli incendi nella banlieue) o mirate a una diversa forma di progetto dal basso.
Sia Blake che Venturi e Scott Brown hanno sottolineato che l’iniziale disorientamento di fronte al paesaggio contemporaneo oltre-urbano, a-storico, sgranato e senza forma, più tipicamente statunitense, si sia trasformato dando vita a una sorta di rivoluzione estetica: quello che da Blake fu definito inquinamento visivo, infatti, pur osservato criticamente nella consapevolezza che comporti consumo di suolo, devastazione delle risorse, distruzione dell’immagine urbana classica, ha generato una nuova “figura” fatta di contrasti, distorsioni di scala, dissonanti polifonie, un cityscape interno a una forma urbis fatta di un diverso ordine che offre, e non solo allo sguardo, un tessuto vario e spesso discontinuo, un contesto visivo fatto di nuovi oggetti e simboli, che dà vita a un linguaggio visivo attuale. Questo mondo che potrebbe dirsi deforme, frammentario, disadorno, oltre a non possedere le qualità classiche degli ambienti storici, concede opportunità di azione.
Ragionare sulla forma, allora, non vuol dire guardare il confine urbano materiale esistente tra la città storica e quella contemporanea o semplicemente gli avanzamenti o l’esplosione urbana o i fenomeni di dispersione, vuol dire piuttosto incontrare un nuovo paesaggio che può assumere numerosi aspetti. Superando l’immagine di appendice urbana, prossima al centro ma da esso simbolicamente lontanissima, la cosiddetta periferia, si è dilatata sul territorio cambiando forma e sostanza e, mentre la città assumeva strutture diverse, mentre diverse densità invadevano il territorio prima agricolo, ha configurato un nuovo insediamento dando vita non solo a semplici alterazioni ma a diversi modi d’uso dell’urbano: città diffusa, sprawl, Edge City, Ipercittà, luoghi trasformati nella forma e nell’abitare.
Va ricordato che anche tali insiemi caotici e in evoluzione, forse più di quanto non sia una città storica, perché instabili, presentano caratteri riconducibili all’urbano, pur in assenza di ogni assetto tradizionale e considerando il salto di scala. Come nota Reyner Banham (cit. in Bruegmann, 2005) nel suo libro Los Angeles: The Architecture of the Four Ecologies, del 1971, «il paesaggio delle stazioni di servizio o le piscine sui retri alla David Hockney, non erano meno eccitanti delle strade o dei parchi della Parigi dipinta dagli Impressionisti». In periodo coevo Venturi e Scott Brown, sulla scorta delle analisi di Blake elaborate negli anni ’60, rilevarono in quegli stessi paesaggi una grande vitalità. E trasferirono il loro Corso di architettura da Yale a Las Vegas, per studiare ciò che definirono «prototypical roadside strip» affermando che da “Sprawl City” si poteva imparare molto. Si trattava in quel caso di un attacco all’idea del paesaggio tradizionale e di un tentativo di innovare i paradigmi al fine di comprendere la forma più recente dei luoghi.
Pasolini e la forma
Già nell’immediato dopoguerra la borgata e la periferia in Italia erano temi di rilievo, esplorati, sia in letteratura che nel cinema, da numerosi autori le cui opere ponevano in evidenza le nuove figure visibili, costituite da ambiti periferici o da specifici luoghi di produzione. Spazi spesso slabbrati, a bassa densità, privi della coesione che soprattutto le piccole e medie città italiane avevano mantenuto sino a prima della II Guerra mondiale.
Tra questi autori: G. Caproni, in due reportage pubblicati ne Il Politecnico di Vittorini, nel 1946 (“Le ‘borgate’ confino di Roma”, “Viaggio fra gli esiliati di Roma”; in Caproni, 2000), o R. Vespignani (artista che aveva soprattutto dipinto la periferia romana) nel 1951, pubblica su «Esso Rivista», “Periferia industriale”, un articolo in cui si rifletteva sulle città a vocazione non industriale, tra queste Roma, sostenendo che esse esprimessero la propria modernità agendo sui margini, o ancora S. Volponi, nel Memoriale, del 1959, e ne Le mosche del capitale del 1989.
