il centro in periferia
di Nicola Grato
Non è purtroppo una novità lo spopolamento in atto nei paesi, nei nostri paesi. Parlo di Villafrati, Mezzojuso, Vicari, Cefalà Diana, Godrano fino a Lercara Friddi e Campofelice di Fitalia, paese oltre il quale non sembra esserci più nulla, estremità di una provincia che sfocia nel mare di terre delle nostre zone, il latifondo siciliano.
Proprio a Campofelice di Fitalia ci è capitato spesso di avere questa sensazione, affacciandoci dalla ringhiera posta alla fine del corso, alla fine del paese: al di là il vecchio Fitalia, oltre una distesa di campi, poi nulla. Le persone per lo più chiuse in casa, poche, residuali. Chi abita in questo paese ha avuto e ancora ha gravissimi problemi di mobilità. La strada che collega Campofelice con Mezzojuso adesso è aperta seppure con una frana nel mezzo, ma per anni è stata chiusa, costringendo gli abitanti di questo paese a compiere vorticose circonvoluzioni per raggiungere lo “scorrimento veloce” Palermo – Agrigento e recarsi così al lavoro, o a fare compere, o a fare sport.
In questo tempo in cui alla parola “paese” nel dibattito pubblico si è sostituita la parola vendibile “borgo”, in questo tempo di “ripresa” dopo la pandemia e di piani nazionali di resilienza, i paesi in realtà muoiono, schiavi di interpretazioni obsolete quando va bene, tendenziose quando va molto male, e di questi fragilissimi organismi fatti di pietre e persone si fa così mercato spregiudicato: occorrerebbe un ripensamento pubblico e democratico sui paesi, una nuova stagione di lavoro strategico, cooperativo, comunitario per guardare con occhi nuovi a queste persone che ancora abitano nei paesi; ripensamento che è, come scrive Rossano Pazzagli, un vero e proprio “ripaesamento”.
Dobbiamo rifuggire quanto di colonialismo culturale esiste in questo PNRR propostoci dall’alto senza ascoltare, ad esempio, chi oggi è nei paesi, vive nei paesi, è visibile da mane a sera nelle strade dei paesi, ovvero gli adolescenti e i bambini. I vecchi fanno comunella tra loro, stanno sulle panchine quando è bello, al circolo quando piove e c’è nebbia intorno, al bar; i bambini stanno a scuola al mattino dal lunedì al venerdì, sabato e domenica il paese è loro: possiamo trovarli nei cortili abbandonati, sulle piazze a giocare al pallone; fanno passeggiate e scoprono nelle campagne case abbandonate e dirute che visitano alla ricerca di tesori, pensando magari ai tanti giochi di ruolo di Play Station o Nintendo. Sono esploratori, ricercatori, scienziati delle passeggiate fuori porta.
I ragazzi dai quattordici anni ai diciotto partono al mattino presto su corriere stipate verso Lercara Friddi, Palermo, Marineo, Corleone: le scuole superiori sono in questi luoghi; alcuni di essi hanno avuto la fortuna di avere una casa a Palermo e lì si trasferiscono per i nove mesi della scuola: non si vedono più in paese. Altri ancora ritornano stanchi alle quattordici, alle sedici: stanchi si infileranno in casa, dove faranno i compiti e magari non metteranno il naso fuori perché è già tardi, è già quasi un altro giorno.
Poi ci sono (cioè, non ci sono) gli universitari, la maggior parte dei quali vive in città: andrà bene se torneranno in estate. I quaranta/cinquantenni lavorano al comune, nell’artigianato (settore edilizio, prevalentemente), nel pubblico insegnamento, o percepiscono il reddito di cittadinanza: stanno poco in giro, quando sono liberi preferiscono prendere l’auto (soprattutto chi non lo fa quotidianamente per recarsi al lavoro in città) e andare via dal paese. poi le comunità di stranieri, alcuni di questi residenti da tanto tempo in questi paesi, altri appena arrivati, altri ancora ospiti di qualche RSA. Fanno comunità tra loro, solo alcuni sono davvero ben integrati nel tessuto sociale, prevalentemente gli adolescenti che trovano nella scuola un luogo aperto di confronto e accoglienza.
