di Rosy Candiani
Tunisi 2020, Ramadan di confinamento, due mesi di sospensione della vita reale in una bolla dove i suoni arrivano attutiti, i giorni si appiattiscono nella dimensione lineare del giorno prima e del giorno dopo. Tunisi è sempre stata una capitale, frenetica, sfaccettata in mille realtà sociali ed esistenziali, in differenze spesso macroscopiche ma coesistenti, direi armoniosamente, nel contenitore urbano.
Disparità che si manifestano, come epifanie minimali, nei gesti più banali della vita quotidiana, anche dei quartieri popolari: gli “affamati” compratori di un numero di baguettes spropositato per le reali esigenze e consumi, che finiscono per alimentare la montagna di sacchi di spazzatura negli angoli di raccolta, e la povertà dignitosa ma straziante di chi, i “barbécha”, a quegli stessi angoli, nei punti di raccolta della spazzatura, cerca la baguette avanzata, il mozzicone di sigaretta o, preda più ambita, le bottiglie di plastica vuote. Pochi centesimi per una bottiglia fanno un’attività purtroppo ben diffusa, al calar del sole o al mattino presto.
In questi giorni, in cui il balcone di casa diventa spazio vitale di sopravvivenza, di passeggiata, abbronzatura, lettura e sguardo perso verso il mare in lontananza, in cerca di fili che tirino di nuovo i movimenti, gli spostamenti, la vita; giorni in cui le strade sono straordinariamente libere e il silenzio talora assordante, è impossibile non rendersi conto che questi “chouelki”, questa umanità sofferente che vive di rifiuti altrui, sono incredibilmente aumentati. Ormai a cadenza di dieci minuti, ciascuno nella sua fascia oraria tacitamente conquistata, arrivano con la loro “barwita” – la carriola – più o meno folcloristica o tecnologica, e rovistano, cercano, talora con esito fortunato, talora a vuoto.
Si susseguono silenziosi, la vecchina con il fardello debordante che la piega e sommerge, la coppia chiacchiericcia che all’angolo si separa attorno a due isolati contigui, l’uomo corpulento e barbuto… E la mente corre alle letture e arretra nel tempo per scoprire che l’umanità progredisce, si affanna ma resta sempre un po’ uguale a se stessa.
Anno 1936, la Belle Époque e le avvisaglie della crisi mondiale, gli ultimi anni prima della guerra: sul quinto numero della breve avventura editoriale della rivista “umoristica illustrata per tutti” Essourour esce lo sketch “Ech-chouelki” – Il cercatore di spazzatura – un titolo in “derja”, il dialetto tunisino, che fotografa un’attività ancora viva benché trasformata dai tempi: la plastica di oggi era il “choulika”, il tessuto usato di quell’epoca: il termine ora è in disuso, perché oggi un’altra realtà, e un altro termine, si è diffusa capillarmente nella vita tunisina, quella delle bancarelle e degli ambulanti del “frip”.
La breve pièce, senza didascalie, è un dialogo tra due emarginati senza nome, che si ritrovano, come d’abitudine, a rovistare nel deposito di spazzatura all’angolo della strada. La scena è illustrata (come quasi tutti gli articoli della rivista) da una vignetta, realistica e caricaturale al tempo stesso, firmata da “El fhim” – l’intelligente – pseudonimo del pittore Amor Ghrairi. Ne trascrivo la traduzione, prendendomi l’arbitrio di dare un nome ai due anonimi clochards, che chiamo A-Ali- e B-Bechir.
ECH-CHOUELKI “Il cercatore di spazzatura” [1]
ALI – Hai visto che bella immondizia? Accumulata, una meraviglia [2], ma non c’è niente dentro. Dov’è il pattume di un tempo? Era meraviglioso, tu ci trovavi dentro un pezzo di biscotto, una coscia di pollo, un tessuto di buona lana e, una volta, perfino una “chechia” [3] ancora in buono stato e utilizzabile. Qualche volta, nella pattumiera della casa del ministro, trovavo una scatola di tonno vuota che poteva contenere la quantità di un mezzo orcio d’acqua, o ancora delle scarpe nuove, con i lacci, di gran buona qualità, né bucate né screpolate, trovavo un cucchiaio d’argento o un coltello da due franchi. Ma sfortunatamente questa merce è partita.
