omaggio a Guatelli
di Pietro Clemente
Alla fine del 2021 questa è la mia sensazione: è stato un anno difficile. Con la sensazione di fare, come scriveva Lenin ai primi del 900, Un passo avanti e due indietro. In queste pagine iscriviamo soprattutto il passo in avanti, cercando di non essere pessimisti, e di usare con Gramsci l’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione.
Covid primo attore
Non avrei immaginato che quest’anno si chiudesse e il nuovo si aprisse all’insegna del Covid 19. Questo virus microscopico e dannato si è ripreso la scena da protagonista, lasciando indietro tutto il resto. È diventato da solo il rappresentante del ‘mondo grande e terribile’ di cui scriveva Gramsci. L’unico antagonista morale del virus è rimasto Papa Francesco, il solo che continua a pensare il mondo, l’umanità, come un soggetto, a parlare di missione universale.
Vengono ricordati sempre più spesso i dati sulla mortalità da Covid:
5.331.019 morti nel mondo 1.631.508 morti in Europa 136.000 morti in Italia.
Un quadro durissimo, che si accompagna alla crescita costante dei contagi proprio sotto Natale, mentre un picco si annuncia a gennaio. Abbiamo presenti nella nostra memoria storie di vittime, storie di contagi drammatici. Storie di malati già vaccinati. Nell’estate e nell’autunno, quando il contagio sembrava attenuato, anche io ho preso treni, visitato luoghi, incontrato persone ed esperienze di cultura e di socialità, mentre ora sono di nuovo chiuso in casa preoccupato per il mondo ma anche per me stesso. Anche le feste popolari del grande ciclo invernale, pronte a spiccare il volo, richiudono le ali. O cercano di riorganizzarsi per evitare i contatti e i contagi. La festa delle ‘fiaccule’ resiste nella montagna senese nel paese di Abbadia S. Salvatore, luogo dove esercitò la sua missione cristiana Davide Lazzaretti, ma anche luogo di storia mineraria e capitale di una ‘zona interna’ complessa e vitale per la Toscana del Sud. Le fiaccule sono grandi pire fatte con tronchi di legno, una delle tante feste del fuoco presenti in tutta l’Europa e forse nel mondo. In montagna, all’aperto, una festa di questo tipo può restare viva.
Ma il ciclo invernale è anche dedicato ai morti, alla loro presenza nelle nostre vite. A questo riguardo è proprio nella notte di Natale che Grazia Deledda [1] segnala:
«E, secondo l’uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d’arancio, perché l’anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi. Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un’asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero» (Il dono di Natale, Milano Treves 1930).
Più o meno quello che si legge in Spettacoli e feste popolari (1881) di Giuseppe Pitrè. Da agnostico trovo interessante questo aspetto del ciclo invernale che ci mette in contatto con gli “antenati”. Non lo attribuisco a culti arcaici e precristiani che affondano le radici nella (misteriosa) notte dei tempi, ma a un bisogno contemporaneo di sentirsi nella storia anche come discendenza, genealogia, biografia, e di trasmettere questo sentimento dell’esistere storicamente alle nuove generazioni. Il tema è presente nel piccolo ma nitido scritto di C. Lévi Strauss su Babbo Natale giustiziato (Sellerio 1995) [2], dove si riflette sul nesso tra i bimbi e i defunti, dove tra l’altro si configura l’alleanza tra bambini (non ancora iniziati) e anziani (non più iniziati), alleanza che è – più che mai – una possibile protagonista di un piano di battaglia per il presente [3].
Antenati
Da qui voglio transitare per ricordare due uomini che sono da poco stati accolti da ‘sora nostra morte corporale’ e che diventano per ragioni diverse degli ‘antenati’. Mi piace mettere insieme Hermann Bausinger, innovatore degli studi demologici tedeschi, e Mastro Peppe, contadino, costruttore, scultore nel legno di olivo. Entrambi indicano delle strade, danno il senso di avere lasciato per noi tracce forti della loro vita. Hermann Bausinger le ha lasciate attraverso i suoi libri quasi tutti tradotti in Italia, e attraverso la rivoluzione da lui operata per ‘de-folklorizzare’ e dis-arcaizzare le tradizioni popolari a favore di uno sguardo critico sulla vita quotidiana delle culture popolari. Mastro Peppe le ha lasciate con il recupero di un rapporto profondo con la terra attraverso il dialogo con le piante d’olivo sradicate, piante a cui ha dato per mezzo di una scultura rispettosa del ‘verso’ del tronco, delle vene e dei rami, la funzione di volgere lo sguardo alla bellezza delle piante coltivate. Nell’olivo c’è tutto il senso anche di quella Dieta mediterranea che, in modo un po’ confuso, ha avuto il riconoscimento Unesco per il patrimonio mondiale culturale immateriale. Mastro Peppe lo scolpisce e lo fa diventare forma, e poi raccolta di forme, museo domestico, messaggio.
