di Maria Sirago
Introduzione
Dal 1453, anno in cui il sultano Mehemed II aveva conquistato Costantinopoli (Bisanzio), ribattezzata Istanbul, il Mediterraneo, un bacino ricco di contrasti, entrò in uno stato di “guerra permanente” (Sola, 1988: 47ss.; Cancila, 2007: 7ss.). Di ciò risentì il Regno meridionale, esposto com’era agli assalti turchi lungo le sue coste, anche se gli aragonesi avevano riorganizzato la flotta per opporsi agli assalti nemici (Schiappoli, 1973; Ryder, 1976).
Dai primi del Cinquecento, con la crisi della dinastia aragonese, si ebbe uno scontro tra Francia e Spagna, desiderose di impadronirsi del Regno meridionale per ampliare la loro sfera d’azione. Dal canto suo Ferdinando il Cattolico con l’occupazione del Regno meridionale voleva contrastare le forze turche e veneziane che dominavano incontrastate sul Mediterraneo.
In quel periodo si era aggiunto anche un altro problema, il “pericolo barbaresco”, iniziato con le mirabolanti imprese dei fratelli Barbarossa, Aruj e Hair el –din, marinai greci dell’isola di Lesbo. Essi ai primi del Cinquecento avevano raggiunto le coste dell’Africa settentrionale per darsi al “corso”, proprio nel periodo in cui il sultano Bayezid II sferrava una grande offensiva in Oriente, incorporando la Siria e l’Egitto all’Impero Ottomano. Verso il 1504, dopo aver armato due galeotte e una galera, i due fratelli avevano cominciato a “correre” i mari di Sicilia e di Calabria, dove catturavano navi e riducevano in schiavitù gli equipaggi, divenendo in breve i padroni del Mediterraneo (Muràd, 1993; Buñes Ibarra, 2004). In seguito avevano offerto i loro servigi al sultano, ottenendone protezione, finché nel 1516 Aruj, con l’avallo della Porta Ottomana diventò beylerbey, cioè governatore generale di Algeri (Sola 1988; Mafrici, 2003).
Per sconfiggere i Francesi Ferdinando il Cattolico aveva affidato al Gran Capitano Gonzalo Fernàndez de Cordoba (Ruiz–Domènec, 2002) l’incarico di dirigere le operazioni belliche per opporsi alle truppe francesi: il Gran Capitano, un valente condottiero che aveva già dato prova di sé nel 1494 durante la presa di Granada riuscì nell’impresa di conquistare il regno (Ruiz–Domènec, 2002). Era stato coadiuvato da un altro noto condottiero, Pedro Navarro, che aveva ottenuto una licenza per “andare in corso” (D’Agostino, 1976: 12) ed era stato nominato “capitan de infanteria”, «por su industria y astucia» (De los Heros, 1854-55: 33ss.).
Sconfitta la Francia, dal 1503 il viceregno di Napoli, con la Sicilia e la Sardegna, venne inserito in un ampio scenario internazionale, divenendo base di appoggio per le operazioni belliche nel Mediterraneo e i suoi porti vennero fortificati (Sirago, 2005 e 2009) come quelli siciliani (Favarò, 2004) e sardi (Mele, 2000). In tal modo il Regno napoletano divenne base portante del sistema difensivo spagnolo mediterraneo, con una rete di città fortificate atte alla “difesa passiva” e arsenali per allestire le flotte che dovevano costituire la difesa di quella che è stata definita la “frontiera disarmata” (Ajello, 1992).
Il regno di Carlo V
Alla morte di Ferdinando il giovane Carlo poté usufruire dell’esperienza acquisita sul fronte africano da Ferdinando e della formazione di un personale militare uscito dalla scuola del Gran Capitano, il che gli permise di continuare la politica mediterranea del Cattolico. Il principale fautore di questa politica fu Ugo de Moncada, posto al comando della flotta napoletana, che continuò ad operare secondo il tradizionale sistema delle concentrazioni navali nel Mediterraneo, battendosi per un rinnovato vigore della politica navale a cui cercava di imprimere un più marcato carattere di professionalità e congruità tecnica ed organizzativa (Sirago, 2018: 112). Verso il 1519 venne inviata una ambasceria al sultano Selim I per saggiarne la disponibilità ad una regolata convivenza. Ma dal 1520, dopo la morte di Selim (Bombaci Shaw, 1981), era successo il figlio Solimano, appena venticinquenne, molto colto, che aveva già manifestato le qualità per le quali sarebbe stato insignito del titolo di Magnifico (Rossi, 1936). Perciò Ugo de Moncada aveva deciso di potenziare la difesa, individuando in Favignana il luogo di raccolta dell’armata di galere che doveva proteggere i Regni di Sicilia e Napoli e riprendere l’isola di Gerba (Djerba) (Anatra, 2001: 137-139).