La concezione di Pasolini sui paesaggi delle periferie, sulle borgate e sulla città o sull’esplosione urbana non può essere ascritta a nessuna delle precedenti, lontana dalle valutazioni degli americani, distante da quelle degli autori connazionali. Non si trattava di una visione unicamente sociale o percettiva, ma di un incrocio tra una configurazione oggettiva e uno sguardo iper-soggettivo tramite cui si esplorava il rapporto delle persone con il potere, e dello stesso Pasolini con il potere. In tal senso l’interpretazione del luogo non era mai scissa dalle persone, lo spazio vissuto, ambito dove si svolgeva l’esperienza esistenziale, era la proiezione delle storie e degli irrisolti personali e collettivi.
Come Pasolini affermerà, il cinema è un montaggio tra un sentire intimo e l’osservazione, un perenne travaso tra l’emozione e la lucida analisi che pongono insieme persone e politica, luoghi e politica, sesso e politica e il dualismo vita/morte con la politica. Da ciò scaturiva la sua visione organica: la città è un essere vivente, osservata con empatia «I problemi di Sana’a li sentivo come problemi miei» dirà in “Le mura di Sana’a”, (in: I Meridiani, a cura di Siti, 2001, Per il cinema, tomo II). Questo sentimento che orienta lo sguardo si coglie in alcuni film, tra cui Mamma Roma, e in numerose poesie, tra esse ne Il pianto di una scavatrice, o nella raccolta Poesia in forma di rosa, del 1964, come nell’intero libro incompiuto, pubblicato postumo, Petrolio in cui la scrittura, più asciutta e disconnessa, descrive i luoghi con un andamento ritmico: brevi passi fulminanti, scanditi dai paragrafi, gli “Appunti”, contrassegnati da un numero, registrano oltre agli incontri umani le atmosfere destrutturate senza riferimenti, senza tracce di un passato ormai illeggibile: «Le grandi strade della periferia coi grandi palazzi disordinati sembrano corridoi vuoti: vi si muove solo qualche carta sporca trascinata qua e là dal vento».
Per e con la poesia, per e con i frammenti di essa, e con la sua lingua avida e inclusiva, o attraverso il non detto e la sospensione, Pasolini, pur descrivendo lo squallore, evoca. Innescando rimandi, rappresenta simbolicamente la città dilatata e periferica: i luoghi quando sfregiati non sono semplicemente brutti in termini estetici, sono spazi residuali in cui si esperisce il girovagare solitario, il vuoto del progetto umano, luoghi in cui si compie l’esercizio violento del potere e la manipolazione culturale sulle persone più indifese. Diventa interessante, in tal senso, chiedersi quale sia il modo tramite cui Pasolini affronti la fragilità offerta dei suoi personaggi, in un certo senso vittime del capitalismo. A differenza di altri autori coevi (uno per tutti Danilo Dolci) Pasolini si sostituisce ai personaggi e, narrandone gli inferni, li trasfigura con la poesia, dando voce ad essi attraverso il “suo” linguaggio.
La poesia di Pasolini nasceva, oltre che da una ininterrotta intima riflessione, da una comunicazione autentica, e dalla continuità con il linguaggio precedente, che gli fece esprimere distanza da alcuni autori americani, come Hemingway, Faulkner, Steinbeck [6].
