di Ilaria Giglioli
«La frontiera Stati Uniti-Messico è una ferita aperta dove il Terzo Mondo viene a scontrarsi con il primo e sanguina. E prima che si cicatrizzi, sanguina di nuovo, il sangue vitale di due mondi si mescola per formare un terzo paese – una cultura di frontiera. I confini sono creati per definire i luoghi sicuri e quelli insicuri, per distinguere noi da loro. La frontiera è una linea di divisione, una strisca sottile lungo una ripida scarpata. Una terra di frontiera è un luogo vago e indeterminato creato dal residuo emotivo di una barriera innaturale».
Scriveva queste parole nel 1987 la scrittrice chicana [1] Gloria Anzaldua, nel suo libro semi-autobiografico Borderlands. La Frontiera. The New Mestiza. Scritto in uno stile simile a Fenoglio, mescolando sistematicamente la lingua inglese e quella spagnola, l’opera rappresenta un manifesto della cultura di frontiera, frontiera intesa sia come spazio geografico, sia come una sospensione tra due lingue e sistemi epistemologici di cui l’autrice cerca di creare la sua sintesi. Queste parole, tratte dal primo capitolo del suo libro, mi tornano in mente ogni volta che mi avvicino al punto di attraversamento di San Ysidro, che divide la città di San Diego, California (USA) da Tijuana, Bassa California (Messico). L’autostrada a dieci corsie si interrompe improvvisamente al posto di blocco, uno dei pochi punti in cui si apre una breccia nella barriera costituita da tre muri che segna lafrontiera nelle zone urbane più popolate.
Entrare in Messico, in realtà, è abbastanza facile. A piedi si passa semplicemente un cancello, e in macchina è raro che venga chiesto il passaporto. La facilità con cui si attraversa la frontiera in questa direzione (al ritorno, invece, spesso si arriva a code di due o tre ore) fa dimenticare per un attimo di star attraversando una frontiera internazionale, sebbene la visibilità della economia informale dalla parte messicana, rappresentata da venditori ambulanti di ogni genere, renda subito visibili le differenze giuridico/economiche tra i due lati. Da entrambe le parti della frontiera si ascolta un misto di inglese e di spagnolo, e quello che più colpisce nella folla di persone che si accingono ad attraversare (il punto di attraversamento di San Ysidro è uno dei più attraversati al mondo) è l’assoluta quotidianità di questo movimento. C’è chi vive a Tijuana, e attraversa ogni giorno per andare a scuola o a lavorare, o chi nell’altra direzione, entra a Tijuana per usufruire delle sue numerose farmacie generiche e medici a basso costo, una necessità per molti a causa dei costi del sistema sanitario statunitense.
In realtà, come teorizza l’urbanista di San Diego Teddy Cruz [2], sarebbe più corretto pensare a San Diego-Tijuana come un unico sistema urbano attraversato da una frontiera internazionale. Se Teddy Cruz concepisce questa unità dal punto di vista strutturale ed architettonico, il geografo Michael Dear teorizza un’analoga unità culturale, sostenendo che tra gli Stati Uniti e il Messico si sia creata una “terza-nazione”, un vero e proprio spazio e cultura di frontiera che non corrisponde a nessuno dei due paesi, ma che costituisce un’unità a sè. In effetti, le somiglianze tra i due lati del confine sono notevoli. Se nell’impianto urbanistico di città messicane di frontiera come Tijuana o Mexicali è chiara l’influenza statunitense, inclusi i larghi viali e i centri commerciali, molti di coloro che passano per il punto di attraversamento di San Ysidro sono persone di origine messicana che vivono da entrambi i lati della frontiera.
A primo impatto, il lettore potrebbe pensare che questa somiglianza culturale sia dovuta principalmente a decenni di migrazioni dall’America Latina agli Stati Uniti. In realtà, però, le radici di questa somiglianza sono molto più antiche, collegate alla storia coloniale delle Americhe. Uno slogan che si sente spesso nelle manifestazioni per i diritti dei migranti negli Stati Uniti è “We didn’t cross the border, the border crossed us”, o in altre parole “Non abbiamo attraversato la frontiera, è la frontiera che ci ha attraversati”. L’attuale linea di frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico, infatti, risale al trattato di Guadalupe-Hidalgo, firmato nel 1948 alla fine della guerra messico-americana. Grazie a questo trattato, il Messico cedette circa la metà del proprio territorio agli Stati Uniti (nello specifico, gli Stati di California, Arizona, Nuovo Messico, Nevada, Texas, Utah e parti del Colorado). Questo passaggio territoriale comportò notevoli cambiamenti sociali nelle zone che si trovarono improvvisamente sotto il controllo statunitense, soprattutto con l’arrivo di numerosi pionieri di origine europea legittimati dall’ideologia della Manifest Destiny [3]. Attraverso una combinazione di espropriazioni legali e di violenza diretta, la popolazione chicana residente in questi territori fu così privata a poco a poco delle proprie terre a favore degli anglofoni che arrivavano dall’est, e fu incorporata nell’economia di queste zone come una forza lavoro subordinata [4]. In altre parole, i chicani, senza spostarsi fisicamente, si trovarono improvvisamente in uno status di “cittadini di seconda categoria”.