Ma il particolare sistema di armamento navale della Spagna creava numerosi problemi. Il re non aveva a disposizione una marina da guerra permanente, sul tipo di quelle moderne, perciò utilizzava imbarcazioni costruite ed armate solo nei momenti di maggiore necessità, spesso col contributo di “particolari” che armavano le proprie navi stipulando un asiento, o contratto, col sovrano (Sirago, 2019: 111 ss.). Dal punto di vista finanziario il sistema era vantaggioso perché non vi erano gli elevati costi di una armada permanente, col mantenimento di un personale fisso e la costruzione di arsenali statali. Ma il costo dell’asiento era piuttosto alto e mancava personale qualificato per armare le galere nel momento del bisogno (Pazzis Pi Corrales, 2001: 160). Inoltre Carlo aveva ordinato di creare una fanteria scelta, le “Compañías Viejas del Mar de Nàpoles” per assegnarla come presidio fisso alle galere di Napoli e del Mediterraneo, il che aumentava il costo delle spese di guerra (Pazzis Pi Corrales, 2019: 279-281). In questo contesto appariva ancor più chiaro il ruolo del viceregno meridionale, subordinato sempre più all’assolutismo carolino e utilizzato per reperire fondi da destinare alle guerre del milanese e alla difesa delle coste regnicole dagli assalti di turchi e barbareschi.
Nelle istruzioni inviate il 22 marzo 1518 da Carlo al viceré di Napoli Ramon de Cardona il re ribadiva che il compito principale era quello della difesa. A questo scopo sosteneva la necessità di una capillare organizzazione militare, da espletarsi in modo “statico”, con opere di fortificazione nella Capitale, al Castel Nuovo, al molo, all’arsenale e nei castelli di confine, Gaeta e Crotone, ma anche “dinamico”, con il ripristino di un buon numero di galere e l’utilizzo dei forzati nelle sole galere regie, da usare nei periodi invernali per la risistemazione delle fortificazioni di Napoli e Gaeta (Pilati, 2001), seguendo la strategia già perseguita dal Cattolico (Sirago 2005).
Ma i piani del Moncada furono vanificati dalle mire espansionistiche del sultano Solimano il Magnifico, bisnipote del Conquistatore. Solimano è senza dubbio il sovrano più celebrato della dinastia ottomana, perché nei suoi 46 anni di governo estese la sfera d’influenza dell’impero turco, ampliando anche la Capitale che dagli iniziali 400 mila durante il suo regno arrivò a 700 mila abitanti (Mantran, 1999). Come primo obiettivo si pose quello di occupare i Balcani, dove dal 1521 cominciò lentamente ad avanzare, occupando Belgrado, dilagando in Ungheria e Transilvania, costituendo una pericolosa minaccia per i domini dell’impero carolino (Szakàly, 1998). Così le relazioni tra l’impero ottomano e la monarchia cattolica cominciarono lentamente a deteriorarsi (Kumular, 2005).
Nel 1522 il Sultano decise di sferrare un attacco decisivo, occupando l’isola di Rodi, da molti secoli la roccaforte dei Cavalieri Gerosolimitani, che ne avevano fatto la base logistica per la difesa navale della Cristianità. In effetti i Cavalieri, pur esercitando la “guerra di corsa”, fino alla fine del XV secolo avevano cercato di mantenere rapporti di buon vicinato con l’Impero turco. Ma nel 1480 vi era già stato un primo tentativo per scacciarli dall’isola, posta al centro del Mediterraneo, diventata uno degli epicentri della “guerra di corsa” cristiana. Perciò il Sultano, consolidate le sue posizioni nei Balcani, aveva deciso di imprimere una decisiva svolta alla politica mediterranea, riuscendo ad espugnare la fortezza di Rodi il 24 dicembre dopo un lungo assedio, per cui il 10 gennaio 1523 i cavalieri presero la via dell’esilio (Mallia Milanes, 2004:114ss).