Poesia presente anche nel documentario del 1974 La forma della città, dove Pasolini, illustrando il proprio pensiero a Ninetto (il poeta è, potremmo dire, sempre un pedagogo) [7], esplora da lontano, ma con sguardo millimetrico, il nucleo di Orte nel suo confronto con la propria storia e con gli elementi naturali, narrati anche tramite rimandi all’arte nordica del Cinquecento, descrivendo un’aria densa di vapori bluastri e brumosi, un paesaggio urbano adagiato, come lo stesso Pasolini dirà, su «un colle divorato dall’autunno». Pasolini e… la forma della città (questo è il titolo completo; con la regia di P. Brunatto), fu trasmesso dalla Rai nel febbraio del 1974, nell’ambito di una serie “Io e…”. Artisti e intellettuali furono invitati (ideatrice e curatrice del programma fu Anna Zanoli, allieva di R. Longhi, a sua volta “maestro” di Pasolini) a raccontare, nel breve tempo di un corto, la propria relazione con un’opera che li avesse particolarmente toccati. Inizialmente Pasolini fu propenso a trattare il suo rapporto con un muretto di confine in periferia, dove si radunavano puttane e protettori, un luogo «umile» (così lo definì) dove vi era una fontana costruita nell’Ottocento; solo in seguito decise di occuparsi di Orte e della fascista Sabaudia, affermando, tra l’altro, che il fascismo non fosse riuscito a obliterare la precedente cultura dei luoghi. Un discorso imponente che meriterebbe maggiore approfondimento, al cui centro si rintraccia il pensiero sulla forma, che guarda allo scambio tra spazio antropico e potere politico, più che, semplicisticamente, lo svilimento delle tracce storiche. Considerazione che nasce dalla forte relazione di Pasolini con la contemporaneità, espressa nelle pagine che riguardano New York City. Città emblematicamente contemporanea che lo affascinò pur essendo in perenne cambiamento e pur declinando un rapporto con la storia tutt’altro che conservativo. La seduzione risiedeva, come fu espresso chiaramente in “Un marxista a New York”, nell’avvertire l’insita mutevolezza di New York come valore, e nell’affermare che essa fosse «una città di giovani, la città meno crepuscolare che abbia mai visto». Ciò che Pasolini descrive è
«un’America giovane, disperata, idealista. Vi è in loro un gran pragmatismo e allo stesso tempo un tale idealismo. Non sono mai cinici, scettici, come lo siamo noi: vivono sempre nel sogno e devono idealizzare ogni cosa (…). Il vero movimento rivoluzionario di tutta la Terra non è in Cina, non è in Russia: è in America. (…) Ho conosciuto i giovani dello Sncc (…). Non sono comunisti né anticomunisti, sono mistici della democrazia: la loro democrazia consiste nel portare alle estreme e quasi folli conseguenze».
Il documentario La forma della città si concentra su un focus principale: la relazione tra il centro e i bordi, due luoghi critici, della città trasformata. Due siti generici solo in apparenza, ma connessi a fasi storiche distanti, reputate dicotomiche per le azioni di costruzione sui bordi di alcune case popolari [8]: «ho scelto la forma di una città, il profilo di una città», sostenne nel documentario, rispondendo a una questione assai ricorrente in quegli anni.
Mentre la città si allargava sul territorio, i bordi divennero oggetto di esplorazione critica, in Italia, da parte della cultura urbana soprattutto durante gli anni ’60 caratterizzati da una sostanziale mutazione della città, come avrebbe notato Edoardo Detti, nel 1968, osservando i piccoli centri storici della Toscana. Essi manifestavano una tendenza allo sviluppo verso l’esterno, attraverso la rottura espansiva al di là delle tracce degli anelli murati, generando aree fragili, in parte coincidenti con la periferia, teatro dell’incongruo (le case popolari; gli imbocchi autostradali; i capannoni industriali) e di una marginalizzazione intenzionale. Con un linguaggio metaforico la dilatazione urbana veniva assimilata a una sorta di male urbano: «Roma e Milano», affermò in “Milano e Roma” (in: a cura di W. Siti, 1999, I Meridiani, Saggi sulla politica e sulla società), sono tutt’e due delle piccole città tradizionali, due centri storici. Lo sono, perché lo erano fino a poche decine di anni fa. Ma la crescita non è stata molto armoniosa. Si sono sviluppate come certi ragazzini che hanno una disfunzione a certe ghiandole: enormi e informi».
Queste incoerenti trasformazioni, incompatibili con l’idea del paesaggio italiano classico, erano l’habitat dello straniamento di uomini e donne espropriati della propria cultura, dove la seduzione del falso benessere piccolo borghese, che attrae e uccide come il canto di una sirena, li aveva trasportati, come Pasolini racconta soprattutto in Mamma Roma.
