Quanto mi accingo a esporre non presenta caratteri di sistematicità ma intende suggerire alcuni spunti di riflessione a partire da questioni circoscritte e persino minime [1]. Il contesto di riferimento riguarda l’Eritrea, mio terreno di ricerca da qualche anno, che indago a partire dalla raccolta di storie di vita sulla ‘memoria dell’Italia’ e sui meccanismi della sua costruzione e testualizzazione da parte dei diversi attori della semiosfera asmarina. Il tema generale di questo incontro non è stato per me oggetto di riflessione puntuale e questa comunicazione è ritagliata su materiale raccolto ad Asmara, ripensato sotto altra messa a fuoco. Mi scuso se sarò appunto “erratica” e se i materiali che sottopongo potranno apparire eterogenei.
Darò avvio a questa comunicazione citando un passo di una delle storie che ho raccolto, quella di Giovanni Mazzola, di cui ho già pubblicato e analizzato ampi stralci [2]. Al fine di fornire alcune informazioni essenziali su questo mio interlocutore, dirò che Giovanni Mazzola è un meticcio (figlio di un italiano e un’eritrea), terzo di sei fratelli, nato ad Asmara nel 1940 [3]. Il padre era arrivato ad Asmara nel 1935-36 e vi rimase sino al 1949. Nel racconto di Giovanni la figura paterna è centrale, anzi nella costruzione del ricordo la strategia del racconto si caratterizza proprio per la stratificazione di nessi semantici che si creano tra il padre e gli altri attori della scena. Il passo che vi propongo in questa sede è il seguente:
«[…] Mio padre era venuto qui con il Genio civile, si occupava di costruzioni. Ha progettato vari edifici a Keren, a Gourdat, ad Asmara e si occupava dell’assegnazione delle riserve. Avremmo potuto diventare ricchissimi vista la sua posizione lavorativa. Aveva il compito di assegnare i terreni demaniali, concedendoli ai privati per costruire la casa. Avrebbe potuto dare dunque a ogni suo figlio 1000 mq. di terreno. Una volta diventati grandi noi avremmo potuto costruire, vendere, commerciare, avere un livello di vita abbastanza alto. Invece nostro padre non voleva assolutamente che noi avessimo sfruttato (sic) le ricchezze del Governo abusivamente. La corruzione per lui non andava, cosa che io approvo assolutamente e gli riconosco obiettivamente».
«Mio padre assegnava i terreni ai locali, alcuni accettavano, altri erano perplessi anche perché spesso i terreni erano fuori città, lontano, e si offendevano. Mio padre quando dava questi atti di costruzione stabiliva che prima dovessero costruirsi i servizi, cucina e gabinetto. Solo dopo che aveva verificato personalmente la avvenuta costruzione dei servizi, approvava la continuazione dell’abitazione, con la costruzione del salone e della camera da letto. Io con mio padre andai parecchie volte nelle zone dove svolgeva il suo lavoro, ero piccolo, avevo sei, sette anni e mi ricordo che era un uomo che metteva al primo posto l’igiene. Disapprovava per esempio che le donne lavassero i panni sporchi davanti alla strada e buttassero l’acqua sporca per strada. Qualche volta rovesciava il recipiente dove veniva lavata la roba, e questo l’ho visto io personalmente con i miei occhi».
E aggiunge:
«Trovo che oggi il compito sia più complesso e la responsabilità più pesante rispetto al passato poiché la popolazione è aumentata e l’igiene è andata peggiorando. La popolazione dovrebbe ricevere un’educazione sana e civile sin dalla nascita e capire che l’igiene è la massima cosa, è la madre della salute. Io lo dico a tanti nella lingua locale, ziriet addé tehennah, “l’igiene è la madre della salute”, lo dico a tanti, li convinco, mi reco nei luoghi più sporchi, nei luoghi dove molte persone si schifano di andare. […] lo faccio perché sono convinto che è giusto farlo […]»
È interessante leggere un passo di un’altra storia raccolta ad Asmara. A parlare è un imprenditore italiano arrivato in Eritrea nel 1946 all’età di 17 anni. Il brano è inserito in un contesto narrativo il cui tema riguardava le discriminazioni spaziali, le forme di apartheid, nei confronti degli eritrei (separazione nei mezzi pubblici, nei bar, ecc.). A un certo punto della narrazione, così si esprime il mio interlocutore:
«[…] quando venni qui mi resi conto che in Asmara funzionavano delle linee di autobus per il trasporto civile dove la parte posteriore era riservata, attraverso un separé metallico, non certamente come un cellulare di carcerati – per l’amor di Dio – alla popolazione locale. Ma perché questo? Io mi rifiuto di credere che fosse perché quelli erano neri e noi eravamo bianchi. Era per una questione di igiene, per una questione di scarsa, molto scarsa pulizia, che si avverte anche oggi, per educazione e quanto altro; se vogliamo poi aggiungere anche parassiti, modo di comportarsi, modo di atteggiarsi, modo di mangiare, modo di vestire, beh, tutto questo la diceva lunga … anzi sinceramente, non è che le cose siano cambiate nonostante siano trascorsi sessant’anni… certo, oggi i bianchi ormai sono una minoranza rispetto alla popolazione eritrea ma mi rifiuto di credere che i bianchi possano mai fruire di mezzi di trasporto pubblici, salvo il taxi, ma non certamente il pullman, dove c’è una ressa, una ressa che la dice lunga» (C. G.) [4].