Per quanto riguarda la frontiera stessa, per anni questa zona di confine rimase relativamente aperta, con controlli di frontiera praticamente inesistenti fino agli anni 20 (la polizia di frontiera fu istituita solo nel 1924). Sebbene ci furono variazioni nelle politiche migratorie nel corso degli anni, la frontiera come problema politico emerse con più forza solamente negli anni 70 [5], e si intensificò fino ad arrivare alla costruzione della prima barriera fisica tra San Diego e Tijuana nel 1993 [6]. L’aspetto attuale della frontiera in questa zona, con tre muri pattugliati costantemente dalla polizia della frontiera, e più recentemente l’uso di droni [7], risale invece alla Secure Fence Act del 2006 che prevedeva un’ulteriore chiusura e controllo della frontiera. Ciò avveniva nel contesto più generale del clima politico post-undici settembre che portava ad un’intensificazione dei controlli sugli ingressi negli Stati Uniti [8].
Nonostante la progressiva fortificazione della frontiera,i movimenti di popolazione tra USA e Messico sono continuati negli anni, spinti anche dall’impoverimento del Messico rurale nel contesto degli accordi NAFTA del 1994 [9], e dalla violenza associata alla guerra contro il narcotraffico.
L’ultima sanatoria migratoria risale al 1986, sotto la presidenza Regan, ma al giorno d’oggi si calcola che ci siano almeno dodici milioni di lavoratori migranti senza documenti residenti negli Stati Uniti (su una popolazione totale di circa 300 milioni di persone). Proprio in questi mesi, la riforma migratoria costituisce uno dei “temi caldi” della politica statunitense, in cui l’attuale proposta presidenziale per un progetto di legge che regolarizzerebbe i migranti indocumentati e allo stesso tempo fortificherebbe ulteriormente la frontiera, rischia proprio di essere bloccata dall’opposizione.
È proprio nel contesto di questo dibattito che le parole di Gloria Anzaldua, le tesi di Teddy Cruz e Michael Dear, e lo slogan “We didn’t cross the border, the border crossed us” acquistano, a mio avviso, particolare significato. Puntano, infatti, a de-naturalizzare l’attuale confine Stati Uniti-Messico in due modi. Da una parte, descrivono il processo attraverso il quale l’attuale frontiera creò un’interruzione in un luogo che era sempre stato caratterizzato dallo scambio e l’interazione, e il modo in cui questo portò alla creazione di una dinamica “noi/loro” ancor prima dei grossi movimenti migratori della seconda metà del ventesimo secolo. Dall’altra parte, sottolineano come questa interdipendenza reciproca tra i due lati della frontiera sia forte ancora oggi.
Ma che contributo può dare la conoscenza della frontiera Stati Uniti-Messico al contesto del Mediterraneo, oggi diventato centro gravitazionale di grandi sommovimenti migratori? A guardar bene, sono tre i principali punti da approfondire che emergono da questo confronto. Tre nodi problematici da cui scaturiscono altrettanti interrogativi. Primo, se la storia coloniale delle Americhe è sicuramente differente da quella mediterranea, tutto il Nord Africa, ed in particolare la Tunisia, fu teatro di migrazioni a sud degli italiani a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Quando ed in che modo, in questa lunga storia di migrazioni, si è venuta a creare l’idea di una differenza “noi-loro” che permane fino ad oggi? Secondo, si può parlare anche nel caso del Mediterraneo di un collegamento tra migrazioni da una parte e interdipendenza politico economica tra Sud Europa e Nord Africa dall’altra? Il terzo punto, forse il meno tangibile, lo rivolgo ai lettori come domanda. Si può pensare a una cultura di frontiera nel Mediterraneo che assomiglia a quella che ho descritto nel contesto dei confini Stati Uniti/Messico?
Dialoghi Mediterranei, n.6, marzo 2014
Note
1 «The US-Mexican border es una herida abierta where the Third World grates against the first and bleeds. And before a scab forms it hemorrhages again, the lifeblood of two worlds merging to form a third country-a border culture. Borders are set up to define the places that are safe and unsafe, to distinguish us from them. A border is a dividing line, a narrow strip along a steep edge. A borderland is a vague and undetermined places created by the emotional residue of an unnatural boundary» [trad. mia]. Chicano (pronunciato cicano) è un termine utilizzato negli Stati Uniti per riferirsi a persone di origine latino-americana nate e socializzate negli Stati Uniti. Il termine si diffuse negli anni 60 grazie al movimento chicano, un movimento politico nel contesto dei movimenti per i diritti civili, tra cui il più conosciuto è il movimento degli afro-americani.
2 Per un’idea delle teorie di Teddy Cruz, il seguente video ne fornisce un’idea introduttiva http://www.youtube.com/watch?v=a01D61-nYRg#t=40.
3 Il termine Manifest Destiny, utilizzato per la prima volta da John Sullivan nel 1845, si riferisce ad un’ideologia politica del diciannovesimo secolo che considera l’espansione statunitense verso ovest, e quindi la diffusione del protestantesimo e dell’economia capitalista, come un processo inevitabile e divinamente sancito.
4 Una descrizione dettagliata dei cambiamenti economico-sociali avvenuti nel sud-ovest degli Stati Uniti è fornita dal libro di Barrera, M. (1979), Race and Class in the Southwest. A theory of racial inequality, University of Notre Dame Press.
5 Vedi Nevins, J. (2002), Operation Gatekeeper. The rise of the “illegal alien” and the making of the U.S.-Mexico boundary, Routledge.
8 Hernandez, R. (2010), Coloniality and Border(ed) Violence: San Diego, San Ysidro and the U-S///Mexico Border, Tesi di dottorato, University of California Berkeley.
9 Per avere un’idea degli effetti degli accordi NAFTA sul settore agricolo messicano, questo articolo presenta uno studio di caso interessante http://www.thenation.com/article/165438/how-us-policies-fueled-mexicos-great-migration?page=0,0