BECHIR – Questa merce la conservano ora in casa per venderla al robivecchi [4], i tessuti insieme, le bottiglie insieme, la latta insieme …oh ecco un calzone da donna!
ALI – Veramente un calzone da donna? Ma perché l’hanno gettato, è ancora nuovo?!
BECHIR – A causa della moda, perché adesso le donne escono in strada senza calzone. Non le hai viste?
ALI – Tu puoi considerare che le abbia viste, visto che i loro calzoni sono gettati qui…. Una bottiglia di cognac…
BECHIR – E chi l’ha buttata? Forse che gli abitanti del quartiere attualmente bevono cognac? Non ho mai visto nell’immondizia di questo quartiere delle bottiglie, nemmeno latte di pomodori vuote, forse adesso sono diventati bevitori di cognac? E perché non si vendono la bottiglia?
ALI – Certamente chi l’ha gettata sa bene che non può conservarla in casa per venderla, l’ha gettata perché sua madre o suo padre non la scoprano.
BECHIR – E che sua madre e suo padre non bevono cognac? Ma perché non prendi i gusci delle uova?
ALI – E a che servono?
BECHIR – Non sai a cosa servono? Allora lasciali per me.
Ali – Per piacere, dimmi: a che servono?
BECHIR – Ora i venditori di eroina tritano questi gusci in polvere come la farina e mettono su cinquanta grammi un quarto di eroina; e il naso più sottile non può scoprirlo, perché l’odore dei gusci d’uovo è sgradevole, la sua farina brilla e il suo colore è giallastro, esattamente come l’eroina.
ALI – Prendi il libro che è davanti a te!
BECHIR – un libro in arabo!
ALI – Allora, adesso vuoi che gettino un libro in francese!? Io l’altra sera ho trovato dieci libri e non so cosa farci, il droghiere non ha voluto comprarmeli, la libreria pure, anche al souk del rame non ho trovato qualcuno che li prendesse per due soldi.
BECHIR – Amico mio, i musulmani ora disprezzano tutto ciò che è arabo. Tu trovi il giudice del tribunale islamico che porta un turbante grande così, o che dà i suoi corsi alla moschea ma i suoi figli, femmine e maschi, non parlano e non scrivono che in francese.
ALI – In ogni caso, prendi il libro, forse hanno gettato “El Boukhari” [5], può darsi che arrivi il giorno che tu lo leggerai alla luce del lampione.
BECHIR – … questo è il libro di “Rás al Ghul”, la testa del demonio.
ALI – Allora me lo regali?
BECHIR – Tieni e complimenti. La testa del demonio non è utile che a una testa di somaro come te.
ALI – ma allora, dove sono i gatti?
BECHIR – Che c’hanno a fare i poveri gatti? né un pezzetto di pesce, né un pezzo d’osso, tutto il mondo ora fa la cucina vegetariana.
ALI – Dicono che la alimentazione vegetariana rigenera il corpo, la carne, il pesce e le uova lo distruggono e lo rendono malato.
BECHIR – Dammi una buona coscia di agnello, o una grande orata fresca, poi dopo puoi tirare su di me con il cannone, non ascoltare quello che ti dicono i dottori. Perché i Francesi [6] hanno vinto gli altri? Perché mangiano la bistecca, gli arrosti, il riso, le cotolette, e poi ci bevono il vino insieme, escono a cercare di guadagnarsi la vita, realizzano guadagni e profitti. Tu ti mangi un po’ di pasta con l’acqua, cammini strascinando i piedi e dicendo “grazie a Dio”.
ALI – In ogni caso la spazzatura è vuota stasera, non ci sono che le bucce di anguria e melone, quelli che li hanno mangiati le hanno scolpite con i denti e non hanno lasciato niente; guarda che odore nauseabondo.
BECHIR – La lasciamo allora per gli spazzini municipali, quello che abbiamo preso basta.
Nella sua semplicità quasi disarmante, questo atto unico consente diverse prospettive di lettura, a livello di genere, di stile, di meccanismi teatrali, di contenuti e di implicazioni storiche e sociologiche di considerevole interesse. Scritta indubbiamente con intento umoristico, può essere letto come teatro d’evasione, che strizza l’occhio al vaudeville, ma può portare a una ricezione più smaliziata.