Questi nonni-antenati sono forse l’equivalente simbolico della stella cometa del Natale cristiano, perché in un certo senso orientano il percorso, illuminano le strade per raggiungere qualcosa, forse noi stessi. Hermann Bausinger era del 1926 ed è morto poco più di un mese fa. Anche lui appartiene alla generazione più antica dei nonni come Cirese e Guatelli: il suo pensiero critico e lucido ci ha accompagnato per tanti anni anche dopo il suo pensionamento. Fu mio ospite a Firenze e io fui suo ospite a Tubingen. Nicola Squicciarino, che ne scrive nelle pagine in Primo piano di Dialoghi Mediterranei (non abbiamo voluto ‘confinare’ il ricordo di Bausinger, nelle pagine sulle zone interne) ne è stato il principale mediatore verso l’antropologia italiana, e con lui Luca Renzi. I rapporti con l’Università di Tubingen sono ancora attivi attraverso scambi con le Università di Pisa e di Roma. Bausinger è stato una risorsa importante per una ripresa degli studi italiani dopo gli anni delle “classi subalterne”. Il suo sguardo critico sul presente e sulla vitalità delle culture e dei riti segna anche le pagine di molti di noi. Mastro Peppe era più giovane, nonno anche lui, ma di una generazione molto più vicina alla mia. Come per il maestro Guatelli la sua vocazione artistica è venuta dalla vita e dalla riflessione su di essa. Da quella dimensione che Gramsci chiamava ‘filosofia spontanea’ che per Mastro Peppe – come ci racconta suo genero Vito Teti – era una filosofia della natura.
Ho nominato Ettore Guatelli per connetterlo con Mastro Peppe, ma anche per introdurre la presenza in questo numero di fine d’anno di una consistente parte de “Il centro in periferia” (CIP) dedicata a lui, a Ettore Guatelli, maestro contadino e museografo straordinario, che ha trasformato la casa di famiglia e gli annessi rustici in un grande spazio espositivo dedicato alla cultura dei contadini mezzadri della piana e dell’Appennino parmense. Abbiamo dedicato a lui queste pagine perché anche lui come Alberto Mario Cirese, compiva 100 anni nel 2021. Ed anche perché il suo Museo, il MEG (Museo Ettore Guatelli), benché straordinariamente apprezzato ha bisogno di attenzione e di sostegno. Delle pagine a lui qui dedicate mi piace notare che sono firmate da antropologi, museografi, storici dell’arte e artisti, e insieme da rappresentanze di tutte le generazioni. La stella cometa che ha il suo nome continua dunque a illuminare percorsi. Grazie a tutti gli autori da Mario Turci, direttore del MEG, a Silvia Mascheroni, storica dell’arte protagonista delle esperienze di mediazione e di lettura sociale dell’arte, a Vincenzo Padiglione, che nella stalla del MEG ha allestito una bellissima mostra sul collezionismo che qui ricapitola, a Sandra Ferracuti, antropologa museale e amica del MEG, a Emanuela Rossi, antropologa del patrimonio, ai più giovani ma assai attivi antropologi e antropologi dell’arte Monica Citti, Anna Giulia Della Puppa, Matteo Volta. Un ringraziamento speciale a Leone Contini artista antropologo, e a Cinzia Delnevo, che lo stesso Leone ha sollecitato ad una riflessione davvero interessante, legata a una visita del museo Guatelli con la nonna contadina e con la madre, tre generazioni di donne. Grazie infine ad Antonio Mirizzi, che col Museo Guatelli ha – fin dai tempi del liceo e fino ad oggi – un intenso dialogo fumettistico.