La città di Orte, guardata da lontano, è rappresentata tramite una veduta (vd. Corboz, 1998), un dispositivo perfetto per ragionare sul confine frantumato, sulla forma non più “intatta” (una delle parole ricorrenti del documentario)[9], sull’intero e sui dettagli. Scelta non unicamente strumentale alla tesi espressa, ma testimonianza di alcune precise matrici figurative: le vedute di Johannes Vermeer, certe incisioni di Durer o di Piranesi, ma soprattutto le “cartografie” premoderne, elaborate prima della supremazia della visione zenitale: ed è in tal senso che la veduta di Orte non è un paesaggio urbano, ma è la restituzione dell’occhio umano che guarda la città intera nella sua complessità e la descrive.
Nonostante la critica feroce alla trasformazione di Orte, il documentario non manifesta né un pensiero anti-urbano né uno anti-moderno, pur nell’espressione di un sacrale rispetto non solo per la storia ma per le tracce minime e «umili» di essa, la critica si esprime piuttosto nella relazione, contraddittoria e non risolta, secondo Pasolini, tra la purezza della forma e la contaminazione della stessa, nel rapporto primario con l’origine, con l’urbe originaria, e soprattutto con l’abitare straniato delle persone costrette a subire trasformazioni non comprese, né desiderate. A questo proposito, in Scritti corsari (1973-1975; in: I Meridiani a cura di W. Siti, 1999, Saggi sulla politica e sulla società) egli scriverà:
«Io credo, lo credo profondamente, che il vero fascismo sia quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato la “società dei consumi”. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. E invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo».
La trasformazione è ammissibile, allora, solo se il potere (sempre castrante e totalitario) non riesca a espropriare i luoghi, uccidendo lo “spirito popolare”, sradicando le persone dalla propria cultura territoriale. Per Pasolini, allora, abitare significava vivere autenticamente la propria cultura nel proprio luogo.
La visione de La forma della città, pur nella sintesi espressa ci pone davanti alla complessità del suo pensiero: le contraddizioni interne, gli opposti compresenti, l’essere esterno alle categorie consuete, il rapporto tra il sacro e il carnale, il rapporto tra la purezza e la contaminazione. Anche in questo caso il film trascende l’ideologia e la mera elaborazione intellettuale, e mostra il piano politico insieme a quello intimo, esposto e offerto dall’autore.
Polis
L’attenzione alla sfera politica, pur connessa alla lezione di Marx, mostrava in Pasolini una visione indipendente frutto anche della trasformazione dell’eredità del filosofo tedesco: pur cogliendone l’umanesimo, Pasolini lo aveva traslato in sovrasensibile, un livello in cui la stessa “Rivoluzione”, intesa come «mito» era «qualcosa che si attua oltre la “durata” del suo tempo esistenziale» (Pasolini, in Anzoino, 1971).
Walter Siti sostiene che nessuno sia stato erede di Pasolini. Pur condividendo tale posizione, va notato che è possibile cogliere alcuni lasciti potenziali della sua intera opera che punta, infatti, a denunciare la corruzione politica, esplora con occhio critico il ruolo della Democrazia Cristiana e la sua conduzione politica, l’omologazione culturale, l’organizzazione seriale del sistema, la dissoluzione della civiltà precedente, desacralizzata a partire dalla Rivoluzione industriale e dal capitalismo in azione, la critica alla mutazione antropologica, e la capacità di leggerla, nel segno multiplo della letteratura, del saggio, del reportage poetico, del cinema (da lui definito più volte «cinema di poesia», in: a cura di W. Siti, 1999, I Meridiani, Saggi sulla politica e sulla società), del documentario, insieme a una sorta di rancore mai sopito per la modernità.