Condensati nella dimensione della battuta, rapida come uno schizzo a penna o come una foto istantanea catturata con il cellulare, una serie di quadri della società contemporanea fanno capolino nella dimensione tra fantastico e drammatico del quotidiano. Ripresi con inquadratura dal basso, dai margini della società e dalla visuale dei due personaggi, anche fisicamente chinati nella ricerca nel pattume, si affacciano: la crisi economica attraversata dal ceto medio e piccolo borghese del tempo, ormai ben attento a non sprecare, a riutilizzare o rivendere ogni oggetto del quotidiano, sia pure consunto; il cambiamento dei costumi sociali e le nuove mode ormai diffuse nella vita quotidiana, come l’abbandono dei “calzoni” sotto l’abito da parte delle donne, spesso ormai abbigliate all’occidentale, con le gonne, anche corte; la moda della cucina vegetariana; la diffusione e l’abuso della droga e dell’alcol; e gli effetti socio-ambientali del Protettorato, la ricaduta della dilagante francofonia, soprattutto nella classe medio-alta tunisina, ancorata a ruoli di prestigio dell’establishment musulmano, ma attenta soprattutto alla forma e all’educazione della prole per il suo futuro inserimento ai vertici socio-politici.
I due personaggi del dialogo sono fortemente stilizzati e semplificati in ruoli tipo; in assenza di didascalie, è la vignetta che li descrive, assolvendo alle funzioni di un bozzetto di scena: A-li è il nostalgico dei “bei” tempi passati, un po’ ingenuo e stralunato; B-echir è più giovane e disincantato, più smaliziato sulle novità della società benestante dell’epoca; le loro ombre, proiettate dalla lampada con cui si aiutano nel rovistìo, riportano al mondo animale umanizzato delle favole di Esopo: una testa taurina per A-li e delle zampe di capro per B-echir. Due figure grottesche e patetiche e una rappresentazione deformante delle entità. I tratti rapidi e nervosi della caricatura si sovrappongono esattamente ai tratti dello scrivere breve: in poche e per lo più brevi battute si concentra l’invenzione: l’immaginazione letteraria che trae spunto dall’osservazione diretta del reale, trova poi espressione e viene trasposta nel dialogo teatrale, che condensa due intere esperienze sensibili, due esistenze.
Non è possibile appurare se la brillante invenzione teatrale sia pervenuta sulle scene, ma si trova in perfetta sintonia con la programmazione della Tunisi beldeya tunisina o coloniale francofona, che affollava i teatri cittadini attorno alla centrale Avenue, come il teatro Rossini, le sale estive all’aperto, come il Palace Théâtre al Belvedere, gestiti tra l’altro da italiani: operette, vaudevilles, commedie, melodrammi secondo cartelloni stagionali regolari (Mostrel 2018: 95) [7].
Il teatro comico francese di inizio ‘900 – vaudeville, comédie bien faite, teatro da boulevard – è essenzialmente teatro d’evasione, commedie leggere d’intreccio, con dialoghi serrati, scritte per un pubblico dai gusti tradizionali a cui si rivolge in cerca di complicità e con la capacità infallibile di far ridere, da Labiche a Feydeau.
L’autore della pièce da un lato è conoscitore consumato dei meccanismi della risata, ma nello stesso tempo ha la smaliziata padronanza verbale per far emergere la crudeltà e l’assurdo della realtà quotidiana. Questa pièce come altre pubblicate sul settimanale, nel tono piano, tra ingenuo e stralunato, nello stile piacevole e sorridente, veicola col sorriso sulle labbra la mostruosa dissonanza del reale: folle macchina teatrale, che molto deve ai Feydeau e ai francesi rappresentati a Tunisi, sembra anticipare certi esiti del teatro dell’assurdo degli anni ’50, che porta all’implosione quel genere di teatro comico. Osservando dalla platea con l’occhio dello spettatore A-li e B-echir, il pensiero slitta verso Astragon e Vladimir di En attendant Godot di Beckett, o ai burattini disarticolati di Ionesco e Cocteau.
