di Luigi Lombardo
La chiesa di S. Sebastiano a Melilli è tra i più importanti santuari della Sicilia. Ogni anno in occasione della festa, fra il 3 e il 4 maggio, a centinaia vi giungono pellegrini da tutta la Sicilia per compiere il “viaggio” e impetrare una grazia. Un tempo molti di questi devoti recavano come offerta un ex voto, realizzato in cera, raffigurante in genere una parte del corpo, per cui si chiedeva la grazia di un miracolo. Gli ex voto di cera di Melilli, oggi esposti in occasione della festa, sono una preziosa testimonianza di un rito, mai per la verità dismesso, ma soprattutto di una produzione artigianale legata alla lavorazione del miele e della cera vergine, oggi quasi del tutto scomparsa. Non dimentichiamo che il nome stesso Melilli pare derivi dalla radice greca melitt-, appunto miele.
Consimili ex voto si offrivano in altre parti della province di Siracusa e Ragusa: Rosolini, Ispica, Ragusa, Scicli, Pachino ecc. Oggi la pratica dell’ex voto in generale è scemata, sostituita dall’offerta di cera sotto forma di torce o candele, del tipo le ntorci di S. Agata a Catania, residuo dell’antica festa della Candelora.
Un tempo la cera vergine d’api aveva un uso straordinario. Non ultimo l’impiego come materia con cui plasmare sculture a tutto tondo o a bassorilievo. Tale particolare impiego è antichissimo. Per non spingerci troppo oltre, basti ricordare che i Romani usavano la cera per modellare figurine votive, da servire per adornare le are domestiche e per particolari pratiche magiche: Orazio ad esempio ci fa sapere che le streghe usavano per i loro sortilegi delle cereae imagines, cioè figure di cera.
Isabela Joyela, “strega”, condannata dal S. Uffizio di Palermo nel 1602, componeva bambole adoperando la cera della torcia pasquale, consegnandola al cliente per indurre una persona ad amarlo. Ancora durante un processo per magarìa viene fuori che un frate predicatore, priore del convento extra moenia alla Zisa di Palermo sapeva confezionare belle statuine di cera vergine, infilzandole con aghi, seppellendole e celebrando messa “dedicata”, con l’intenzione di procurare così la morte di un nemico. Con la cera si modellavano le maschere dei defunti, ma anche particolari statuine adoperate dai ragazzi in un gioco fanciullesco simile ai nostri scacchi, i cosiddetti latruncoli. Di cera erano infine gli ex voto anatomici offerti a diverse divinità per propiziare le guarigioni. Plinio ci informa che tali particolari figure in cera prendevano il nome di cerae pictae, cere dipinte.
La tecnica di lavorazione della cera non si perdette nel Medioevo. Fra l’altro l’uso della cera per illuminare le chiese nel corso di riti e funzioni religiose e la particolare credenza che faceva di essa un prodotto in certo senso sacro, in quanto benedetto dal Signore, favorirono per tutto l’epoca medioevale l’esistenza di una particolare categoria di artigiani, addetti alla sua lavorazione e che andarono sempre più perfezionandosi e specializzandosi nel corso dei secoli. In Sicilia erano noti sin dal sec. XV col nome di cirari. Fra la fine del ‘600 e il ‘700 la cera ebbe un vasto impiego non solo come materia per plasmare le immagini sacre o gli ex voto, ma anche per realizzare particolari anatomici a fini didattico‑scientifici.
É in questo arco temporale che – come è noto – si afferma l’arte ceroplastica del siracusano Giulio Gaetano Zummo, autore di quei modelli anatomici in cera su cui si esercitavano gli studenti di medicina del tempo. La lavorazione della materia, a partire dal ‘700, uscì così dal chiuso di conventi e monasteri per “laicizzarsi”, cioè per orientarsi verso un uso che non fosse solo quello legato alla liturgia o al sacro, o comunque ai “professionisti del sacro”, divenendo un mestiere esercitato da artigiani laici, chiamati, come detto, cirari.
L’arte della ceroplastica era di casa nella provincia di Siracusa: si ha notizia di un ceroplasta, Matteo Durante, siracusano, che nel 1663 realizza in cera un «San Girolamo» dentro una piccola bacheca, firmandola. Egli pare sia stato il maestro dello Zummo. Più note sono le figure di altri ceroplasti: oltre allo Zummo (tra gli altri don Ignazio Macca), opportunamente studiati e valorizzati. Pochissimo, invece, si sa dei cirari, maestri del plasmare la cera e produrre candele.