Testimonianza esemplare. Assumendo la forma di una racconto fondato su ricordi personali, la ‘descrizione’ slitta immediatamente su un piano ideologico che si sostiene su molti dei luoghi comuni del ‘discorso’ coloniale. Senza cogliere la non pertinenza del riferimento al “modo di mangiare” rispetto al tema del racconto (la separazione nei mezzi di trasporto), la testimonianza assume la forma perentoria di una elencazione delle ragioni precise, concrete, circostanziate, a suo dire, della separazione, finendo tuttavia con il configurarsi come un malcelato, ostinato rifiuto ad accettare la condizione di componente di una minoranza bianca, italiana, che oramai, da tempo, è solo ospite in un Paese straniero.
D’altro canto, quello della ‘sporcizia’ degli autoctoni è una sorta di topos di molta letteratura coloniale e non solo. Come è stato osservato, dopo la Rivoluzione industriale e in seguito all’affermarsi di certi saperi medici, il “puzzore” diventa tratto distintivo, dispregiativo, delle classi meno abbienti, e in particolare del proletariato, in opposizione alla condizione “inodore” della classe dominante. Una sensazione olfattiva diventa strumento per tracciare confini sociali ed è, ovviamente, sensazione culturalmente determinata, connessa a un mutato contesto e a enunciati discorsivi di saperi/poteri che ridisegnano spazi e segnano confini, a partire dall’odore dei corpi. Una sorta di animalità dell’umano, di ‘naturalità recuperata’, cui si fa appello per riconoscersi tra simili attraverso l’olfatto. Tra simili, appunto. L’olfatto come marcatore di identità, e dunque l’altro puzza sempre.
Le testimonianze sono interessanti perché sono riconducibili al discorso pubblico del potere foucaultianamente inteso. In particolare, il passo di Mazzola riproduce un discorso coloniale in cui il potere si esercita senza l’esercizio diretto della forza. «Un potere, per citare Foucault, che […] non [è] concepito come una proprietà, ma come una strategia, […] i suoi effetti di dominazione non [sono] attribuiti a una ‘appropriazione ma a disposizioni, manovre, tattiche, tecniche, funzionamenti» [5], un potere di natura relazionale, interstiziale, funzionale a un sapere o a saperi che, più che rappresentazioni (consapevoli o inconsapevoli, credenze o opinioni), sono formazioni di enunciati sempre collegate (anche se in modo indiretto) a comportamenti e pratiche istituzionali. Quel discorso è impositivo di un ordine non in termini coercitivi ma facendo assumere a esso l’unica forma possibile, quella del dominatore. Non c’è coercizione ma razionale azione civilizzatrice.