Alcuni autori, come Vincenzo Cerami (che fu suo allievo al liceo), in Addio Lenin si misurano con la sua scrittura, altri in epoca più recente si confrontarono con i luoghi raccontati, tra essi Francesco Pecoraro, in Lo stradone, in cui un uomo di 70 anni osserva (in una città simile a Roma) la vita di un quartiere dal settimo piano della sua palazzina, o lo stesso Walter Siti, ne Il contagio, o in alcuni volumi di Antonio Moresco e parzialmente in Gomorra di Roberto Saviano; opere in cui si tenta di rappresentare ciò che lo stesso Pasolini affermava fosse “irriferibile”: lo scarto e il rimosso della periferia e il suo contesto sociale.
Due autori Ciprì e Maresco – che peraltro nel corto di 19 min, Arruso[10] del 2000, si confrontano con la sua figura e, con una cifra iconoclasta, ne ricordano la morte, a 25 anni di distanza – manifestano alcune affinità con il cinema di Pasolini, rintracciabili comparando numerosi tra i corti di Ciprì e Maresco (vd. I migliori nani della nostra vita) [11] con alcune opere tra cui La terra vista dalla luna, del 1967, in cui una famiglia sub-proletaria vive in una baracca, o Accattone, descritto da G. Fofi (1995) come denso di una originalità cupa e mortuaria. L’analogia tra Pasolini e i due autori siciliani, Ciprì e Maresco, risiede più nell’oggetto rappresentato e nella critica implicitamente contenuta, che nella cifra espressiva, animata da una differente poetica (vd. Schiavo, 2010).
Nei film di Pasolini, inoltre, la complessità del significato nasce dall’accostamento tra le immagini prevalentemente in b/n (vd. Pasolini, “La fotografia”, in: I Meridiani, a cura di Siti, 2001, Per il cinema, tomo II) e i testi, la sceneggiatura, la musica, importantissimo strumento spesso in contrappunto stridente: Bach in Accattone, Mozart in Teorema, Vivaldi in Mamma Roma (vd. Pasolini, “La musica nel film”, in: I Meridiani, a cura di Siti, 2001, Per il cinema, tomo II).
Nei suoi film la musica, come Pasolini affermava (ibid.), ha «una vera funzione (…) concettualizzare i sentimenti (sintetizzandoli in un motivo) e di sentimentalizzare i concetti», sottolineando la narrazione, rendendola più drammatica, marcando, nel silenzio del testo, l’immagine dei luoghi, ponendo in luce il processo di omologazione culturale, l’espropriazione e il furto della identità, il dispiegarsi delle vicende, di vita e di morte, come si evince più chiaramente in Mamma Roma dove Roma Garofalo (interpretata da Anna Magnani) e suo figlio, esperiscono la seduzione fatale del modello borghese, che li condurrà verso un epilogo devastante (cfr. Pasolini, 1962, “Alla responsabilità Collettiva”, in: I Meridiani a cura di W. Siti, 2001, Per il cinema, tomo II). «È bella la nostra casa nuova», afferma Roma (Anna Magnani) riferendosi al quartiere INA Casa dove si trasferisce con Ettore, il figlio, per sfuggire al degrado e alla prostituzione. Un ambiente che avrebbe dovuto essere rassicurante è, invece, un paesaggio destrutturato dove brandelli di acquedotti romani, facciate incongrue, sorgono in mezzo ai cumuli di sterro, immondizie e incolti.
La complessità, un assemblaggio tra riferimenti, deriva dall’inclusione della propria storia personale e culturale di cui parte integrante fu formazione figurativa[12], sempre rielaborata, mai utilizzata come semplice citazione anche dove il riferimento sia esplicito, come in La ricotta del 1963, con una scena che propone la Deposizione di Volterra di Rosso Fiorentino, o in Mamma Roma in cui, tra i numerosi rimandi, si nota quello esplicito a Mantegna [13]. Spesso i rifermenti sono leggibili con immediatezza, altre volte gli artisti vengono citati nei suoi saggi come fossero un orizzonte sensibile di riferimento: Mantegna, Masaccio, Piero della Francesca, Morandi, i Manieristi. Giulio Carlo Argan (1978) espresse la propria idea sul ruolo del “disegno” nell’opera di Pasolini affermando quanto la sua “grafia” ricalcasse la narrativa: secondo lo storico dell’arte al di sotto delle scelte figurative sussisteva una trama verbale. A conferma dell’unità tra opera e vita (in cui fortissima è la presenza del “corpo” in gioco, del corpo trasgressivo ed eterodosso, pur sussistendo una elaborazione teorica e ideologica), anche solo dall’osservazione dei suoi disegni si scorgeva il profondo intreccio tra il disegno stesso e l’immagine e il pensiero: già sin da Accattone, afferma Argan (ibid.), «i personaggi erano dati come temi iconici, presentati per un istante immobili, e poi messi in moto».
