il centro in periferia
di Nicola Grato
«Mi ricordu ri tutti/ ‘i cosi, puru ‘i cchiù/ minuti./ ‘I boddari ri l’acqua/ quannu chiovi sirratu;/ ‘i aiddi ru focu; ddi culura/ nno scimissu ri me’/ matri…» (Nino De Vita, da Sulità)
Scriviamo queste notizie da Mezzojuso a maggio, mese dei primi calabroni e delle api, degli insetti nel bosco e dei fiori, le scriviamo mentre siamo nella cosiddetta fase 2 avanzata delle misure per il contenimento del temibile coronavirus SARS-COV 2 e della malattia denominata Covid-19.
Anche qui a Mezzojuso in provincia di Palermo è ovviamente arrivato il cosiddetto lockdown: tutto chiuso, tutti chiusi in casa; bisognava riorganizzare anche le cose più ovvie, ad esempio la spesa di generi alimentari e dare un nuovo ordine di priorità alle cose da fare ogni giorno.
Occhi sui cellulari, sui tablet: notizie molte, molte opinioni, le più disparate e disperate. C’era un dato di fatto inoppugnabile: eravamo chiusi. In paese questo è certo un elemento di grandissima novità, perché da sempre i paesi di questo lembo di Sicilia si sono per così dire mischiati, sono avvenuti matrimoni, commerci, scambi; i territori di Mezzojuso e di Villafrati non soltanto confinano ma si compenetrano; così accade per i territori di Villafrati e Cefalà Diana, e così via.
Mancava la compresenza: erano lontani i vivi e lo erano anche i morti, ancora più confinati fuori paese, nei cimiteri desolatamente vuoti. A proposito di cimiteri: in paese andare a trovare i propri cari in cimitero è non soltanto pratica pia, ma soprattutto operazione vitale, esercizio di compresenza nel senso in cui ne ha parlato Aldo Capitini, quale capacità di produrre valori comunitari; non poter fare visita ai morti in cimitero ha provocato angoscia, smarrimento.
Ma bisognava stare confinati: clausura, eremo, confinement come lo hanno chiamato i francesi. Di confino in effetti si è trattato, non in terra altra ma nel nostro paese. Siamo stati costretti a fare nostro malgrado i conti con questo paese vecchio, abbandonato, con le case chiuse. Ma bisognava garantire i cosiddetti servizi, e quindi l’approvvigionamento di viveri, di medicine; bisognava garantire la scuola telematica, la didattica a distanza, espressione che nasconde una cruda verità: didattica dell’emergenza che mai potrà anche solo in parte surrogare la presenza e la figura, stare con gli alunni fisicamente: chiusura è parola che con la scuola ha poco o nulla a che fare.
Nel solco dell’emergenza, per dirla con Montale, abbiamo dovuto organizzare da capo la nostra vita, mentre fuori non passava nessuno, e qualcuno tentava di suonare ai balconi motivetti e marcette alla moda cittadina. Ritorneremo su queste mode, su questi modelli che nei paesi giungono dalle città.
Abbiamo avuto la sensazione di vivere un’esperienza certamente inedita e, almeno nei primissimi giorni di marzo, anche una possibilità aperta: saremo migliori, andrà tutto bene, l’ambiente respira finalmente, delfini nei porti e meduse nei canali di Venezia. Poi sono passati i giorni, la didattica a distanza risultava sempre più problematica, e questo nonostante i comuni di Mezzojuso e Villafrati e l’istituto comprensivo dei nostri comuni abbiano aiutato con interventi concreti le famiglie “a corto di giga” attraverso la distribuzione di schede ricaricabili, tablet, computer; arrivavano per fortuna le medicine regolarmente; qui a Mezzojuso il lavoro della Protezione Civile e dei Carabinieri è stato davvero encomiabile: veniva dato soccorso alle persone anziane impossibilitate ad uscire per fare la spesa o per comprare farmaci. Restava sempre il punto dolente: si stava chiusi, barricati in casa. Ci si doveva giustificare quando si metteva, con difficoltà, il naso fuori. Cose dell’altro mondo, pensavamo.
La lontananza dagli affetti pesava tantissimo, i bambini e i vecchi hanno faticato più di tutti durante questi mesi. Intanto le parrocchie e il Comune organizzavano un carrello alimentare. Nessun caso di Covid-19 in paese, ma cresceva la preoccupazione per il focolaio rinvenuto in una RSA di Villafrati, a due passi da qui: toccherà anche a noi? Domande angoscianti, le risposte alle quali cercavamo nell’interrogazione costante dei giornali on line. Ma eravamo confusi, le notizie si contraddicevano e si sovrapponevano. L’unico criterio era cercare un criterio, che non riuscivamo a trovare.
Ripensavamo a queste parole di Tonino Guerra, contenute nei Sette messaggi al sindaco del mio paese:
«La paura che parte dalla coda velenosa degli scorpioni sta occhieggiando da dietro gli spigoli delle case. Bisogna superare questi spigoli e tornare a fare gruppo in Piazza. La paura è amica dei televisori e dell’egoismo familiare. Mangiamo carne e immagini e intanto la voce che esce dai meccanismi riempie i silenzi tra uomo e donna, tra genitori e figli. Così bisogna tornare dove la parola è ridata alle nostre bocche e le immagini germogliano nella nostra fantasia».