Nella Guida dell’Africa Orientale Italiana della Consociazione Turistica Italiana (quello che era stato e che sarà di nuovo il Touring Club Italiano), edizione del 1938, nella sezione «Avvertenze e Informazioni» al viaggiatore, a proposito delle «Precauzioni igieniche» (p. 19), oltre a consigliare l’assunzione preventiva del chinino per le zone malariche e a dare indicazioni di carattere generale, sul clima, sui morsi di serpenti, sulle pulci, ecc., a un certo punto si legge: «Data la scarsa pulizia e la diffusione di varie malattie tra gli indigeni, si consiglia di limitare i contatti con essi o la permanenza nelle loro capanne al minimo indispensabile». Non è il tipo di informazione in sé che mi interessa, che potrei persino considerare obiettiva, ma il fatto che in una precedente edizione della stessa Guida, in quel momento intitolata Possedimenti e Colonie (Isole Egee, Tripolitania, Cirenaica, Eritrea, Somalia) e in quel momento edita dal Touring Club Italiano (edizione del 1929), la stessa sezione «Avvertenze e Informazioni» riguarda informazioni di carattere logistico (alberghi e ristoranti, indicazione dei Ministeri da cui dipendono le Colonie, elenco degli Istituti ed Enti di Cultura «per l’Istruzione e l’Oriente»), mentre le «precauzioni igieniche» sono indicate nelle pagine di apertura relative alle singole aree geografiche descritte. In relazione all’Eritrea, alla rubrica «Equipaggiamento e precauzioni igieniche» si forniscono minuziosi consigli sul tipo di abbigliamento da privilegiare, si fa riferimento al rischio di febbri (malariche), alla presenza di zanzare, ecc. ma non si fa alcun cenno alla scarsa pulizia degli indigeni. Tra il 1929 e il 1938 qualcosa deve essere cambiato! E gli indigeni devono essere diventati più sporchi! [6].
Vorrei ora soffermarmi su un altro tipo di “fonte”, riguardante la legislazione sull’Istruzione pubblica, «vigente nel Regno e nella Colonia Eritrea per l’istruzione elementare e media …». Il fascicolo è il numero 75, pubblicato ad Asmara, nello Stabilimento Tipografico Coloniale, 1919. Esso consta di 239 pagine e raccoglie le Circolari governatoriali relative all’Istruzione pubblica, i regolamenti, le leggi, i decreti, le norme ministeriali relative appunto all’istruzione elementare e media, in materia d’esami, libri di testo, tasse scolastiche, stato giuridico ed economico degli insegnanti. Contiene anche il decreto istitutivo della scuola tecnica di Asmara (14 ottobre 1917) e le precedenti norme sulla cui base essa è organizzata; e le «Norme riguardanti l’educazione fisica» (legge del 26 dicembre 1909 n. 805, pubblicata nella G.U. dell’8 gennaio 1910, n. 5). È su queste norme che voglio soffermarmi ma prima vorrei citare alcuni passaggi della Circolare del Governatore De Martino (la cui intestazione recita: «Governo dell’Eritrea. Direzione Affari Civili, prot. N. 25640), (Cheren, 31 dicembre 1916), contenuta in apertura del fascicolo.
«Il problema della pubblica istruzione, che nella Madre Patria costituisce soltanto un aspetto dell’attività sociale della pubblica Amministrazione, assume ben maggiore importanza nelle Colonie, ove il risolverlo con provvedimenti efficaci è opera di alta prudenza politica ed insieme doveroso compito verso chi, lontano dalla Patria, lavora per la Sua grandezza e la Sua prosperità: esso infatti deve considerarsi differentemente nei riguardi dei sudditi nazionali e nei riguardi degli indigeni nativi.
In Italia, oltre la scuola e la famiglia, è supremo fattore di educazione e di coltura l’ambiente in cui continuamente si trova a vivere il fanciullo: letture, avvenimenti, esempi di vita vissuta, conferenze, teatri, giornali, pratica quotidiana con altri più colti, sentimento di emulazione, tutto questo ed altro ancora coopera con la famiglia e con la scuola per dotare l’animo e la mente di quegli elementi che formano l’educazione degli uomini civili.
Le anime giovinette entrano nella scuola inconsciamente preparate dalla vita sociale e familiare e ne seguono gli insegnamenti già mature al compito che è loro richiesto.
In Colonia, no.
Nel fanciullo che frequenta per la prima volta una scuola, vissuto prima di allora nella piena libertà dei campi e nelle vie, a continuo contatto con indigeni, in un ambiente ove per forza di cose mancano quegli elementi educativi che invece abbondano in Patria, debbono compiutamente formarsi, anzi rifarsi l’animo e la mente.
[…] D’altra parte il problema è ugualmente importante nei riguardi degli indigeni.
È avveduta opera di saggezza politica avvincere quanto è più possibile a noi le nuove generazioni di sudditi coloniali, che, nati sotto la nostra bandiera, debbono presto imparare ad apprezzare i benefizi e ad ammirarne il prestigio: ma tali sentimenti non si possono suscitare se non si ottiene prima un miglioramento intellettuale e morale nella media delle popolazioni, miglioramento che solo potrà cominciare a far sentire il distacco tra una sudditanza avviata al vivere civile, e l’informe agglomerazione sociale semibarbara di cui è ancora esempio tangibile l’indigeno nato e vivente fuori dai confini della Colonia» […].