Iniziative e luoghi, racconti e resoconti
In questo numero di Dialoghi Mediterranei “Il centro in periferia” è anche alla ricerca del ritmo e della forma del ‘giornale’, non solo della raccolta di articoli. Si cerca di approfittare della sua periodicità bimestrale per dare comunicazioni sulle iniziative e le attività in corso. Così nello scritto di Marco Leonetti si racconta il lavoro dell’Associazione Riabitare l’Italia, nel testo di Martellozzo, Molinari, Orlandi e Viani si riassume il panel sulla montagna realizzato al Congresso della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA) tenutosi a Roma ai primi di dicembre che ci dà il clima di una nuova attenzione degli studi DEA verso le zone interne, la montagna, e i processi del ritorno. Il testo di Rossano Pazzagli è resoconto e bilancio della Summer School dell’agosto scorso sul paesaggio delle aree interne. Era questo anche il 60° compleanno dell’uscita della Storia del paesaggio agrario italiano (Bari, Laterza, 1961) di Emilio Sereni, cui la scuola di paesaggio è dedicata, e l’istituto-Museo Cervi – Fondazione Sereni ha anche realizzato un video polifonico sul paesaggio in omaggio a Sereni: il docufilm Paesaggi raccontati. Pensieri, saperi, memorie [4].
UNITA è invece – nel resoconto di Giovanna Hendel, a nome del Consorzio – una rete interuniversitaria che si è costituita anche come strumento di intervento e coordinamento della ricerca sui territori svantaggiati. UNITA è in effetti «un consorzio di sei università di cinque Paesi con diverse dimensioni e orientamenti, che riuniscono più di 160.000 studenti e 13.000 membri del personale. Da Ovest a Est: Universidade de Beira Interior, Universidad de Zaragoza, Université de Pau et des Pays de l’Adour, Université Savoie Mont Blanc, Università di Torino, e Universitatea de Vest din Timisoara». «Il sottotitolo ‘Universitas Montium’, scritto in latino, sottolinea che le università UNITA parlano tutte lingue romanze e si impegnano a favorire la diversità linguistica e lo sviluppo delle zone rurali e transfrontaliere di montagna».
Al cuore i temi dello sviluppo locale, del patrimonio culturale, dell’innovazione didattica. Nel numero scorso avevamo segnalato l’esperienza de La scuola di Soria (testo di Maria Molinari) con il progetto MATILDE (https://matilde-migration.eu/) che connetteva le Università di Paesi Bassi, Germania, Italia, Polonia e Spagna ed aveva al centro il ripopolamento delle aree abbandonate, le nuove migrazioni e l’opportunità che esse possono rappresentare. È di grande interesse vedere che i progetti di partnership europea sono in grado di scavalcare ritardi ed inciampi nazionali e che le Università europee anticipano, ponendosi all’avanguardia, processi davvero rallentati nelle realtà nazionali.
Nelle nostre pagine ci sono sempre ‘eventi e luoghi’, alcuni diventati ormai familiari, altri nuovi. Giampiero Lupatelli segnala il riconoscimento nazionale alla Polveriera (ex polveriera) di Civic place, uno tra i dieci luoghi italiani più ricchi di significato e di valore civico, attivi e inclusivi. L’iniziativa della Fondazione Italia Sociale ci ricorda la nozione di ‘civicness’, tema di molti decenni orsono legato al dibattito americano sulla forma italiana della partecipazione democratica. Si trattava allora dell’analisi dei modi di vivere e di partecipare dell’Italia centrale ed è notevole vedere il concetto di ‘civicness’ riconosciuto alla Polveriera e ri-giocato nel rapporto con uno spazio dedicato alla lotta contro la marginalità:
«Un pensiero insieme profondo e radicale attraversa l’intento del Consorzio nell’intraprendere l’avventura di Polveriera: riportare nel cuore della città e sotto il suo sguardo la presenza delle fragilità sociali e delle disabilità, anche le più gravi, invertendo una inconsapevole e inavvertita tendenza che aveva portato i luoghi e i soggetti della fragilità ad abitare – certo in condizioni confortevoli e moderne – il margine di una città che pure alla loro cura dedicava grande attenzione».
