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Da Armungia, appunti in tempi di coronavirus

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Armungia, una via del centro storico

il centro in periferia

di Alberto Cabboi

Ho scritto e condiviso queste riflessioni a distanza di tempo, vedendo quanto la percezione di ciò che accadeva fosse profondamente differente nelle nostre piccole comunità rispetto al racconto complessivo che ci veniva restituito dagli organi di informazione. E, a posteriori, mi pare compongano quasi un unico pensiero su come la narrazione complessiva dei molteplici fenomeni connessi al nostro vivere comune sia sostanzialmente legata all’ottica dei grandi centri urbani. Naturalmente, non ho toccato temi e problematiche pure molto importanti, come quello del divario digitale che divide gli abitanti delle città da quelli dei paesi, emerso in tutta la sua evidenza nel momento in cui si è ad esempio imposto il ricorso alla rete per garantire una qualche forma di continuità nella didattica e nell’apprendimento per i ragazzi in età scolare.

Ecco le mie riflessioni

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Armungia, veduta sull’abitato e sul nuraghe

12 marzo 2020

Ad Armungia, fino a qualche giorno fa potevi andare a fare la spesa nelle piccole botteghe del paese, prenderti cura dell’orto o del giardino, fare una passeggiata in campagna, andare al tabacchino da Gigi, andare al bar da Cristof. Adesso puoi fare la spesa nelle piccole botteghe del paese, prenderti cura dell’orto o del giardino, fare una passeggiata in campagna, andare al tabacchino da Gigi. Ecco purtroppo abbiamo momentaneamente perso la possibilità di andare al bar da Cristof. E come ad Armungia, così in altre migliaia di piccoli centri della nostra penisola e delle nostre isole. L’ossessione del tempo sospeso, dell’incapacità di fare a meno del ritmo frenetico di una vita fatta di incolonnamenti in mezzo al traffico, di acquisti, di cinema, di ristoranti, è infatti tipicamente cittadina, di chi vive in centri urbani sempre più grandi, caotici, divoratori di energie che arrivano da un altrove non meglio precisato. E infatti sono abitanti delle città quelli che girano sbalorditi a fotografare città deserte, quasi increduli che una vita senza macchine, grida, frastuono, gente ovunque, sia davvero concepibile per un essere umano.

A fare un giro nei nostri piccoli centri, dimenticati tra gli Appennini o nell’entroterra della Sardegna, destinati secondo gli studiosi a scomparire nel giro di pochi decenni, si trovano davvero poche differenze rispetto a dieci o venti giorni fa. Segno tangibile di come queste minuscole realtà siano abituate a vivere con meno, a stare senza cose non indispensabili, ad accontentarsi in misura maggiore dell’essenziale. In questi momenti drammatici che stiamo vivendo, oltre a continuare a collaborare tutti per superare l’emergenza potremmo quindi, forse, qualcosa di utile in più. E impegnare il nostro tempo in modo proficuo anche per riflettere su noi stessi, su tutto ciò che di superfluo abbiamo nelle nostre vite. E interrogarci sul destino che ci attende e che vogliamo costruire per il nostro futuro

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Armungia, centro storico

19 maggio 2020

E dunque il racconto della “quarantena” si conclude così com’era cominciato. Se la fermata si accompagnava all’incredulità di giornalisti e cittadini sbalorditi di fronte al silenzio improvviso delle grandi città, alle loro strade vuote, così la ripartenza è il rumore rassicurante del traffico che riprende, le folle nelle vie centrali per la riapertura dei negozi, il ritorno sui Navigli per l’aperitivo. In mezzo, i canti dai balconi dei palazzi di città, i filmati di animali che si appropriano di spazi cittadini, i commercianti delle città che protestano per poter riaprire, i sindaci delle città che provano a scommettere su forme di mobilità alternative. Si fosse visto un giornalista recarsi in un piccolo Comune di provincia a chiedere a un barista quale significato potesse avere per la comunità la sua riapertura, o a un medico di famiglia dello stesso Comune come avesse operato di fronte all’emergenza sanitaria, sarebbe certamente finito tra le categorie dei tipi strambi a caccia di stramberie. Si legge qualche intervista a qualche sociologo, o architetto, convinto sostenitore della tesi dell’inevitabile rivincita delle campagne, ma il grande racconto dell’Italia dalla città comincia, sulla città si concentra e dalla città non sembra muoversi. Per chi si è interessato all’argomento, non sarà stato difficile neppure imbattersi in qualche urbanista intento a sostenere la necessità di ripensare gli insediamenti secondo i nuovi criteri delle città – sempre città appunto – “estese”, “allargate” e persino “diffuse”. Le città riaprono e quindi riapre il Paese, quasi che esse siano un’entità totalizzante, l’unica dimensione che ha senso raccontare e in cui l’individuo pare aver senso di esistere.

Eppure, se ci si ferma un attimo a guardare la realtà dei numeri, si scopre che in Italia ben 5.500 Comuni hanno meno di 5.000 abitanti, il 69 per cento del totale. E che i Comuni con bassa urbanizzazione, quelli che più somigliano alla campagna, coprono per estensione territoriale più del 70 per cento del territorio nazionale pur rappresentando soltanto il 25 per cento della popolazione. In pratica due terzi abbondanti del nostro territorio sono più o meno invisibili, continuano largamente a sfuggire alla narrazione di questo Paese e quindi inevitabilmente a un discorso sulle sue prospettive.

Dialoghi Mediterranei, n.44, luglio 2020

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Alberto Cabboi, nel 2011 ha conseguito la laurea specialistica in Scienze Politiche, con tesi di ricerca in Storia della Sardegna contemporanea. Dal 2006 lavora presso il Sistema Museale di Armungia, comprendente l’area archeologica del Nuraghe Armungia, il Museo etnografico “Sa Domu de is Ainas”, la Bottega del fabbro e, dal 2009, il Museo storico “Emilio e Joyce Lussu”. Si occupa in particolare della realizzazione di visite guidate e percorsi di approfondimento, attività divulgative, laboratori didattici, nuovi progetti legati alle esposizioni dei musei. È coordinatore del progetto che ha portato, nel 2014, alla creazione del nuovo Archivio multimediale del Museo Lussu. Per questo museo ha inoltre curato la mostra “Storia di un popolo in divisa: la Brigata Sassari nella Grande Guerra”, realizzata tra il 2015 e il 2016. Dal 2017 lavora inoltre all’interno dell’organizzazione del Comitato dei Comuni della Sardegna aderenti ai progetti di recupero dei siti storici della Brigata “Sassari”.

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