Per quanto riguarda l’organizzazione delle scuole, leggiamo:
«L’ordinamento scolastico dell’Eritrea comprende, fino ad ora, per i sudditi nazionali e assimilati, una scuola governativa in Asmara che si estende dalla prima alla sesta classe elementare e, in Asmara stessa e negli altri centri abitati, parecchie scuole private, dovute all’iniziativa del Vicariato Apostolico”. Segue l’indicazione di una serie dettagliata di atti legislativi, regolamenti e decreti cui gli organi preposti all’istruzione in Colonia dovranno attenersi, responsabili anche di vigilare sul corretto svolgimento dei programmi scolastici e degli esami alla fine del ciclo di studi».
Il testo poi continua così:
«Non altrimenti assidua deve essere la cura delle SS.LL. per l’istruzione degli indigeni.
Non è soltanto doverosa missione di civiltà che lo consiglia ma, ripeto, alta ragione politica».
Segue l’indicazione delle scuole istituite dal Governo in diverse città eritree gestite anche con il concorso della Missione Cattolica. Si tratta di scuole bilingue di arti e mestieri rispetto alle quali si raccomanda ai commissari di vigilare e, in particolare, si chiede loro di inviare «ogni due mesi, alla direzione affari civili un succinto rapporto riflettente specialmente l’andamento degli studi, la disciplina, le condizioni d’igiene».
Il governatore De Martino, pur rilevando che «le scuole d’arti e mestieri continueranno ad essere i centri e i mezzi principali per l’istruzione degli indigeni», auspica che «siano in ogni modo e con ogni mezzo favorite tutte quelle altre istituzioni e iniziative dalle quali possa trarsi un vantaggio per il pubblico servizio in oggetto». E conclude: «Le SS.LL. vorranno infine curare che gli indigeni ammessi nelle scuole private svolgano un programma proprio, ben distinto da quello dei nazionali e stranieri assimilati» e raccomanda che un certo programma già approvato, indicato come modello, della durata quadriennale, «sia condensato nei primi tre anni di scuole elementari, il che è reso possibile dal fatto che in queste ultime mancano naturalmente gl’insegnamenti delle lingue indigene e delle arti e mestieri» (cioè: nelle scuole elementari frequentate dai «sudditi nazionali e assimilati» non si insegnano le lingue indigene né arti e mestieri).
Questo per quanto riguarda la Circolare introduttiva. Riguardo alle norme relative all’educazione fisica, esse comprendono 14 articoli della L. del 26 dicembre 1909, le norme per l’attuazione di tale legge, la Circolare Ministeriale del 29 dicembre 1911 relativa alle «Istruzioni per l’Educazione fisica nelle scuole medie», il D.R. 26 novembre 1893 relativo ai programmi per l’educazione fisica nelle scuole del Regno, per le scuole secondarie di primo grado e per le scuole elementari; la Circolare Ministeriale del 16 novembre 1910, n. 57, riguardante l’educazione fisica nelle scuole medie. In tutto si tratta di 20 pagine contenenti indicazioni di vario tipo.
L’art. 1 sancisce come obbligatorio un corso di educazione fisica in ogni scuola pubblica primaria e media, maschile e femminile. L’autorità scolastica locale, prima di concedere i permessi per l’apertura di scuole private, deve accertarsi che si sia «provveduto a norma di legge anche per quanto riguarda l’educazione fisica» (p. 201). L’art. 2 recita: «L’educazione fisica comprende: la ginnastica propriamente detta, i giuochi ginnici, il tiro e segno, il canto corale e gli altri esercizi educativi atti a rinvigorire il corpo e a formare il carattere» (p. 201; corsivo mio).
Nelle scuole elementari bisogna destinare all’educazione fisica almeno mezz’ora al giorno. Nelle scuole medie non meno di tre ore a settimana. Almeno una volta al mese (art. 4) gli alunni devono fare «passeggiate ginnastiche, aventi anche interesse storico, scientifico, artistico». Sulle passeggiate torna la Circolare ministeriale fissandone minuziosamente le modalità di organiz- zazione. Nessun alunno potrà essere promosso alla classe successiva «senza la nota di frequenza, di profitto e di buona condotta nell’educazione fisica» (art. 5). Ogni edificio scolastico deve essere dotato di palestra coperta e di un’area scoperta per i giochi (art. 7).