Tra le cere da loro prodotte spiccavano le figure del Gesù Bambino benedicente o dormiente, e magnifici ex voto, confezionati su richiesta, che spesso avevano avuto come modello proprio una mano o un piede umano (il più delle volte erano quelli del ceroplasta stesso o di un parente).
Alcuni di questi artigiani si chiamavano, perciò, bbamminari o bbamminiddhari, in quanto specializzati nella produzione di bambinelli di cera chiusi dentro bacheche, sulla scia della particolare diffusione del culto al Bambin Gesù e del presepe familiare.
Questi artigiani imitavano le cere prodotte nei monasteri, che si caratterizzano per l’eccezionale ricchezza degli elementi decorativi e la preziosità degli addobbi: stoffe pregiate, perline di cristallo, madreperla e corallo, passamanerie di pizzo ricamate d’oro e argento, broccati e lamine d’oro, paillettes le più stravaganti; e poi conchiglie, rametti di corallo, lamine di rame sbalzato e così via. In quest’ultima particolarissima e pregiatissima produzione si distinsero le monache di Erice, e più in generale i ceroplasti e le ceroplaste del Val di Mazara.
La produzione artigianale ottocentesca popolarizzò l’iconografia del Bambin Gesù in apoteosi, ricorrendo a materiali di supporto più a portata di mano (quale il sughero), più semplici e poveri, e sostituendo alla bacheca-quadro la scarabattola-mobile in stile (scaffarata), sbizzarrendosi nella ricreazione di ambienti naturali con uccelli e pappagalli, conchiglie marine, fontane e pecorelle al pascolo, immersi in una scenografia in cui si introducevano elementi extra liturgici o addirittura anacronistici, come l’arrivo dei Garibaldini, la fontana col dio Nettuno, secondo però una ideologia figurativa fondata sulla attualizzazione nella storia del notissimo mitologema del Bambin Gesù.
Il Bambinello di cera vi appare sempre circondato di fiori multicolori di carta e frutti di cera policromi, fra alberelli di arancio o limone, a imitazione del tipico iardinu siciliano e a suggerire un cosmos pacificato, immagine dell’Eden celestiale. É fin troppo chiaro che in questa produzione l’uso della cera non è casuale, ma determinato dall’aura di sacralità del materiale adoperato.
Naturalmente i due filoni di questa produzione artigiana si incroceranno soprattutto a partire dall’Ottocento, dando luogo ad una produzione quantitativamente assai ricca e varia iconograficamente. Il soggetto più rappresentato, come già detto, fu il Bambin Gesù, u Bamminieddu. Anche le bacheche (scaffarati) si adeguavano alla committenza: dalle semplici imitanti il modesto mobile popolare, alle più ricche “scaffarate” in stile impero o rococò, spesso a colonnine tortili imitanti tempietti o tabernacoli, aperte a vetri su tre lati e dipinte a colori, che riprenderanno le casse nuziali con decori a cuori ed uccelli.
Lo schema descritto si arricchisce particolarmente nella produzione popolare catanese e adranita (di Adrano) in particolare, in cui lo spazio disponibile è occupato da figurine e pastori con un caratteristico “sovraffollamento” iconografico, dove alla ipotassi delle composizioni colte fa riscontro la paratassi spaziale e l’anacronismo del racconto. Tali caratteristiche sono legate certamente alla funzione dell’oggetto negli anni, all’uso culturale cui lo stesso era sottoposto.
Le botteghe dei cirari e dei bbamminiddari riuscirono a soddisfare le continue richieste di una esigente clientela, sfornando lavori che andarono ad arredare i poveri cantarani delle case contadine o le ricche consolles dei borghesi. Nella Sicilia Orientale tra l’altro la ricca produzione di miele e di cera favorì l’arte della ceroplastica. La rappresentazione del Bambin Gesù fu inoltre favorita dal forte incremento che fra Sette e Ottocento ebbe il culto del “Bambinello”.