Per le strade ci sono loro, i bambini. L’associazionismo in generale non è più attivo come negli anni Novanta e nei primi dieci anni del Duemila: feste, manifestazioni, incontri sono sempre più sporadici. La Chiesa langue, imprigionata in un millenario immobilismo corroborato, oggi, dalla diffidenza manifestata da alcuni dei nostri parroci nei confronti dell’operato di papa Francesco.
C’era un teatro che proponeva rassegne, biblioteche che organizzavano incontri, consulte che aggregavano persone: poi la pandemia. Non dobbiamo però incorrere nell’errore di considerare la pandemia di Covid 19 come la causa dell’assenza di partecipazione culturale e democratica in questi paesi: il Covid è stato un agente acceleratore di processi ampiamente cominciati dopo il 2010, gli anni del grande spopolamento, delle lavagne multimediali nelle scuole e dell’accorpamento degli istituti comprensivi “per risparmiare”. Eppure oggi è proprio la scuola il luogo culturale e civile riconosciuto dai nostri piccoli cittadini: dalla scuola dell’infanzia alla terza media i ragazzi possono fare esperienza di partecipazione democratica, studiare e passare il pomeriggio. Secondo i dati che riporta Marco Rossi-Doria – presidente dell’associazione “Con i bambini” –, un terzo dei bambini e dei ragazzi vive in condizione di esclusione precoce [1]: anche in questi paesi sono pressoché assenti politiche pubbliche comunali attente ai bisogni dei bambini.
«Nelle politiche e nella vulgata giornalistica mainstream – scrive Rossano Pazzagli nel suo saggio “Oltre le mura” contenuto nel libro Contro i borghi – si insiste sul termine insidioso di “ripresa”, ma non è della ripresa che il territorio rurale ha bisogno, almeno non della ripresa dello stesso modello che lo ha marginalizzato, cioè quello basato sulla crescita economica lineare e sul potere ordinatore del mercato. Si sta adottando (ad esempio nei primi bandi legati alle risorse legate al PNRR) all’obiettivo della rigenerazione di comunità fondata sulla riattivazione di relazioni/funzioni produttive e culturali tra paese e campagna…».
La migliore riattivazione delle funzioni e delle relazioni tra paese e campagne la fanno loro, i bambini, che più dei vecchi oramai stanchi e anche sfiduciati vanno nelle campagne, le conoscono metro per metro, recinzione per recinzione. Casa per casa. «Nelle case abbandonate», come scrive Lorenzo Barone, «i ragazzi vanno a giocare a carte», in un certo senso riattivano questi luoghi, seppure per giocarci a carte. A loro, ai ragazzi, abbiamo chiesto cosa fosse per loro il paese: cos’è paese. “Cos’è un paese. Tenere acceso il fuoco” il titolo che abbiamo dato a una lunga discussione avuta con gli studenti di una classe seconda media di Villafrati. Una discussione che abbiamo cercato di rendere aperta e democratica, una discussione che abbiamo fortemente voluto diventasse parola scritta.
Niels Bohr affermava che il contrario della verità non è la menzogna, ma la chiarezza: ne abbiamo fatto esperienza confrontando le diverse posizioni sul proprio paese che i ragazzi argomentavano, dibattevano. In tutte le testimonianze c’è un’ansia di comunità, di fare comunità, un atteggiamento che definiremmo, con Illich, conviviale. Nella loro visione di paese non esiste la dicotomia città/paese, e sì che della città questi ragazzi fanno esperienza, “ci vanno”. Sembrano avere visioni estese, non si accontentano dei resti della festa: a questi ragazzi non interessa il turismo culturale come “volano” del ripopolamento di questi luoghi. Ne abbiamo dibattuto, e con una onestà intellettuale che molti politici non hanno, sanno bene che questi luoghi non attireranno proprio nessuno, nessun turista, nessun nuovo abitante se non per i prezzi bassi di affitti e generi di prima necessità. Hanno dodici anni questi ragazzi, probabilmente muteranno opinione, saranno di avviso diverso fra qualche anno, ma abbiamo notato come ora siano legati sentimentalmente e razionalmente ai loro luoghi, come siano determinati a restare qui, quanto siano spaventati da una possibile partenza per motivi di studio, di lavoro.