Vale dunque la pena di tornare a soffermarsi sulla identità dell’autore, certo non una figura secondaria del panorama letterario a Tunisi: capace di osservare i dettagli dell’esistenza umana con una curiosità acuta e benevola, di affidare al dialogo e alla reciproca interazione lo spaccato di una società, di far scaturire il fantastico dal quotidiano più dimesso, attraverso la padronanza dei processi di astrazione e di straniamento da cui scaturisce il comico.
Per quanto anonimo, l’autore di questa micro-pièce è figlio del gruppo di redattori della rivista Essourour [8], un esperimento editoriale salutato con enfasi dal mondo della cultura, ma destinato alla breve esistenza di sei numeri, sicuramente per problemi economici [9] ma forse anche per qualche frecciata di troppo all’establishment del Protettorato: Ali Douagi, Amor Ghrairi, Abderrazak Karabaka, Ali Laabidi, Mahmoud Beiram, ossia i giovani di Taht Essour, il movimento culturale nato attorno al caffè omonimo a Bab Souika, nella parte più popolare ma anche più vivace per attività culturale, musicale, teatrale, editoriale nella Medina.
Radicata nella Tunisi popolare, questa élite di giovani Bohémiens, che condividono ideali e forme di ceatività oltre che le ore trascorse al caffè, è attentissima alla realtà culturalmente cosmopolita dei quartieri europei, in questi anni brillanti e vaporosi: partecipa e diffonde film egiziani ed europei (da Abdelwaheb, pubblicizzato su Essourour, a Chaplin), stagioni d’opera, di operette e vaudevilles, musica e ritmi alla moda da tutto il mondo (tango, bolero, rumba, valzer); elabora progetti audaci; incoraggia attività artistiche (stamperie, sale di feste, negozi di musica d’importazione e di strumenti musicali); sogna un rinnovamento culturale fondato sulla pluralità e la ibridazione delle forme artistiche; sviluppa una letteratura umoristico-sarcastica graffiante e aperta sul mondo.
Di questa generazione curiosa e vivacissima, Ali Douagi è l’esponente di maggior spicco; intelligente e visionario pur nel suo attaccamento disincantato alla realtà quotidiana, poliedrico negli interessi, rivela i suoi molti volti artistici come disegnatore caricaturista, autore di canzoni musicate dai più noti compositori dell’epoca, narratore e drammaturgo, nonché attore e animatore culturale radiofonico [10]. Douagi è l’ideatore, la mente di Essourour: direttore, editore (sua è la tipografia a naj El Mar, a Bab Menara), ideatore del logo della rivista, in puro stile Déco, come le campate e i decori delle facciate dei quartieri franco-italiani, estensore della gran parte dei contributi, alcuni direttamente firmati, altri sotto pseudonimo e, possiamo aggiungere, molti anonimi.
Non sarebbe criticamente attendibile attribuire direttamente “Ech Chouelki” a Douagi, anche perché molti tratti accomunano i contributi dei redattori della rivista. Ma è indubbio che molte caratteristiche di stile e contenuti riportano alla sua poetica e scrittura: l’adesione a un realismo non come astratta teoria, ma come presa diretta sulla vita reale della sua epoca nelle sue differenti identità; una scrittura naturale e lineare, ma non convenzionale, che cerca la messa in ridicolo dei clichés linguistici ed espressivi delle diverse categorie umane e sociali e che mette in scena e mobilita tutti i registri linguistici di espressione, riproduce, come un registratore ante-litteram, le diverse sfumature di pronuncia referenti all’appartenenza sociale o etnica dei suoi personaggi; l’attitudine a trasferire i suoi inizi di disegnatore caricaturista nella sua scrittura: la blague come tecnica di racconto o di scrittura, il ritratto attraverso il cesello della parola e l’attenta individuazione dei particolari caratterizzanti. Douagi inquadra il personaggio con l’occhio del ritrattista: il tratto del disegno si fa racconto, l’attitudine allo schizzo caricaturale si fa narrazione umoristica; la propensione al racconto dialogico e di brevi dimensioni, ossia la drammatizzazione del testo, che diventa stilema di ogni suo scritto, la inserzione del personaggio interlocutore – spalla o antagonista – che sia narrativo, o articolo di giornale o persino le canzoni.