In un primo tempo si rifugiarono con la flotta nel porto di Napoli, poi furono accolti in quello di Civitavecchia. Infine Carlo, dopo l’incoronazione del 1530 a Bologna, con l’approvazione di papa Clemente VII (Mallia Milanes, 2001), Giulio Zanobi di Giuliano de’ Medici, aveva concesso in feudo ai Cavalieri l’isola di Malta, che divenne in breve una formidabile base di “corsa” cristiana (Earle, 1970).
In un primo momento Carlo non si era interessato alle imprese mediterranee, preoccupato da altri fronti di guerra europei. Ma dopo l’assedio di Rodi la monarchia spagnola si trovò a dover fronteggiare un altro momento critico nel 1528, quando l’esercito francese, comandato da Odet de Foix, conte di Lautrec, disceso nel Regno, arrivò ad assediare Napoli. Intanto le due flotte alleate dei francesi, quella di Andrea Doria, comandata dal nipote Filippino, sul Tirreno e quella veneziana in Adriatico, ingaggiavano cruente battaglie. Ugo di Moncada, nominato viceré di Napoli nel 1527, ebbe il titolo di “almirante del mare” e si diede da fare per raccogliere le forze necessarie: il 28 aprile 1538 ingaggiò un’aspra battaglia vicino Salerno, a capo d’Orso, con la flotta di Andrea Doria, comandata dal nipote Filippino, perdendo la vita, mentre venivano distrutte quattro galere delle sei napoletane. Vennero presi numerosi prigionieri tra cui Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, e Ascanio Colonna, portati a Genova. Sembrava che il Regno fosse perduto: ma in agosto il Lautrec morì di peste e Andrea Doria, forse su suggerimento del d’Avalos, decise di accettare il contratto con la Spagna, pagato il doppio rispetto a quello francese, per mettere al servizio della monarchia spagnola le sue 12 galere. Ottenne anche la carica del Moncada, “Capitano Generale del Mare” e il feudo di Melfi col titolo di principe. Cesareo Fernandez Duro (1895, I: 145-146) ha sottolineato che la perdita di una battaglia navale avrebbe poi dato all’imperatore preponderanza sul mare: egli infatti fece tesoro degli errori e col valido aiuto di Andrea Doria cambiò strategia bellica e navale.
Da quel momento uno degli obiettivi della politica carolina fu quello di attaccare le basi costruite dai corsari barbareschi in Africa settentrionale, costituendo ad Algeri e Tunisi degli Stati satelliti sotto la protezione dell’Impero ottomano (Mele, 2004). Per ottenere sicuri risultati in questa prima fase della politica navale, Carlo decise di consolidare il sistema della armata mediterranea formando quattro squadre, di Spagna, Napoli, Sicilia e Genova (Buñes Ibarra, 2006a:82). Quella di Genova, da aggregare alla napoletana, era formata con navi asientate (affittate) dai capitani genovesi Andrea e Antonio Doria che dagli anni ‘30 avevano stipulato dei contratti con l’imperatore per fornire un certo numero di galere, 12 di Andrea e 4-5 del cugino Antonio (Sirago, 2001).
In quegli anni il viceregno napoletano e quello siciliano, in prima linea nella guerra contro gli ottomani, avevano sviluppato una “ossessione turca” dovuta ai continui attacchi alle coste, che venivano sistematicamente devastate (Spagnoletti, 2004). In quel periodo vi furono dissapori fra il don Pedro di Toledo, nominato viceré di Napoli nel 1532, che voleva la nomina di capitano della flotta napoletana per il giovane figlio don Garcia, e l‘anziano generale Andrea Doria, che non era d’accordo, ritenendo che l’importante carica non potesse essere assegnata ad un giovane inesperto. Ma il Toledo, un personaggio importante per la politica madrilena, riuscì nel suo intento. Così nel 1533 don Garcia, al comando della flotta napoletana, iniziò la sua splendida carriera partecipando a sue spese con il Doria alla difesa di Corone, per la quale erano state raccolte 30 navi e 59 galere, tra cui quelle napoletane (Sirago, 2001 e 2018: 129-130).
Ma l’imperatore notava che ormai nel Mediterraneo non c’era più scampo, anche perché nel febbraio del 1535 il sultano Solimano aveva stipulato un trattato con il re di Francia Francesco I, con cui da dieci anni manteneva relazioni amichevoli (De Rosa, 2001). Lo stesso 1535 Carlo V aveva deciso di occupare Tunisi, “nido” del Barbarossa, in modo da fermare l’avanzata del nemico. Aveva fatto armare una flotta di 82 galee e 200 vascelli ponendosi al comando dell’impresa malgrado il parere contrario del Consiglio di Stato (Sirago, 2018: 117ss.).