Un altro luogo è Nurri, un paese della provincia di Cagliari, dove, da dentro il Covid, i bambini delle elementari dialogano a modo loro con quelli del capoluogo offrendo solidarietà, e proprio attraverso la solidarietà combattono i fantasmi della pandemia. Massimiliano Rais presenta questa esperienza come ‘la resistenza dei bambini’. Un libro in versi: «Il covid sparirà, andrà avanti la solidarietà». Poi ci sono i ‘luoghi familiari’ e tra questi c’è Fiamignano, che, in quasi tutti numeri della rivista, fa sentire la sua presenza con la voce di Settimio Adriani e di altre/i. In questo numero Adriani e Di Matteo mettono in risalto la dialettica – nelle conversazioni di paese – tra nostalgici e scomparsi, tra chi torna e chi non torna più: rappresentati dalle figure della lumaca che si porta sempre con sé la casa, e il paguro che si alloca in spazi altrui: in dialogo con i temi del ritorno in Pavese, in specie ne La luna e i falò.
Anche la Corsica è diventata un luogo familiare con diversi confronti e scambi di esperienze. Di recente abbiamo pubblicato alcuni articoli sulla esperienza delle Misericordie corse come riprogettazione comunitaria della vita locale. In questo numero Corradino Seddaiu presenta il Museo “A casa di Roccapina” nella Corsica del Sud. Un museo ricavato da una casa cantoniera e capace di rappresentare la storia sociale del passato come una sorta di spazio-tempo-mondo sonoro che non produce nostalgia ma piuttosto desiderio di ritrovare in futuro forme di vita ricche di esperienze di diversità. Un museo che è anche un incubatore di sogni di un futuro diverso.
Tra le recensioni troviamo un libro miscellaneo nato da un convegno e una scuola estiva residenziale: Territori marginali. Oscillazioni tra interno e costa (Lettera ventidue, 2021), segnala Giuseppe Sorce,
«che si propone come sguardo prezioso su quei luoghi critici che spesso ci abitano in modo inconsapevole, e abitano le narrazioni geografiche in maniera sommessa, tanto più subliminale e potente quanto più è evidente il tentativo di ignorarli. Perché i paesaggi, anche quelli “che non si vedono”, soprattutto quelli che non si vedono, sono la prima e l’ultima difesa che abbiamo per fronteggiare le complessità e le sfide del mondo a venire».
La recensione del libro Ho scavalcato il Novecento. Autobiografia di un cagliaritano, di Tanino Marongiu (Aipsa, Cagliari 2021), è scritta da Ilario Carta. Questo testo è per me un po’ speciale perché l’autore del libro è un amico. La sua è una vicenda che ho per diversi momenti condiviso e non solo come compagno di banco per i cinque anni del liceo Dettori di Cagliari. Il suo racconto conferma la mia convinzione della forza antropologica dei racconti di vita, che somigliano a romanzi di formazione, ma con una più forte capacità rappresentativa della società e della storia. A mio avviso, il libro (che contiene anche una mia postfazione) merita di essere letto oltre l’Isola. Ma anche il recensore Ilario Carta ha qualcosa di ‘personale’. È oggi uno scrittore affermato, ma circa 40 anni fa era mio alunno alle Magistrali di Iglesias: è stato un bell’incontro ritrovarlo tanti anni dopo.
Da ultimo ho lasciato la ricca e profonda intervista di Maria Rosaria La Morgia al geografo Franco Farinelli a proposito della montagna abruzzese. In questo dialogo si sente il mondo globale, la necessità di riscoprire e studiare i luoghi oltre il senso comune, per capirne la direzione di marcia.
«Tutte realtà che oggi andrebbero riapprese, perché distruggendo gli spazi statali, la globalizzazione che avanza ci risospinge per un verso in direzione delle culture e dei valori locali, vale a dire in direzione della rivalorizzazione degli antichi modelli. Se non altro dal punto di vista della ricostituzione di una autentica memoria territoriale da interrogare per far fronte al nuovo che avanza… Far fronte al globale vuol dire prima d’altro riformulare il rapporto tra i luoghi e lo spazio. E per far questo abbiamo urgenza di ricostituire tutta la nostra memoria».
La rilettura del paesaggio può aiutare ad affrontare il futuro con più conoscenze, con più sapienza?