In una fase prossima alla morte, nel 1974, Pasolini affermò che le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti; quelle che pur sapendo di avere dei diritti, ci rinunciano (cosa c’è di più anti-marxiano di ciò?), aggiungendo che sono abbastanza simpatiche quelle persone che lottano per i diritti degli altri. Identificandosi, probabilmente, con quest’ultima categoria, Pasolini parlava di sé e della sua militanza marxista, che consisteva, anche, in una “lotta poetica” per i diritti degli altri, per un cambiamento dello stato delle cose, in un modo assai lontano da quello concepito dall’ortodossia riguardo alla rivoluzione proletaria.
Il 31 ottobre 1975, pochissimi giorni prima di essere assassinato, in una intervista, fu ospite di un programma “Dix De Der”, Tv francese, Antenne 2 [14]; era a Parigi e, in occasione della presentazione in Francia del suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, uscito postumo, in quella sede lo stesso Pasolini rinnegò la sua “trilogia della vita”, Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte (1971-73), esprimendo sfiducia, disperazione e cupezza. Rispondendo all’intervistatore che gli chiedeva se con Salò avrebbe ancora una volta scandalizzato gli spettatori e il mondo culturale, affermava: «Io penso che scandalizzare sia un diritto. Essere scandalizzati è un piacere e chi rifiuta questo è un moralista».
Cosa vuol dire scandalizzare? Sconvolgere le coscienze, con un atto contrario alla morale e al decoro. La parola, dal greco, skandalon, significa pietra d’inciampo, insidia. Una insidia che provoca, che mette di fronte a una crisi, a un ripensamento sul mondo. Pasolini dunque era un ribelle e un militante, che lottava, per «per difendere e conservare, tutte le forme alterne e subalterne di cultura», come affermava nelle Lettere luterane (1975, in: a cura di W. Siti, 1999, I Meridiani, Saggi sulla politica e sulla società), portò anche nel cinema (Fofi, 1995) la forza della provocazione, l’intreccio tra arte e biografia, un corpus esteso di opere che, come egli stesso affermava, non intendevano fornire risposte ma aprire domande.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] In Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto (Schiavo, 2004), vengono definite due categorie, già identificate da D. Cosgrove, in Realtà sociali e spazio simbolico, Unicopli, Milano, 1990: gli outsider e gli insider. I termini designano, rispettivamente un «osservatore esterno» e un individuo «appartenente a un luogo». Il racconto letterario o cinematografico dei luoghi o quello di un abitante non esperto, sono quasi sempre intrecciati con le narrazioni intime di esperienze vissute o immaginate, nel profondo legame con i luoghi: la percezione di essi non è certamente né distaccata, né fredda e la città non può essere sperimentata solo come un astratto territorio da mappare quantitativamente. In un certo senso è l’esperienza stessa che influenza l’interpretazione e la città viene diversamente colta in relazione ai sentimenti di gioia, disagio, dolore, straniamento che il soggetto vive nei luoghi che abita anche solo temporaneamente.
[2] Come afferma Rykwert (2003), infatti, «i sobborghi periferici esistono da quando esistono limiti e i confini delle città». Diversamente declinato a seconda dei contesti geografici e delle fasi storiche «il sobborgo vive per forza di cose a spese della relativa città, come un parassita (…) Solo raramente i sobborghi svilupparono attività produttive agricole o industriali che fossero». Tale tendenza si è invertita negli anni più recenti, da quando le periferie vengono considerate parte integrante della città, divenendo sede di riqualificazione e di nuove centralità.