Anche Napoli partecipò al riarmo della flotta. Don Pedro de Toledo, dopo aver organizzato le galere napoletane, poste al comando del figlio don Garcia, chiamò a raccolta i baroni, sollecitandoli a difendere le coste meridionali e siciliane. Poi convocò un parlamento straordinario per raccogliere i fondi necessari. I baroni risposero all’appello raccogliendo 150 mila ducati. Ed alcuni di essi, Alfonso d’Avalos, Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, e Pietrantonio Sanseverino, armarono una galera ciascuno (Sirago, 2018: 117ss.). Lo stesso armamento fu approntato in Sicilia (Scalisi, 2017).
La flotta partenopea partì da Napoli il 26 maggio per unirsi in Sardegna a quella spagnola e alle altre flotte alleate, tra cui quella papale, composta da 12 galere, comandata dal conte dell’Anguillara, Virginio Orsini (Guglielmotti, 1886-1893). In totale si contavano 75 galere secondo l’oratore mantovano Agnelli, oltre a numerosi scafi più piccoli, per cui si poté raccogliere un’armata di circa 200 imbarcazioni. Con questa grossa armata l’Imperatore riuscì nell’impresa, prendendo Tunisi il 20 luglio (Fernandez Duro, 1895, I, cap. XVI; Coniglio, 1959). La vittoria riuscì grazie all’ausilio di una vasta rete di spionaggio e all’apporto fondamentale di tutte le forze alleate. Essa fu coordinata e organizzata in modo capillare da Andrea Doria che, dopo un saccheggio durato due giorni, riuscì a prendere la fortezza de La Goletta e riconquistare Tunisi, catturando 10 mila schiavi. Ma malgrado la splendida vittoria l’esercito di Carlo non poté catturare Barbarossa che riuscì a fuggire, attaccando Minorca. Poi si rifugiò a Costantinopoli dove ricominciò ad allestire la flotta, che aveva subìto grosse perdite (Muoni, 1876).
La splendida vittoria rimase impressa nell’immaginario collettivo, tanto che l’Imperatore fu acclamato come “novello Africano” (Rodriguez Salgado, 2001). Tornato in Sicilia, da qui risalì le terre calabre, accolto festosamente: il 25 novembre entrò trionfalmente in Napoli, dove fu accolto dai massimi dignitari del Regno e dai più importanti feudatari, tra cui i prìncipi di Bisignano e Salerno (Hernando Sanchez, 1988, 2001), con un apparato scenico degno dei trionfi imperiali organizzati in epoca romana (Megale, 2001). A questi festeggiamenti partecipavano i più importanti protagonisti dell’impresa, Andrea Doria, il marchese del Vasto, Alfonso d’Avalos, suo cugino, Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, e Pietrantonio Sanseverino, principe di Bisignano, insieme a Bernardo Tasso, padre di Torquato (Sirago, 2021).
Nei mesi di permanenza di Carlo V a Napoli la corte militare, protagonista della campagna africana, diede il passo alla corte aristocratica immersa nella società galante di una città abitata da prìncipi, che organizzarono splendidi festeggiamenti per l’Imperatore (Hernando Sanchez, 2016). Una delle feste più importanti fu il convito-accademia allestito nei giardini della Villa di Poggio Reale dai nobili napoletani, offerto all’Imperatore per festeggiare Margherita d’Austria che qualche giorno dopo avrebbe celebrato le nozze con Alessandro de’ Medici (Toscano, 2012).
Ma la vittoria di Tunisi non consentì all’Imperatore di limitare l’espansionismo della Sublime Porta (Rodriguez Salgado, 2001).Difatti i turchi non si erano dati per vinti: due anni dopo avevano preparato una spedizione contro le coste pugliesi, devastandole e distruggendo Castro, una città fortificata del basso Salento, malgrado il pronto intervento della flotta napoletana, comandata da don Garzia di Toledo e di Andrea Doria con le sue galere (Mafrici, 1995: 60).