«È l’unica possibilità che abbiamo, l’unica via d’uscita. Se noi fossimo in grado di leggere quelle forme che oggi sopravvivono di ciò che è stato e di comprenderle per reinventarle saremmo davvero a buon punto. Qui però si apre un altro discorso e riguarda sia la crisi del pensiero europeo che l’abisso che si è spalancato tra la conoscenza e la politica».
Ecco, forse, il pessimismo della ragione.
Nelle reti e nelle esperienze locali che si occupano delle zone interne si pone il problema: dove sta il PNRR? L’idea che ci accomuna è che le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza potrebbero essere fondamentali per un nuovo sviluppo basato su interventi mirati ai luoghi dell’abbandono e della possibile rinascita. Una sorta di ‘risorgimento’ potenziato della Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI), ma sembra di capire che la sua gestione sarà molto centralizzata e che su molti temi del cambiamento energetico si andrà verso soluzioni che trascurano la dimensione delle ‘comunità energetiche’ a favore di grandi produzioni di energia da esportare e ri-orientare verso i grandi centri. In un incontro dell’Associazione ‘Riabitare l’Italia’ ci si domandava: «Ma dov’è il PNRR, come lo si incontra, cosa ne sta succedendo». Una sorta di araba fenice che magari cambierà l’Italia ma senza comparire davanti a noi, senza manifestarsi. Ora però se ne vede qualche pallida traccia nel bando che impegna il Ministero della Cultura verso progetti che vengono dai Comuni e che siano finalizzati alla rigenerazione culturale e sociale dei borghi storici: 580 milioni a fondo perduto a Comuni con meno di 5000 abitanti che facciano progetti sui temi della cultura dello sviluppo locale [5].
L’UNCEM, l’Unione Nazionale dei Comuni, Comunità ed Enti Montani, sembra essere l’interfaccia più prossima tra PNRR e mondo dei piccoli paesi. Nella sua assemblea nazionale del 13 dicembre aveva il PNRR all’ordine del giorno. E qui – per la parte dell’ottimismo della volontà – mi fa piacere segnalarvi alcuni appunti della relazione introduttiva di Giampiero Lupatelli, economista territoriale:
IL PASSO DEI MONTANARI
«2. Festina Lente, accorri lentamente. Quello che Svetonio ci riporta delle parole dell’imperatore Ottaviano Augusto è il motto giusto per affrontare la sfida del PNRR. Per noi è semplice, basta tenere il passo dei montanari. Ma dove è collocato il nostro traguardo? È troppo vicino, nei vincoli di spesa del PNRR che impongono ai progetti di chiudersi al 2026? È invece troppo lontano rimandando le responsabilità a un 2030 che ci consente gli esercizi ancora un po’ rituali degli SDGs, gli obiettivi di sviluppo sostenibile?
Il rischio è quello del disorientamento, peggio dello sconcerto. Rafforzato dalla disabitudine ad operare investimenti che abbiamo maturato in lunghi anni di astinenza.
3. Per superare questo rischio dobbiamo ricorrere all’intelligenza delle istituzioni che ci propone una percezione del tempo diversa dalla impazienza dei movimenti ma anche dalla indolenza di burocrazie che pensano ad uno scenario che non può cambiare, mentre l’abilità coincide al massimo con la fretta rapace dei predatori»
Mi colpisce sempre negli scritti di Lupatelli, il linguaggio dell’economista ricco di metafore e di tracciati filosofici e poetici [6].
Infine dalle associazioni dell’antropologia universitaria viene la segnalazione dell’avvio di grandi progetti di ricerca interuniversitaria dedicati ai grandi temi del PNRR e con grandi equipe e consistenti finanziamenti. Speriamo che questo fronte si allarghi sempre di più.
Un’altra traccia di attenzione e di speranza è data dalla Legge N.2243, passata a maggio alla Camera e in corso di deliberazione al Senato: «DISEGNO DI LEGGE approvato dalla Camera dei Deputati il 20 maggio 2021, in un testo risultante dall’unificazione dei disegni di legge d’iniziativa dei deputati CUNIAL, BENEDETTI, GIANNONE, SARLI e VIZZINI (1825); FORNARO, BERSANI, ROSTAN, SPERANZA e STUMPO (1968); CENNI (2905) (V. Stampati Camera nn. 1825, 1968 e 2905) Trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati alla Presidenza il 21 maggio 2021 Disposizioni per la tutela e la valorizzazione dell’agricoltura contadina».