Nel D. R. si forniscono indicazioni molto minuziose sul tipo di esercizida far fare agli allievi. Essi vengono suddivisi in esercizi ordinativi, che «potranno essere sul tipo di quelli militari che sono così semplici e conosciuti» (p. 215); esercizi elementari (con il bastone di ferro del peso di 2 kg.; esercizi di impugnatura e di rovescio, ecc.); esercizi di locomozione (marcia, corsa, sugli antipiedi con le ginocchia rigide, sugli antipiedi piegando le ginocchia, a passo slanciato, marcia e corsa collettiva per quadriglie e in ordine sparso); salto (e in dettaglio si indica il tipo di salto, l’altezza dell’ostacolo, ecc.); arrampicare (con l’indicazione della dimensione del palco di salita, della lunghezza e del diametro della pertica e della fune); equilibrio; appoggio. In particolare, poi, viene indicato il programma dettagliato per le scuole elementari: «appoggio – Il ragazzo deve imparare a reggere il proprio corpo con le braccia; a parare le cadute, ad aiutare con esse gli arti inferiori per balzare in piedi»; «è indispensabile [far] esercitare la scolaresca nell’appoggio sulle braccia» (e si indica l’attrezzo da utilizzare e come). «Giochi ginnici (e si fornisce un elenco: tiro alla fune; getto della palla di ferro (kg. 10); la corsa di gara; il salto sommato; la caccia al tre; i trampoli; vello d’oro; le bandiere o barriere; lotta alla leva; lotta alle grucce doppie; disco o ruzzola a mano e con la cinghia; palla, palloncello e palla a striscio; bocce, buchette; allarme da pedone e da cavaliere; la scalata; bersaglio ai fantocci e con la balestra). «Passeggiate» (e i dettagli tecnici e persino i consigli per la refezione: «è debito raccomandare che la refezione sia tenuta dentro tali limiti da essere veramente frugale. Quindi non si deve ammettere il sedere a mensa come a un pranzo: i brindisi, i discorsi, i telegrammi, ecc., devono considerarsi fuor di posto: soltanto la semplicità e la frugalità sono cose che la scuola deve coltivare» (p. 219); infine «bagno e nuoto».
C’è, come abbiamo visto, un’attenzione oserei dire maniacale nei confronti dell’educazione fisica il cui scopo è, come abbiamo letto, non solo «rinvigorire il corpo» ma anche «formare il carattere». Di nuovo, mi viene in soccorso Foucault e la sua idea di soggetto quale risultante di processi molteplici e contingenti, fondati su formazioni discorsive eterogenee che permettono di costruire l’oggetto di un sapere (che nel nostro caso potrebbe essere il ‘benessere’, l’equilibrio psico-fisico), e di individuare un dispositivo istituzionale (la scuola, nel nostro caso) all’interno del quale l’oggetto del sapere diventa anche l’oggetto di una prassi determinata, regolare (l’educazione fisica come materia scolastica, nel nostro caso). Mi sembra che i documenti che abbiamo letto possano costituire un ulteriore esempio del fatto, oramai acquisito, che la produzione di un sapere è inseparabile dall’intervento (che, come Foucault ha mostrato, può essere di tipo coercitivo, disciplinare, educativo, terapeutico) di una pratica non-discorsiva.
Soggetto e corpo vengono posti come una unità indissolubile che risulta da un lento e costante lavorìo del potere, finalizzato a stabilire una soglia tra la normalità e l’insano, la malattia, la follia, la devianza, la criminalità. Nella fattispecie, mi sembra pertinente far ricorso al concetto di «corpo docile», su cui ragiona Foucault in Sorvegliare e punire (1993: 147-185), il cui prototipo è il soldato. Scrive: «Il soldato è, prima di tutto, qualcuno che si riconosce da lontano; egli porta dei segni: i segni naturali del vigore e del coraggio, impronte della sua fierezza. Il corpo è il blasone della sua forza e del suo ardimento; e, se è vero ch’egli deve apprendere il mestiere delle armi a poco a poco […] esercizi come la marcia e attitudini come il portamento della testa derivano in gran parte da una retorica corporale dell’onore» (p. 147). Il soldato «si fabbrica». «Da una pasta informe, da un corpo inetto si è creata la macchina di cui si ha bisogno; sono state a poco a poco raddrizzate le posture; lentamente, una costrizione calcolata percorre ogni parte del corpo, se ne impadronisce, dà forma all’insieme […]» (ivi). L’attenzione al corpo «che si manipola, che si allena, che obbedisce, che risponde, che diviene abile» (p. 148) non è una novità e ogni società, come sappiamo bene, scrive sul corpo dei suoi componenti i segni dell’appartenenza. Su questo non è qui il caso di insistere.
