di Nicolò D’Alessandro
Ci sentivamo spesso e ci incontravamo al bar Recupero. Era il luogo preferito per incontrare i colleghi fotografi. Al suo arrivo con la moto, l’immancabile cappello di feltro e il fasciacollo colorato mi avvertiva per telefono e poiché abito accanto al bar scendevo subito. Aveva già acceso il pestilenziale sigaro e puntualmente gli dicevo ma non smetti mai? Mi rispondeva sempre: tu non fumi e non puoi capire. Dopo questa rituale pantomima ci abbracciavamo. Mi manca molto la risata squillante di Nino che lo annunciava per telefono. Mi manca soprattutto la sua delicatezza, la sua voglia di vivere e di ragionare sempre al futuro.
Nel 2021 gli proposi di partecipare ad un mio progetto le A-zine. Aderì con due racconti scritti appositamente che riporto insieme alle copertine. I due racconti sono pubblicati nel mio libro “103 A-zine”, edito da Medinova.
La barca “sciacchitana”
«A piedi nudi, i pantaloni rimboccati, andava veloce verso la statua di San Vito, al di là della “malora”, la boa che all’imbocco del porto canale segnalava le secche.
Si fermava davanti al Santo – che con il braccio ci ripara – e guardava il cielo di ponente, immobile rapito. Nubi, maree celesti, corrugazioni avrebbero svelato a Pasqualino, settantaquattro anni, secco come una sarda salata, il tempo della notte e dell’indomani.
Lo doveva dire al capitano Marosimo, comandante di peschereccio senza paura.
Perché con la bonaccia le reti rimanevano vuote, ci voleva un po’ di mare per sperare in un giusto pescato. E quella notte, ghiaccio fatto – ultimo “armamento” da caricare – il capitano senza nome, dimenticato da tutti a forza di chiamarlo, per rispetto, capitano, urlò con tutti i suoi decibel “A la via!”. A prua ci stava Stefano “Aracano”, cognome disperso, forse Asaro, ma dalla “nciuria” espressiva: aveva una voce che sembrava un uragano. Indietreggiò verso l’albero maestro per non prendersi in pieno il su e giù del beccheggio, che con le miglia si faceva più intenso. Aveva il compito di sorvegliare che la rotta fosse libera e regolare – rosso a rosso, verde a verde, avanti sempre che la nave non si perde – ma soprattutto di avvistare per tempo se ci fosse una barca “sciacchitana” con la prua a sud-ovest, cioè verso il “Mammellone”, un pezzo di mare che i tunisini dicevano appartenesse a loro, ma che gli arditi capitani siciliani aravano con i loro “strascichi” senza nessun pensiero.
D’improvviso l’urlo di Aracano scosse le cuccette: “Varca sciacchitana a scirocco, corre veloce”. Il capitano Marosimo era ritto davanti alla cabina di comando, diede subito la correzione di rotta al timoniere: “Venti gradi a sud-sud-est avanti tutta; e voialtri prendete le cose senza “annacarivi”.
La nuova rotta prevedeva la collisione a meno di un miglio. Il capitano voleva speronare la barca sciacchitana per un antico odio marittimo, e le “cose” che aveva sollecitato a prendere erano bombe confezionate secondo una piratesca sapienza, ereditata dai secoli dei barbareschi. Si preparava uno dei tanti combattimenti per allontanare dalle zone pescose rivali d’acqua; tante volte i pescherecci trapanesi erano stati costretti a salvaguardare la pelle.
Ma Stefano Aracano aveva anche la vista acuta, e quando doppiarono l’ultimo mezzo miglio, esplose in un angosciato urlo: “Indietro tutta, indietro tutta, la varca sciacchitana è di ruvolo e noi siamo di sfosella”. Sì, la barca di Sciacca era costruita con legno forte (di rovere) mentre quella comandata dal capitano Marosimo era di legno povero simile a quello che si usava per farne cassette dentro le quali ordinare i pesci.
L’urlo di Aracano fu un perentorio comando che venne concitatamente eseguito dal timoniere. L’ardito capitano, appoggiato alla murata sinistra, guardava immobile e silenzioso l’orizzonte. Se anziché tenere nella mano destra un mezzo marinaio vi avesse avuto un arpione, poteva essere scambiato per un Achab di paese con lo sguardo puntato su una Moby Dick di legno».