Questo disegno di legge potrebbe avere un certo rilievo sui temi delle agricolture particolari, come quelle di montagna, appenniniche, o a produzione non commerciale, e ispirare investimenti finalizzati alla ripresa di luoghi specifici. Esso contiene inoltre la proposta fatta nel 2010 da Simbdea (all’epoca fu da noi chiamato ‘l’anno dei mezzadri’) di dedicare l’11 novembre di ogni anno una giornata nazionale alla memoria dei contadini. Chissà come questa proposta andrà a finire nei difficili tempi di questa legislatura.
Traggo da due pagine Facebook ‘postate’ in primavera questa chiusura dedicata ai due centenari dei miei due maestri di museografia e di altro: Ettore e Alberto Mario
«Ettore Guatelli e Alberto Mario Cirese sono nati – un secolo fa – entrambi nel 1921 a soli due mesi di distanza. Si connettono – tra loro e con me – in modo forte perché sono stati per me i principali maestri di museografia. È stato Cirese nel 1987 a farmi capire il valore poetico dell’allestimento di Ettore, quando fummo chiamati dalla Provincia di Parma a dare un giudizio culturale sul Museo. E proprio quel parere mi aiutò a superare una certa presunzione, e finii poi per elaborare una idea di museografia antropologica diversa da quella di Cirese. Guatelli era un contadino-maestro elementare diventato intellettuale e museografo. Cirese era un intellettuale del ceto medio, ma figlio di due maestri elementari, suo padre fu poi direttore e ispettore. Dal 1987 al 2000 ho seguito il percorso di Guatelli, fino alla visita all’Ospedale di Parma dove era ricoverato. Quello fu l’ultimo incontro. Un lungo confronto, con scambi, incomprensioni, dubbi, riconoscimenti, interviste, viaggi e lezioni di Ettore in varie università. Conservo lettere, fotocopie di diari, stampati scolastici, poesie, fotografie, ricordi. Con Mario Turci abbiamo cercato di fissare i princìpi per continuare il lavoro della sua vita: il museo è ancora vivo e forte. Ettore è la storia complessa di un uomo curioso e creativo, contadino ma anche gran lettore, uomo colto, esperto di antiquariato, trovarobe, scrittore, capotribù, ‘femminaro’ di desiderio più che di azione. Nel lungo dialogo con lui ho imparato non solo il suo modo di fare museo e la rete di memorie e di ricerche che lo animava, ma anche a capire meglio chi sono io e chi siamo noi esseri umani.
Sono stato più amico di Ettore che di Alberto Mario Cirese, col quale avevo invece un rapporto di stima e di rispettosa distanza generazionale. Ettore mi travolgeva con i suoi discorsi e racconti e mi provocava anche in dialoghi privati. Credo di essere riuscito a farmi mediatore del valore del suo stile di museo nel mondo accademico e della museografia istituzionale. Lui mi ha coinvolto nel suo mondo di relazioni e di conflitti, di amicizie intellettuali e di litigi familiari. Il museo era la sua vita e la sua vita è ora in quel museo. Buon centesimo compleanno Ettore! Continuiamo a pensarti vivo e attivo in mezzo alle montagne dei tuoi oggetti e alle colline di carta dei tuoi diari, delle tue schede museali, dei tuoi racconti.