Tuttavia, che cosa, secondo Foucault, cambia, a partire dal XVIII secolo?: «Prima di tutto, la scala del controllo: non si tratta di intervenire sul corpo in massa, all’ingrosso, come fosse un’unità indissociabile, ma di lavorarlo nel dettaglio; di esercitare su di esso una coercizione a lungo mantenuta, di assicurare delle prese al livello stesso della meccanica – movimenti, gesti, attitudini, rapidità: potere infinitesimale sul corpo attivo. […] La costrizione verte sulle forze piuttosto che sui segni; la sola cerimonia veramente importante, è quella dell’esercizio. Infine, la modalità: essa implica una coercizione ininterrotta, costante, che veglia sui processi dell’attività piuttosto che sul suo risultato e si esercita secondo una codificazione che suddivide in rigidi settori il tempo, lo spazio, i movimenti. Metodi che permettono il controllo minuzioso delle operazioni del corpo, che assicurano l’assoggettamento costante delle sue forze ed impongono loro un rapporto di docilità-utilità: è questo ciò che possiamo chiamare ‘le discipline’» (p. 149). «Molti dei procedimenti disciplinari esistevano da lungo tempo – continua Foucault – ma le discipline divennero nel corso del XVII e XVIII secolo formule generali di dominazione. […] Prende forma allora, una politica di coercizioni che sono un lavoro sul corpo, una manipolazione calcolata dei suoi elementi, dei suoi gesti, dei suoi comportamenti. Il corpo umano entra in un ingranaggio di potere che lo fruga, lo disarticola, lo ricompone. Una ‘anatomia politica’, che è anche una ‘meccanica del potere’, va nascendo. Essa definisce come si può fare presa sui corpi degli altri non semplicemente perché facciano ciò che il potere desidera, ma perché operino come esso vuole, con le tecniche e secondo la rapidità e l’efficacia che esso determina» (pp. 149-150).
Questa «anatomia politica del dettaglio», questa «microfisica del potere» rivolta all’animo e alla mente (come De Martino ripete più volte nelle pagine della Circolare di apertura), questa educazione non solo fisica (abbiamo letto all’art. 2 che «l’educazione fisica comprende: la ginnastica propriamente detta, i giuochi ginnici, il tiro e segno, il canto corale»), questi esercizi «atti a rinvigorire il corpo e a formare il carattere» (e ‘carattere’ è sinonimo di ‘anima’ e ‘mente’), questa «tecnologia del potere sul corpo», producono un’anima, appunto, «in permanenza, intorno, alla superficie, all’interno del corpo, mediante il funzionamento di un potere che si esercita» non solo «su coloro che vengono puniti» (osservatorio privilegiato da Foucault), ma anche, più in generale, come Foucault stesso osserva, «sui bambini, gli scolari, i colonizzati», in sostanza «su quelli che vengono legati ad un apparato di produzione e di controllo lungo tutta la loro esistenza» (Foucault 1993: 33). L’anima di questi individui, così forgiata, «è l’elemento dove si articolano gli effetti di un certo tipo di potere e il riferimento di un sapere, l’ingranaggio per mezzo del quale le relazioni di potere danno luogo a un sapere possibile e il sapere rinnova e rinforza gli effetti del potere» (ivi).