Anche il catanese fu ricco di botteghe di ceroplasti e mastri cirari: fra tutti il mastro Mariano Cormaci, autore delle teste, mani e braccia per le statue, a grandezza naturale, del presepe di S. Maria della Grotta, vicino Acireale. Come detto, le cere furono realizzate nel 1812 da Mariano Cormaci. Ecco il regesto dell’atto di obbligazione:
«Acireale 27 Agosto 1812, Mariano Cormaci di Acireale si obbliga al canonico don Pasquale Pennisi beneficiato della chiesa di S. Maria della Grotta a formare dodici teste con suoi colli interi e n° 24 mani tutte di diversa fattura, adornarli con capelli, barbette e maschere di cera giusta l’impronta dal Cormaci fatta, compresa anche la testa della Madonna. Il tutto per onze 24».
Fra le botteghe popolari ricordo la bottega della famiglia Toscano ad Adrano, attiva dalla seconda metà del XIX secolo e la cui ultima rappresentante s’è spenta da pochi anni. La signora Toscano, intesa a Bbamminiddara, eseguiva bambinelli di cera, spesso collocati nelle edicole votive del paese o in nicchie ricavate nei muri delle case. A questa famiglia appartiene sicuramente il Gesù Bambino in bacheca conservato fra le collezioni della Casa Museo e pubblicato da Antonino Uccello. A Catania operava un’altra ceroplasta nel quartiere Borgo: modellava cere a soggetto religioso per la cereria Cosentino ed ex voto.
A questo punto accenno alle altre botteghe di cirari che producevano anche ex voto, in quanto di alcune si è occupato assai bene Uccello, mentre di altre, ignote allo studioso, ho potuto raccogliere solo poche notizie. Innanzi tutto la famiglia Mazzerbo, attiva a Ispica e poi a Pachino (SR). A Modica, oltre alle monache di clausura, lavorarono la cera don Salvatore Ammatuna, attivo nella 2a metà del XIX secolo, e don Angelo Strano (1863-1930). A Palazzolo si segnalano Gaetano Infantino, morto nel 1910, e Michelangelo Corritori (1844-1930); a Scicli Guglielmo Arrabito, don Ignazio Conti, don Adriano Manenti, conosciuto come ronn’Arianu u ciraru; a Comiso Giacomo Platania, proveniente da Caltagirone e morto nel 1920; a Chiaramonte don Giuseppe Puccio, figlio del famoso incisore Salvatore; a Ispica don Salvatore Vella e Giovanni Brogna; a S. Croce don Carmelo Zisa; a Monterosso don Bartolomeo Rizza; a Rosolini don Liggi Micieli; a Ragusa don Giovannino Colosi ultimo di una gloriosa stirpe di cirari attivi a Ibla dal ‘700 con bottega nnô çianu i-Ggiesu.
Infine nel 1992 abbiamo individuato a Messina la bottega del ceroplasta Iannelli, la cui arte ha ereditato il figlio. Anche Iannelli ha prodotto per anni bambinelli ed ex voto. Proprio questi piccoli artigiani continuarono a produrre ex voto, alcuni fino agli settanta del ‘900. Poi la produzione cominciò a declinare. La cera fu via via sostituita dalla paraffina e gli ex voto in generale declinarono.
Ora, le foto del fotografo (meglio sarebbe dire etno-fotografo) Nino Privitera ci riportano al mondo dell’ex voto di cera. Si tratta di scatti eseguiti tra la fine degli anni sessanta e i primi anni ottanta, che in gran parte contestualizzano l’ex voto nel corso del rito legato alle feste: di S. Sebastiano a Melilli, di S. Giuseppe a Rosolini e di S. Ciro a Marineo. Gli ex voto riproducono parti del corpo umano, cui la materia, la cera, conferisce un tratto di veridicità, un realismo sorprendente.
Spiccano i cuori, rossi fiammanti, dal forte significato apotropaico, quasi un amuleto a scongiurare un male certo fisico (cardiopatie o altro), ma soprattutto a richiamare col forte simbolismo le forze benigne e rassicuranti. Gli ex voto sono ostentati in una sorta di “parata”, una modalità oggi ancora praticata, ad esempio, per la processione dell’oro della Madonna a Caltabellotta, o per i pani votivi di S. Paolo a Palazzolo: un accumulo di positività, un eccesso di beni nel marasma del moderno, nel sempre incerto futuro delle comunità, oggi più che mai a rischio di dissolvimento, o per meglio dire, che è peggio, di appiattimento.