«Guatelli 100 anni e un giorno. Geografie dietro un museo che è la capitale dei paesi abbandonati. Mi sono reso conto che potrei continuare per molto tempo a studiare Guatelli perché tra le mie carte trovo lettere, schede, bozze di libro, interviste trascritte. Perfino il contratto di mezzadria del nonno di Ettore. E così tra i testi e la loro possibile analisi ci vorrebbe una équipe per tirarne fuori tanti aspetti della vita contadina, del Museo, della storia personale di Ettore. Mi sono riletto La coda della gatta, il primo libro fatto di racconti autobiografici, di schede di cultura materiale, di storie altrui, in cui campeggia la figura di Antonio Bertè, classe 1896, forse il suo testimone preferito sulla vita contadina. C’è tanto in questo libro, su tutti i fronti di una riflessione contemporanea, ci sono tante etnografie implicite, storie di vita accennate, intensità di pratiche della gente. Il tutto si svolge in uno scenario di nomi di luoghi plurale e locale allo stesso tempo. La provincia di Parma, di Bergamo, di Chiavari, di Massa, le loro montagne. C’è una geografia guatelliana che corrisponde in gran parte con il mondo dei paesi abbandonati. Un mondo che viene segnalato perché vi ha fatto una supplenza, perché vi ha acquistato un oggetto, perché ha trovato qualcuno del posto che gli ha raccontato. Così mi sono reso conto che il MEG (Museo Ettore Guatelli) è anche una sorta di capitale morale e fantasma delle zone interne e dei piccoli paesi in calo demografico di cui mi occupo negli ultimi cinque anni. E voglio proporre l’ultimo omaggio con i toponimi di questa sua geografia culturale, una sorta di canto della ‘coscienza di luogo’ di cui abbiamo sempre più bisogno per il futuro.
Albareto, Bardi, Bedonia, Berceto, Bratto (Castione della Presolana, Bergamo), Brezza, Calestano, Casalmaggiore, Caselli, Casirate di Bergamo, Casola di Terenzo o delle Olle, Cassio, Castelcorniglio, Castelnuovo, Cavazzolo, Cereseto di Compiano, Cicagna , Collecchio, Colorno, Compiano, Contile di Varsi, Corniana, Dordia, Felegara, Felino, Fiorano, Fornovo, Gaiano, Gaione, Gazzo di Bardi, Groppo, Metaleto di Langhirano, Migliarina, Montecchio, Neviano dè Rossi, Neviano degli Arduini, Noceto, Ozzano Taro, Palanzano, Piantone, Pontremoli , Pratofontana, Riccò, Roccabianca, Ronco, Sala Baganza, Salso, Samboseto, San Vitale Baganza, Sant’Andrea, Sant’Arcangelo di Romagna, Sasola di Terenzo, Scurano, Selva di Gambero, Selva, Serravalle, Solignano, Specchio, Tarsogno, Tizzano, Tolo, Tornolo, Traverse, Treviglio, Urzano, Vallezza, Valmozzola, Varano dè Melegari, Varese Ligure, Varsi , Zibello.
Guatelli e Cirese continueranno ad essere stelle comete del nostro mondo di studi e di realizzazioni relative al patrimonio culturale, ai musei e ai piccoli paesi. Lo sono e lo saranno anche se il ‘nostro’ mondo dei musei locali è in questa fase fortemente in crisi e ai margini dell’attenzione culturale e politica.
In chiusura voglio segnalare un romanzo che, a suo modo li riguarda. O meglio che riguarda il Museo dell’innocenza creato a Istanbul da Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura, basato sul suo romanzo omonimo, che anche nel dibattito italiano ha dato nuove prospettive di riflessione sui musei. A questo museo è dedicato e ispirato un romanzo di una museografa italiana: Anna Rita Severini, Bir Zamanlar nel Museo dell’Innocenza (Il canneto, Genova 2021. Nel dialogo tra Pescara e Istanbul, tra musei e persone, tra oggetti e sentimenti, questo romanzo aiuta a capire le potenzialità dei musei nella direzione delle emozioni, dei sentimenti e dei racconti della vita quotidiana. Una energia nuova per i musei.
Gianluigi Bravo. Un addio
Nel momento di chiudere la rivista è arrivata la notizia della morte di Gianluigi Bravo, docente di Antropologia culturale nell’Università di Torino.
Gianluigi Bravo era per me un collega col quale avevo condiviso progetti e incontri, che portava all’antropologia la ricchezza di una formazione sociologica maturata con una delle figure principali della sociologia italiana: Luciano Gallino. Lo conobbi nel 1975 a Bologna nell’occasione in cui nacque, guidata da A. M. Cirese e da lui, il TOFISIROCA, incontro di studi tra antropologi critici di 5 università (Torino, Firenze, Siena, Roma, Cagliari). Bravo portava, nell’incontro con la tradizione antropologica ‘ciresiana’, un gruppo di giovani operativi nella società civile piemontese, nell’associazionismo, nei musei, nelle politiche amministrative. Portava uno stile pragmatico e un orientamento politico legato al PCI ma sempre aperto e critico.