Fatta eccezione per la frase «D’altra parte il problema è ugualmente importante nei riguardi degli indigeni», messa lì, probabilmente, per mera opportunità politica, mi sembra che l’esercizio di questo potere sia finalizzato a costruire «sudditi nazionali», «una sudditanza avviata al vivere civile» e la maniacalità che rilevavo prima è tanto più necessaria in quanto in Colonia è necessario e urgente contenere i danni che lo «stato di natura» che essa rappresenta, può causare ai «fanciulli» («Nel fanciullo che frequenta per la prima volta una scuola, vissuto prima di allora nella piena libertà dei campi e nelle vie, a continuo contatto con indigeni»), e lavorare affinché si formino «compiutamente» anzi «si rifacciano» l’animo e la mente. È tra questi infatti che troveremo i futuri dirigenti della Colonia, è tra questi rappresentanti del potere bianco che sentiremo dire che l’indigeno è sporco, sempre più sporco.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Note
[1] Relazione presentata in occasione del Quinto seminario tematico della Società italiana di Antropologia medica, sul tema “Psichiatria e politiche sanitarie dell’Italia coloniale”, Roma, Real Academia de España, 13-14 giugno 2008. Ringrazio il professor Tullio Seppilli per il cortese invito a partecipare.
[2] Cfr. Archivio Antropologico Mediterraneo, anno V/VII (2002-2004), n. 5-7: 115-130, e anno VIII/IX (2005-2007), n. 8-9: 47-60. Queste analisi sono state successivamente rielaborate e incluse in G. D’Agostino, Altre storie. Memoria dell’Italia in Eritrea, Bologna, ArchetipoLibri 2012.
[3] Ho appreso in questi giorni che Giovanni Mazzola ci ha lasciati. Mi rammarico di non aver più avuto la possibilità di tornare ad Asmara e di rivederlo. A Maria Mazzola e ai suoi figli, il mio abbraccio più affettuoso.
[4] Scelgo, in questo caso, di non rivelare il nome dell’interlocutore.
[5] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi: 30.
[6] Le leggi razziali del 1938, in Colonia furono precedute da alcuni provvedimenti, relativi anche al diritto privato e di famiglia, incentrati sulla “prova della razza”. L’ «Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia» (L. 6 luglio 1933, n. 999) è incentrato sulla «prova della razza» non solo per la determinazione dei meticci ma più in generale per la determinazione dello status giuridico delle persone. Il criterio del sangue stabilito dall’ascendenza diventa criterio di accertamento per la classificazione degli individui. L’essere nativo coincide con la qualità giuridica di suddito, nel testo non si riportano disposizioni volte a regolamentare l’acquisizione della cittadinanza da parte dei sudditi indigeni, sembrerebbe dunque intenzionale escludere la possibilità che sudditi indigeni diventino cittadini italiani. Nel 1936 viene promulgato l’«Ordinamento e Amministrazione dell’Africa Orientale Italiana» (R.D.L. 1 giugno 1936, n. 1019). Esso prevede che l’individuazione della razza d’appartenenza per il figlio di ignoti sia subordinata all’evidenza che i caratteri fisici dell’individuo in questione derivino dall’appartenenza alla razza bianca di entrambi i genitori (art. 30). Se nell’Ordinamento del ’33, è previsto che la cittadinanza possa essere richiesta per quei figli di ignoti, o illegittimi, che alla prova della razza fossero risultati meticci, la legge del ’36 elimina questa possibilità; anzi, in questa legge dei meticci non si parlerà mai in modo esplicito. Tacendo su una realtà concreta e scegliendo dunque di non regolamentarla, viene sancita la netta separazione tra italiani e sudditi, eliminando il problema dei meticci, ibridi per definizione, che per le classificazioni costituiscono sempre un problema. Anzi, con la successiva legge del 30 dicembre 1937 (n. 2590) vengono previste «Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e sudditi» e la punizione riguarderà solo il cittadino, dal momento che la consapevolezza della lesione del prestigio della razza può aversi solo dalla «persona di più elevata civiltà» (cit. in Sorgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali antirazziali nella Colonia Eritrea (1890-1941), Napoli, Liguori, 1998: 153).
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Gabriella D’Agostino, antropologa, insegna Antropologia culturale nell’Università di Palermo. È direttore responsabile del semestrale di scienze umane, Archivio Antropologico Mediterraneo, e direttore scientifico del festival internazionale di documentari, Sole Luna Doc Film Festival. Tra i suoi lavori più recenti: Altre storie. Memoria dell’Italia in Eritrea (Archetipolibri 2012); la curatela dell’edizione italiana del libro di T. Todorov, Una vita da passatore. Conversazione con C. Portevin (Sellerio 2010), la Prefazione e la curatela dell’edizione italiana (con V. Matera) di R. H. Robbins, Antropologia. Un approccio per problemi (Utet 2009, 2a ed. 2015); Sottotraccia. Percorsi tra antropologia e contemporaneità (Bonanno 2016)
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