Un luogo dove attivare e coltivare la fantasia è il paese e noi volenti o nolenti, col paese dovevamo confrontarci. Con la sua residualità, con l’abbandono e con lo scoramento. Eravamo pietra arenaria delle case, gesso, roverelle abbandonate, castagneto e insetti che lo rovinano. Eravamo soli in un paese solo, nonostante le connessioni, i legami, le videoconferenze. Le magnifiche sorti e progressive ci toccavano di striscio, come sempre. E allora forse questo può essere stato un tempo propizio per mettere a dimora pensieri, parole, pratiche.
Il poco, il poco del giorno che ci deve bastare. Saremo migliori “dopo”? Mi sento di escluderlo al momento. Mi sento di escludere che la didattica a distanza abbia fatto bene, forse è riuscita a tenere solo un filo molto flebile tra noi e i ragazzi.
Intanto in quei giorni il nostro orizzonte è stato il paese, il poco, l’assenza di scelte (compro la tisana al finocchio, alla menta, allo zenzero?). Non è stato bello, è stato però intellettualmente stimolante, è stato vero: noi e il paese che avevamo dimenticato, il silenzio che non dava pace ma inquietudine, la didattica di emergenza che ci ricordava quanto importante sia stare insieme, guardarci negli occhi, ascoltare un corpo.
La chiusura ha aguzzato l’ingegno per nuove e più umane aperture. Questa situazione che è e deve essere soltanto uno stato di eccezione ha permesso a chi coltivava il proprio orto a Mezzojuso di vendere i prodotti. Magari è un esempio che nulla conta, ma mi piace darne qui conto.
Abbiamo riscoperto le botteghe, quindi non per forza occorre e magari occorrerà prendere l’auto per procacciarsi cibo. L’olio di qui è buono anche a giugno: vi pare poco? Chi vendeva le piantine per fare l’orto si è messo a vendere anche ortaggi freschissimi.
L’isolamento naturale di questo paese, lontano tre chilometri dallo scorrimento veloce coi lavori perennemente in corso, proiettato verso il bosco e verso la quota di Busambra, ha garantito paradossalmente gli abitanti di Mezzojuso, li ha protetti: a Villafrati, sette chilometri di distanza con la presenza di una residenza sanitaria luogo di focolaio, è stata istituita una zona rossa, una delle quattro qui in Sicilia. Villafrati è un paese sulla Statale, tradizionalmente più a contatto con la città, più proteso verso Palermo.
È un dato di fatto: i luoghi meno sviluppati in Italia, il Sud in particolare, hanno dovuto affrontare meno emergenze e per fortuna contare meno morti; è vero anche che alcuni paesini della Lomellina e delle Prealpi sono cosiddetti Covid-free; 186 piccoli e piccolissimi comuni lombardi sono rimasti immuni dal Covid-19. Non la stessa cosa si può dire per le grandi e medie città del Triangolo Industriale sviluppato e iperconnesso. Questo è evidenza, le opportune ricerche e gli approfondimenti che verranno fatti certamente ci forniranno gli strumenti per comprendere appieno questa marcata differenza tra le conseguenze del Covid-19 al Nord e al Sud di questo Paese, ma per ora possediamo soltanto questo dato di evidenza. Un dato di evidenza che dobbiamo far fruttare: questi semi nella mano che possono essere piantati nella terra. Da chi? Da ognuno di noi che lo creda, dal Paese e dalla sua classe politica e intellettuale. Questi semi sono i piccoli paesi, nei quali non dobbiamo cercare prodotti tipici e sagre ma vita, rapporti, mutuo soccorso. E se è vero come abbiamo detto al principio della nostra riflessione che anche qui, anche in un piccolo paese l’onda d’urto della Storia si fa sentire con tutte le sue contraddizioni in termini sociali e culturali, è anche vero che qui possiamo ancora tentare di parlarci, di progettare, di restare. Significherebbe fare tesoro dalla pandemia, a nostro avviso.
Per uno che sempre aspetta la manna dal cielo qui c’è magari qualcuno che ha idee e fantasia, materie queste forse destinate al macero, si obietterà, che si fanno presto disillusione se non vengono poste al centro del discorso culturale e politico. Giustissimo, ma qui in paese, in questo luogo di radicale permanenza è nostro compito convocare le energie, discutere, parlare, capire; da queste periferie può uscire un Paese nuovo, solidale, autenticamente aperto.
Occorre per fare questo essere ben consci che c’è un pericolo sempre in agguato, seppure ben nascosto e ornato di belle parole: considerare il paese come un angulus, un universo ristretto, un locus amoenus del bel tempo che fu: un museo, infine, di buone intenzioni e feste patronali, buon cibo e Tradizioni. Niente di più falso e ipocrita. I paesi risentono, semmai, dell’onda d’urto dei cambiamenti dovuti al capitalismo soffrendone maggiormente rispetto alle città, e questo perché nei paesi si fa fatica a stare al passo coi tempi: dalla città arrivano modelli di vita ma non servizi e non è poco.
Perché, in fine, varrebbe la pena vivere nei paesi di questa Sicilia interna lontana dalle città, mal collegata e abbandonata, in questi luoghi che sono stati ricovero per mafiosi latitanti, in questi paesi i cui campi fanno ancora gola agli speculatori d’ogni natura? Forse perché qui meglio che altrove possiamo ripensare l’uomo, possiamo cioè riprogettare il futuro e tentare seppure faticosamente di vivere.
Vale la pena provarci, quanto meno.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
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Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”, “larosainpiù”, “Poesia Ultracontemporanea”.
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