Con Cirese condivideva la passione per le tecnologie applicate alla ricerca, il tema delle schedature informatiche, ed aveva – agli occhi di Cirese – il grande merito di essere stato il curatore della edizione italiana della Morfologia della fiaba di Propp, grazie a una prima fase dei suoi studi in Unione Sovietica. Collaborammo strettamente tra il 1975 e il 1985, come un vero gruppo di lavoro. Il LEINO (Laboratorio Etnologico dell’Italia Nord Orientale) creato da lui e dai suoi collaboratori (una vera scuola astigiana e torinese che aveva tra i partecipanti Piercarlo e Renato Grimaldi), realizzava un giornale ciclostilato che a turno veniva diretto da una delle sedi del gruppo TOFISIROCA.
Insieme discutemmo di Gramsci e di marxismo in campo antropologico, affrontammo la schedatura dei beni culturali e dei musei. Insieme con Piercarlo Grimaldi, Bravo scelse di cambiare raggruppamento disciplinare, e dalla sociologia passarono al gruppo DEA, portando lo sguardo più largo degli studi sociali al confronto con la società contemporanea. Non solo i musei ma anche il loro pubblico, non solo le feste ma i loro nuovi attori sociali. Il suo libro Festa contadina e società complessa (Angeli, 1984), accompagnato da un film etnografico, fu una vera innovazione per gli studi demologici, e la prefazione che gli fece Luciano Gallino colse il punto sul ruolo delle feste nel momento che l’Italia viveva in quegli anni.
In anni successivi lo persi di vista ma restammo sempre in contatto a distanza. Mi fece leggere in anteprima il suo libro su Gli italiani. Racconto etnografico (Meltemi 2001) cui teneva molto, come sintesi di una complessa storia dell’identità nazionale molteplice. Fu presidente dell’AISEA (Associazione Italiana per gli studi Etno-Antropologici) e membro del Consiglio superiore per i beni culturali. Ci sarà modo di riflettere sui suoi contributi agli studi. I tanti suoi scritti sono disponibili sul mercato librario. Io ora lo ricordo per una amicizia forte, nata nel campo degli studi, attraverso la stima e lo scambio, per il suo spirito insieme critico e pragmatico, per la sua ironia, per il suo stile personale dotato di eleganza e carisma. Forse un fratello maggiore per me e insieme uno studioso autonomo, fondatore di una ‘scuola’ antropologica, un intellettuale di valore, nel senso alto che questa parola ebbe nella storia italiana del Novecento.
È con grande dolore che scrivo questo breve testo, una sorta di pianto funebre, di racconto del commiato e di cordoglio. Gianluigi era nato ad Asti nel 1935, da tempo era in precarie condizioni di salute. Da qualche anno non rispondeva alle mie mail insistenti. La sua figura resta parte della mia formazione, ma anche ben radicata in sentimenti di rispetto e di stima, nell’amicizia che ebbi con lui e per lui. Anche la generazione di studiosi (diversa da quella anagrafica) che condividevo con lui sta affrontando l’ultimo viaggio. Un po’ di me se ne va col suo ricordo.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] Quest’anno che finisce è stato il 150simo della nascita della scrittrice sarda Premio Nobel per la letteratura, che è stata ricordata con tre convegni a Cagliari, Sassari e Nuoro, organizzati dall’ISRE, ma anche nei circoli dei sardi in giro per il mondo.
[2] Pubblicato nel 1952 su Les Temps modernes da un Lévi Strauss quarantenne
[3] Anche come esperienza della pandemia in cui i più scellerati sono stati gli adulti che hanno sacrificato gli antenati mentre i bambini ne hanno avuto grande rispetto
[4] Su You tube: https://www.youtube.com/watch?v=GdNz9rj6Kv8
[5] https://www.eurca.com/157323/attrattivita-borghi-contributi-per-la-rigenerazione-culturale-e-sociale-dei-piccoli-borghi-storici/
[6] Per un approccio più ampio vedi dello stesso autore: https://uncem.it/wp-content/uploads/2020/04/Fragili-e-Antifragili_CAIRE.pdf
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021).
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