Douagi presenta modestamente se stesso come un «artigiano» del realismo, inteso come sguardo sulla realtà della sua vita; uno sguardo sorridente, apparentemente bonario, aperto al suo lato comico. Ma sovente la comicità di superficie rivela la drammaticità della condizione umana, il sentimento del contrario che genera – pirandellianamente – l’umorismo. Mente carismatica del gruppo, ha influenzato [11] le carriere artistiche degli altri giovani, e basterebbe confrontare i suoi racconti con quelli firmati da Laabidi sulla rivista, o i suoi tratti caricaturistici con quelli di Ghairi. Ma, al di là dei compiti del filologo, e dell’appassionante ricerca dell’attribuzione, nel caso della pièce “Ech Chouelki” è comunque il contenuto a imporsi, la presa istantanea su una realtà minore, marginale, ma dignitosa e persistente, in queste sue caratteristiche, fino alla più contigua realtà dei nostri giorni, che spesso emerge dal suo statuto di invisibile solo nella rarefatta atmosfera di un isolamento pandemico [12].
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
[1] La traduzione in italiano è a mia cura, in collaborazione con Jamel Chabbi, che ringrazio per la disponibilità.
[2] L’espressione in tunisino, «ù khamsa w khmis» è intraducibile, khamsa è la mano di Fatima, che protegge dal malocchio e khmiss è il giovedì, la vigilia del venerdì, giorno di buon auspicio e benedetto. Dunque qualcosa di toccato benevolmente dal destino: da qui la traduzione “una meraviglia”.
[3] «chechia» è il copricapo maschile, rosso o bianco, in feltro , tipico segno di abbigliamento tunisino, di origine andalusa.
[4] In tunisino, «roubabiquia» era l’ambulante che girava per le strade della Medina, gridando “roubabika” per acquistare a niente dalle donne di casa abbigliamento, oggetti usati, che poi rivendeva nei suoi giri. Il termine è evidente trascrizione storpiata dell’italiano (roba vecchia), lingua ben presente, con la sua popolosa comunità, nel sabir parlato nella Medina.
[5] Il libro delle parole di Mohamed.
[6] Il termine «Franje» indica per i Tunisini gli occidentali e i Francesi, ma il contesto e il periodo fanno propendere per una traduzione con Francesi, i colonizzatori del Protettorato.
[7] Una ricchissima documentazione sulla vita teatrale a Tunisi, in fase di studio da parte di chi scrive, si trova tra le carte dell’A.M.I.T., l’Archivio delle Memorie italiane di Tunisi, presso la Società Dante Alighieri.
[8] La rivista è conservata alla Biblioteca Nazionale di Tunisi.
[9] Già una nota editoriale sul numero 4 sollecita il pagamento delle copie vendute ai distributori sul territorio tunisino, in forte ritardo.
[10] Sul primo numero di Essourour, Ali Laabidi dedica un ritratto al direttore della rivista; tra l’altro, definisce Douagi “un museoartistico vivente”: «è un disegnatore, un novelliere, uno scrittore di teatro, uno scultore, uno scrittore di canzoni; e oggi, malgrado tutto, diventa giornalista e proprietario di giornale».
Riferimenti bibliografici
Candiani R. 2019, Dell’identità di Ali Douagi tra marginalità e avanguardia culturale, in “Dialoghi Mediterranei”, numero 37.
Douagi A. 1975, Taht Essour, Madani E. ed., Tunisi: Maison tunisienne d’Edition.
Douagi A. 2010, Oeuvres completes, I. Théâtre, vol.1-2; 2014, II, Comptes, Bakkar Taoufik ed., Tunisi, Imprimerie Finzi.
Mostrel A. 2018, Une saga séfarade, Les Nans: Z4 editions.
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Rosy Candiani, studiosa del teatro e del melodramma, ha pubblicato lavori su Gluck, Mozart e i loro librettisti, su Goldoni, Verdi, la Scapigliatura, sul teatro sacro e la commedia musicale napoletana. Da anni si dedica inoltre a lavori sui legami culturali tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sulle affinità e sulle identità peculiari delle forme artistiche performative. I suoi ultimi contributi riguardano i percorsi del mito, della musica e dei concetti di maternità e identità lungo i secoli e lungo le rotte tra la riva Sud del Mediterraneo e l’Occidente.
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