Scrive Giorgia Schimmenti: «Un paese non è traffico, non è soldi, né confusione. In un paese non ci sono i ventenni che si divertono, ci sono i ragazzi e i vecchi. Un paese non è grande, tutti si conoscono, i giovani conoscono i vecchi e i vecchi conoscono i giovani». Giuseppe Pollaccia scrive che in paese non c’è il cinema, non ci sono negozi. Ecco, preoccupazione di questi ragazzi sembra quella legata alla circolazione di denaro, ma non nel senso che la mancanza di esercizi commerciali di tipo “cittadino” venga percepita come un problema, ma semplicemente come un dato di fatto: ricordiamoci quanto in questo periodo i negozi di e-commerce abbiano aumentato in maniera esponenziale i propri fatturati e non è difficile incontrare nelle stradine dei nostri paesi, quotidianamente, almeno tre corrieri diversi: recapito pacchi, corrieri in giro per strade e cortili.
Martina Guagenti ha speranza nel futuro del proprio paese, non sopporta chi sta “con le mani in mano” e spera in aiuti provenienti “dall’esterno”. Scrive ancora Maria Ausilia Di Miceli «Un paese è andare a mangiare una pizza insieme ad amici e, dopo l’immancabile gioco a “suona e scappa”, fuggire per non rischiare di farci buttare secchi d’acqua addosso dai vecchietti che subiscono il nostro giochetto. Un paese è stare davanti il “Candy Candy” a parlare e fare balletti su Tik Tok e storie su Instagram. Giocare ad obbligo o verità sui gradini di Amarasco, giocare a nascondino per tutto il paese, fare scherzi divertenti ad alcuni amici o fare tante bellissime sorprese ad altri».
Beatrice Anesetto e Giovanni Grutta stanno attenti agli odori, ce ne sono diversi e tutti importanti; gli odori “marcano” i luoghi, sono molliche di Pollicino, catalizzatori della memoria. Questi ragazzi non pensano che questi odori, questi cibi, possano diventare “vendibili” in futuro, di renderli “attrattive culinarie” per turisti della domenica. Niente, neanche la cucina, nei paesi può esistere se non come rete di relazioni, interscambi, parole: altro che “rappresentazioni” per un pubblico elitario.
«Un paese è quando l’estate tutti i quartieri si riuniscono per sfidarsi a calcio in palestra, a calcio balilla al parco giochi, oppure quando si fanno le gare alla strada larga», scrive Matteo Ribaudo. «Un paese sono i ragazzi che giocano a calcio con un pallone quasi rotto. Un paese è Pino che beve e fuma tutto il giorno standosi al bar a chiacchierare. Un paese sono gli anziani che parlano del più e del meno che passeggiano in piazza facendo avanti e indietro» (Greta Vella). «Un paese è giocare alle figurine con gli amici, e mai voler tornare a casa» (Giuseppe Jaballah). «Uscire la sera andando a comprare un cornetto nell’unico bar del paese. Andare a pallavolo insieme agli amici. Uscire il pomeriggio con le bici passeggiando per il paese. Uscire dalla scuola a piedi correndo per le strade bagnate per la pioggia» (Anastasia Infurna).
«Dopo un po’ arrivavano delle ragazze nel posto, si sedevano e andavano a parlare con un gruppo di ragazzi. Ma la sera andavano a mangiare la pizza con le ragazze ma queste se ne andavano subito così, andavano a giocare a calcio balilla per tanto tempo. Una volta finito di giocare non erano ancora stanchi, cosi andavano suonavano e scappavano dicendo, a seconda a chi suonavano urlavano: PAOLIII, oppure PUMMINDOOO» (Mario Cutropi). «La signora Pina che quando i ragazzi buttano qualcosa a terra grida di buttarla nel cestino, i ragazzi che vanno a casa di qualcuno per giocare a qualcosa, i ragazzi che giocano a calcio balilla. Un paese è la gente che va in campagna a coltivare oppure a pascolare gli animali» (Lorenzo Barone).