Un Giapponese all’Hotel delle Palme
«Entrò con due valigie di cuoio martellato Akira Gerland Mitsuki, asciutto, dentro un vestito semi occidentale con i pantaloni larghi che testimoniavano le ondulazioni dell’Estremo Oriente.
All’accettazione fu facile risolvere l’iter alberghiero perché il giapponese spiccicava molte parole siciliane. Poi cominciò a guardare gli arredi della gloriosa hall del Grand Hotel et des Palmes di Palermo. Si muoveva con familiarità in quell’indulgente autunno di metà anni Sessanta, incrociando conti e baroni, uomini del denaro, artisti e teste d’uovo che erano frequentatori obbligatori dell’albergo e, soprattutto, del suo bar.
Racconta Toti Librizzi, impeccabile e geniale capo barman, che quando gli chiese cosa gradisse, il signor, o meglio, “sama” Mitsuki lo guardò con gli occhi felici e, senza incertezze, disse: “Due birre”. Le voleva siciliane. Non c’era molto da scegliere, Birra Messina. Ma la profusione di stelle dell’albergo impediva al bar di rifornirsi di quel prodotto autoctono-popolare, scelto dai muratori e da tante altre categorie di lavoratori. Toti Librizzi, senza che il suo doppio petto color panna subisse una grinza, col cravattino sempre allineato con l’orizzonte, procurò rapidamente le due bottiglie. Il giapponese chiese un altro bicchiere, come se dovesse bere insieme ad un suo ospite atteso. Librizzi immaginava un uomo perché la sua eleganza anni ‘60 gli impediva di ipotizzare una donna nel bar più prestigioso della Sicilia con un bicchiere traboccante schiuma in mano. Non arrivò nessuno. Akira Mitsuki bevve i due bicchieri di birra e accese due sigarette: una la lasciò a consumarsi appoggiata al posacenere, l’altra la fumò con lunghe aspirate seguendo quasi il ritmo dello struggente pianoforte che insinuava canzoni italiane, francesi e napoletane. Il giapponese sembrava commosso. Toti Librizzi dedusse che il mancato arrivo della persona attesa avesse offeso la sensibilità di quell’uomo di mezz’età venuto da lontano. Ma lo spreco della sigaretta?
La curiosità mediterranea fece rabbrividire l’eleganza di Librizzi mentre sama Mitsuki gli confessava che sapeva che lo scirocco era intriso del profumo dei mandarini di Ciaculli e Croceverde, le case avevano i tetti alti, con l’aceto si facevano tante cose e le facciate dei palazzi erano belle. Racconti di suo padre Gerlando dal cognome perduto, palermitano senza speranza di ritorno, a lui bambino seduto sotto i fiori di ciliegio, che ascoltava e chiedeva “Perché non mi ci porti?” “Ci andremo – gli disse un giorno il padre – appena sarai più cresciuto, andremo a Palermo a berci una birra”. Dopo quella promessa Gerlando scomparve per sempre. Akira Gerland sopportò una gavetta pesante con la madre a Ichihara, a nord di Kioto. Poi se ne andò a Kobe, a fare il computista in una ditta di spedizioni di Nada-ku.
Lavoro monotono, pieno di vuoti fra un carico e il successivo, che gli lasciava tutto il tempo per pensare al profumo dei mandarini e alle case con gli alti tetti. E anche allo scomparso Gerlando, la cui fisionomia si andava dileguando dal suo ricordo.
Un brindisi con il contumace. La seconda birra doveva berla il suo padre palermitano, e anche la sigaretta sul posacenere, secondo sama Akira, era dedicata al Gerlando disperso. Sostiene Librizzi che queste ultime e difficili parole provocarono un intreccio di sguardi, intensi e contemporanei, mentre il volto giapponese sembrava attraversato da una rapida lacrima palermitana».