[3] Tra essi: suburbia, conurbazione, metropoli, megalopoli, post-metropolis, exopolis, rururbanizzazione, città diffusa, metapolis, periurbanizzazione, privatopia, ipercittà (Rufi, 2004; Corboz, 1998). Tali neologismi ridisegnano una nuova unità urbana, diversa dalla precedente. In una certa misura l’obiettivo del neologismo è inglobare nel concetto mutevole di città nuove categorie e fenomeni inediti, come la periferia.
[4] Gli anni ’80, in Italia e in Europa, sono stati caratterizzati da una maggiore proposizione di strumenti complessi che hanno inciso, attraverso progetti circoscritti, su ambiti specifici, spesso periferici. Tali strumenti alcuni dei quali agivano anche in sede più centrale, hanno puntato alla riqualificazione di aree dismesse o marginali, sovente localizzate sui bordi urbani o in aree più esterne. Tali strumenti coniugati a un dibattito sulla periferia hanno in certi casi: decentralizzato, contribuito alla trasformazione del concetto di centro, indotto nuove urbanizzazioni o nuovi abbandoni.
[5] Vd. D. Sudjic, Architettura e potere. Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo, Laterza, Roma-Bari, 2011.
[6] Tale posizione critica rivista a proposito di un autore come Allen Ginsberg (un esempio: My sad self), citato esplicitamente nel 1966, nell’intervista resa a Oriana Fallaci, quando Pasolini andò a NYC; vd. “Un marxista a New York”, in: a cura di W. Siti, 1999, I Meridiani, Saggi sulla politica e sulla società.
[7] Una questione rilevante, presente in tutta la sua vita di poeta e militante, che rimanda anche solo per analogia a numerosi esempi, tra essi la lirica di Vladimir Majakovskij, Il poeta è un operaio (1918), «Ma il lavoro del poeta non è da meno:/ è pesca d’uomini, non di pesci. / Fatica enorme è bruciare agli altiforni,/ temprare i metalli sibilanti./ Ma chi oserà chiamarci pigri?/ Noi limiamo i cervelli con la nostra lingua affilata», in Vladimir Majakovskij, Poesie, Newton Compton, Roma 1994.
[8] La casa è un fulcro ricorrente nell’opera di Pasolini, in termini concreti e simbolici: la baracca, la casa popolare, la casa borghese (ad es. in Teorema, 1968).
[9] Oltre all’inquadratura, pressoché fissa con lievi e strumentali spostamenti (per inquadrare l’edificio delle abitazioni popolari), il parlato del documentario assume un notevole rilievo. Dall’ascolto delle riflessioni di Pasolini emerge oltre alla cifra poetica, la scelta, l’uso, di alcune parole ricorrenti, tra esse: perfezione stilistica; incrinata; rovinata; deturpata; purezza assoluta (riferite proprio alla “forma” della città); dolore; offesa; rabbia (denotative, queste, sia del processo di identificazione empatica con gli stessi luoghi, sia della forte reazione “contro” l’operazione immobiliare).
[10] vd. https://youtu.be/wamU3CxI7bg.
[11] Una serie di corti, in 20 puntate trasmesse nel 2006 su La7.
[12] La formazione di Pasolini non riguardava solo gli aspetti teorici o storico-critici (es. la tesi incompiuta e persa sulla pittura italiana contemporanea) ma era collegata ad abilità sviluppate grazie alla pratica del disegno di paesaggio, soprattutto a Casarsa, da bambino.
[13] Il Cristo morto (Lamento sul Cristo morto o Cristo morto e tre dolenti); temperasu tela, dall’incerta datazione, tra il 1475 e 1478 circa, è conservata a Brera.
[14] https://www.youtube.com/watch?v=TDlFVafsTzg.
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, urbanista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. Tra le sue ultime pubblicazioni, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi, 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.
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