«Non è paese quando per una giocata al campo di Villafrati non vogliono fare entrare dei ragazzi e ci entriamo di mezzo noi, quando noi stavamo giocando per i fatti nostri e i genitori dei bambini insultano i nostri senza motivo» (Lorenzo Castelli). «Paese sono i tornei di briscola e trentuno sotto Natale dove finalmente anche i vecchietti avranno qualcosa da fare oltre che stare seduti nelle fredde panchine di ferro a parlare di politica e nient’altro. La piazza è paese, un luogo in cui un po’ tutti si sentono a casa, un luogo sicuro per i bambini che rasserena i genitori» (Anita Bellavia).
«Le nuvole che coprono la cima della montagna Busambra, come un cappello grigio, fanno capire l’arrivo della pioggia. Gli uccellini per strada a terra che beccano le mollichine di pane rimaste da una tovaglia stesa, il venditore ambulante di broccoli che lascia al passaggio un odore sgradevole. L’odore di legna bruciata dai contadini nelle campagne vicine, il fumo che esce dalle canne fumarie delle stufe a legna. Il profumo del pane appena sfornato invade nel tardo pomeriggio le vie del paese. I cani randagi nella notte abbaiano al passaggio di una macchina, rompendo il silenzio» (Sofia Conti).
«Un paese è quando in estate io e Matteo la sera ci sediamo sotto casa nostra a parlare del più e del meno e a fare scherzi ai vicini, oppure a giocare a calcio» (Gaia Barone). «Le giornate brutte dove in giro non c’è nessuno per il paese. Le persone che vanno a fare colazione al bar la mattina, la propria famiglia che accompagnano i propri figli a scuola. Gli amici che si organizzano a mangiare la pizza e farsi un giro la sera per il paese» (Daniele Porcaro). «Quando siamo stanchi andiamo tutti al bar di Giuseppe a berci un po’ d’acqua e restare lì a parlare e raccontarci avventure che abbiamo passato insieme, scherzare e risate a mai finire con le battute che ci raccontiamo a vicenda» (Hellen Lelio).
«Pino che dice di essere un profeta con il foglio della chiesa in mano», scrive Francesca Barbaria; potremmo parlare tanto di Pino, di Totò, di Felice. Di tutte quelle persone che incontri e con le quali discuti anche di cose fuori dal mondo, anche di cose che sono certamente inutili e che richiedono tempo per l’ascolto e noi tempo non ne abbiamo mai. Cos’è un paese? Totò è vecchio, tiene la cheppa sulle spalle; seduto davanti casa sua è il segnatempo di questa via, la vecchia via Ponte chiamata così per l’antica presenza di un ponticello che divideva in due il paese, in tempi recenti intestata alla famiglia dei feudatari palermitani che dominavano questi luoghi. Totò è un bel vecchio, contadino comunista che ha fatto l’assessore negli anni Settanta; nella sua casa in campagna ho imparato a conoscere i primi turbamenti ormonali: calendari Pirelli alle pareti del casotto, quelli che si trovavano anche dal meccanico. Cucina economica dove zio Lillo cucinava per i cacciatori una carbonara regale. Riunioni domenicali con trenta e più persone, cani tutt’intorno, cacciagione, tiro al piattello: su una vecchia rete da letto si arrostivano carni, carciofi. Quanti uomini coi quali parlavo, che vedevo dal basso all’alto e mi parevano giganti; ora sono tutti morti e presenti nella memoria di questo vecchio con la cheppa indosso che ricama i suoi giorni seduto sulla sedia di paglia: ordito le parole, trama le storie che si raccontavano lui e sua moglie Agnese, mio padre, mia madre in quella poca luce pubblica nelle sere d’estate.