Nino Giaramidaro con questi due racconti ha partecipato con vero entusiasmo alle A-zine, (racconti brevissimi, max 540 parole) pubblicate nella mia pagina Facebook da poter scaricare (in pdf) gratuitamente e potere stampare autonomamente. Racconti da leggere in autobus tra una fermata ed un’altra. Un’idea nata non a scopo commerciale; 68 autori, di cui otto stranieri, hanno inviato per questo progetto 103 brevi racconti confluiti poi in un libro edito da Medinova. Ho voluto proporre nella mia pagina Facebook l’uso delle A-zine per creare, in un momento di grande difficoltà dovuta alla pandemia, una “comunità” come supporto ai quotidiani collegamenti in diretta dalle ore 19,00 alle 19,30 che ho avviato dal 28 marzo al 4 maggio 2020 sulla mia pagina. Dopo il mio invito sono arrivati molti racconti anche dall’estero. Hanno aderito scrittori, fotografi, attori, professori, giornalisti, architetti, pittori, musicisti insieme con questi racconti minimali in un libro. La natura stessa delle A-zine, affidate a fogli volanti, è simile al destino dei tovagliolini di carta usa e getta. Mini racconti inevitabilmente destinati al macero dopo averli letti.
Negli ultimi anni proposi a Nino di fare, insieme, un libro fotografico dal titolo Da Palermo in su. Entusiasta per l’idea che per scaramanzia tenemmo segreta, si mise di buona lena a fotografare in giro per la città. Abbiamo visionato centinaia di fotografie della Palermo inedita che pochi conoscono per raccontare una Palermo al di fuori dei libri in circolazione, di taglio turistico. Un’idea sulla quale abbiamo lavorato dal 2019 in poi. Un progetto ambizioso proposto ad un editore che si era mostrato disponibile e ci sollecitava a concludere la scelta delle fotografie per realizzarlo.
Nino mi aggiornava continuamente sul suo lavoro di ricerca mandandomi le fotografie appena realizzate nelle sue lunghe passeggiate.
Alcune immagini in mio possesso sono a bassa risoluzione ma la maggior parte che conservo sul computer sono ad alta definizione. Più di trecento immagini inedite raccontano Palermo con una visione totalmente nuova. Mi aveva assicurato di aver fatto l’elenco dei luoghi e delle strade dove aveva realizzato le fotografie che avrebbero dovuto costituire le didascalie del volume in preparazione. Elenco che non posseggo. Nino teneva molto a questo nostro progetto che si è interrotto con l’ictus che lo ha colpito. Sino ad un certo punto però, lo ritengo concluso poiché credo che il materiale esistente, così come è, sia più che sufficiente per raccontare la città attraverso questa sua avventura fotografica inedita e sconosciuta.
Quando lo chiamai l’ultima volta mi assicurò che presto avrebbe ripreso a fotografare e mi avrebbe mandato le ultime sue fotografie per realizzare il libro. Ci saremmo presto riuniti per concludere le scelte. Non è avvenuto. Il suo libro fotografico Da Palermo in su, ne avrei forse il dovere, mi piacerebbe portarlo a termine, per restituirgli ciò che merita come fotografo e come artista gentile e delicato e per non attribuire al titolo il significato premonitorio della sua improvvisa scomparsa intendendo “in su” come “in cielo”.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Nicolò D’Alessandro, nato a Tripoli (Libia) da genitori siciliani, vive a Palermo. Partecipa alla vita artistica italiana dal 1961 esponendo per invito a numerose collettive nazionali ed internazionali in Italia e all’estero. Ha firmato scene e costumi di spettacoli teatrali. Collabora come direttore artistico per alcune case editrici. Svolge un’intensa attività grafica curando libri e riviste con copertine e disegni. Si è sempre interessato parallelamente di ricerca estetica, contribuendo con scritti critici. Numerosi disegni sono stati pubblicati in riviste, giornali e libri in Italia e in molti altri Paesi. È autore del disegno più lungo del mondo, a china e china colorata: La Valle dell’Apocalisse (metri 83,50 x metri 1,50), iniziato il 6 novembre 1989 ed esposto in anteprima assoluta a Racalmuto (1991). L’opera definitiva è stata esposta in anteprima mondiale a New York (1992). Molto ha scritto e molti hanno scritto sulle sue opere.
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