Qui in paese, quando passa il funerale, il barbiere cala la saracinesca a metà, lasciando sulla sedia il cliente per portare a spalla la cassa del morto: accompagna fino al semaforo della piazza, poi ritorna e riapre, riprende il suo lavoro. In quest’epoca di profitto, corsa al guadagno e spregio per la vita questo sembra un gesto folle, assurdo. Siamo lontani da questo mistero, siamo sempre pronti a screditare le piccole azioni di bene civile e comunitario in ragione di pretese, scorni personali, rancori. Basta mettere il naso fuori e cercarlo questo bene, che c’è e ci chiede di riconoscerlo.
Cos’è un paese? Novena di Natale, “Il viaggiu dulurusu”, testo composto dal canonico Antonio Diliberto altrimenti noto con lo pseudonimo di Binirittu Annuleri. Canto diffuso in moltissimi paesi, canto/nenia che ognuno intona come può/come sa: tre chitarre e una fisarmonica, chiesa di rito bizantino; il canto scorre come immaginiamo possa scorrere la linfa nelle piante in questo tempo di quasi inverno, lentamente ma con ritmo, promessa di una futura e primaverile rinascita. Pochi fedeli: cantano seguendo il testo da fogli stampati. Nove giorni per una storia che è quella di Giuseppe e Maria – gravida e oramai quasi partoriente – i quali sono chiamati da un “edittu” a censirsi presso Betlemme, città del pane.
All’incanto del canto che culla dolorosamente il bambino nel ventre della Vergine e noi che cantiamo/ascoltiamo corrisponde da qualche parte un piccolo rancore: il “viaggiu” non è cantato secondo i tradizionali moduli adoperati in paese; troppo veloce, troppi strumenti, tradimento. Accade spesso nei paesi: vi sono i custodi della tradizione che tendono a criticare, in nome appunto della Tradizione, qualche piccolo fermento di vita nuova; accade spesso nei paesi di pensare che ciò che si faceva prima sia comunque sempre meglio di ciò che si fa ora: il passato quasi mai entra in relazione col futuro e così si ingenerano immobilismo e rancore, ovvero gli stati d’animo più diffusi nei nostri paesi.
Intanto Giuseppe Cassata pensa alla festa del Crocifisso di Villafrati, e alle bancarelle; Giorgia Schimmenti scrive una poesia sul paese: dal suo come dallo sguardo di questi ragazzi è cominciato il futuro di questi luoghi.
C’è il marciapiede riempito di piante,
e sopra una grande persiana di legno
dalla persiana si affaccia la nonna,
e si sente l’odore della frittura
del piatto preferito dai nipoti.
Se sbatte la palla sul parabrezza
i bambini se la svignano correndo.
Si avvicinano le feste di paese
ed iniziano ad arrivare bancarelle e giostre
ma il portafoglio all’improvviso si svuota.
I panni stesi iniziano a sventolare
perché l’inverno è in arrivo,
se inizia a piovere lo stendino
può stare anche dentro casa.
Dalla campagna l’odore
della carne quasi cotta,
e le voci delle mamme che chiamano…
A Ferragosto
probabile ti arrivi una schiacciata,
mandata dallo zio che ama la pallavolo
e i cani,
Paolo, Luca e Febe
iniziano ad abbaiare.
Dialoghi Mediterranei, n.60, marzo 2023
Note
[1] Cfr il sito internet www.vita.it https://www.vita.it/it/article/2022/12/13/il-pnrr-e-i-giovani-il-punto-su-nidi-scuole-e-dispersione/165119/
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Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”,“larosainpiù”,“Poesia Ultracontemporanea”. Ha svolto il ruolo di drammaturgo per il Teatro del Baglio di Villafrati (PA), scrivendo testi da Bordonaro, D’Arrigo, Giono, Vilardo. Nel 2021 la casa editrice Dammah di Algeri ha tradotto in arabo per la sua collana di poesia la silloge Le cassette di Aznavour. Con Giuseppe Oddo ha recentemente pubblicato Nostra patria è il mondo intero (Ispe edizioni).
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