Preoccupati da questi sinistri eventi, acuiti dalla sconfitta alla Prevesa (Fernandez Duro, 1895, I: 229ss.), nel 1538 papa Paolo III, Alessandro Farnese, l’imperatore e la Repubblica di Venezia decisero di stipulare una Lega contro i Turchi; poi in giugno, con la mediazione del papa, Carlo V e Francesco I stipularono una tregua di dieci anni per mantenere lo status quo in Piemonte (De Rosa, 2001: 91). Ma nel 1540 Venezia abbandonò la Lega, stipulando una pace separata con l’Impero Ottomano. Carlo, venuto a conoscenza dei nuovi preparativi bellici di Solimano, nel 1541 avviò i preparativi per una spedizione contro Algeri, il “covo” di Barbarossa, anche se Andrea Doria non era d’accordo perché riteneva che le forze navali spagnole non fossero adeguate rispetto a quelle turche. Ma l’Imperatore, postosi a capo della spedizione, volle procedere all’impresa che, come vaticinato dal Doria, si risolse in un disastro, con gravi perdite di uomini e navi (Fernandez Duro, 1895, I, cap. XVIII; Lane-Poole, 1890; Kumular, 2014).
Da quel momento la situazione per la Spagna si fece preoccupante, anche perché l’investitura del ducato di Milano determinò la riapertura del conflitto franco – spagnolo con la Francia.
Nello stesso 1541 il sultano aveva ripreso le offensive in Ungheria. Due anni dopo aveva ordinato al Barbarossa di unirsi con l’esigua flotta francese, composta da cinque galere, per far indicare dall’ammiraglio Antoine des Aimars, signore de la Garde, detto Paulin, gli obiettivi da colpire allo scopo di indebolire le forze dell’Imperatore. Il Barbarossa, dopo aver distrutto Reggio Calabria ed altre terre, raggiunse Marsiglia, da dove cercò di assalire Nizza. Poi, sciolta l’alleanza con il Re di Francia Francesco I, Barbarossa tornò a Costantinopoli con un cospicuo bottino (Fernandez Duro, 1895, I: 263ss.). Poco dopo morì, lasciando il potere al suo luogotenente Dragut, viceré di Algeri e signore di Tripoli, che continuò a saccheggiare le coste meridionali (Gosse, 2008)
Ma altri venti di guerra soffiavano su Napoli: nel 1547 erano scoppiati dei tumulti poiché il viceré Toledo aveva tentato di introdurre l’Inquisizione “all’uso di Spagna”. Il Toledo era convinto che l’anima della sedizione fosse Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, coadiuvato dal fedele segretario Bernardo Tasso. In effetti egli si era messo d’accordo con francesi e turchi per far attaccare Napoli dalle loro flotte congiunte. Ma queste non si erano incontrate per cui la Spagna ancora una volta era riuscita a salvare il Regno. Pochi anni dopo era stato istruito un processo per cui nel 1551 il principe e il segretario erano dovuti fuggire (Pilati, 2015).
Questi furono gli ultimi anni dell’Imperatore. Stanco delle continue guerre nel 1544 aveva sottoscritto con Francesco I il trattato di Crepy con cui il sovrano francese si impegnava a combattere contro il turco. Ma la Francia tra il 1552 ed il 1558 aveva ricominciato a collaborare con Solimano, la cui potenza era cresciuta a dismisura. L’imperatore nel 1554, in occasione delle nozze con Maria Tudor, regina d’Inghilterra, assegnò al figlio Filippo II definitivamente, il regno di Napoli, il regno di Sicilia e il ducato di Milano che si aggiungevano alla reggenza del Regno di Spagna di cui Filippo era già in possesso da alcuni anni, abdicando l’anno seguente. A Filippo fu demandata la risoluzione dei problemi mediterranei (Brandi, 2008).
Il regno di Filippo II
Filippo II può essere considerato il vero creatore della grande armata del Mediterraneo sia per il gran numero di imbarcazioni costruite durante il suo Regno, sia soprattutto per aver voluto riorganizzare le armate, diminuendo in modo notevole gli asienti, o contratti, in modo da creare delle flotte di proprietà regia, controllate dagli organi di potere centrale (Buñes Ibarra, 2006b). Nel 1560 dopo la sconfitta delle Gerbe (Djerba), in cui si persero numerose imbarcazioni, il Re provvide a far riorganizzare la flotta di galere necessarie per opporsi agli assalti turchi e barbareschi (Thompson, 2006: 98). Ad essa si aggregarono le altre squadre ausiliarie, quella dei cavalieri di Malta (Rossi, 1926), dei genovesi (Sirago, 2001), dei sabaudi dell’ordine mauriziano (Aa.Vv. 1966), dei toscani dell’ordine di Santo Stefano (Gemignani, 2014) e quella pontificia (Guglielmotti1886-1893). Per la difesa del Regno meridionale tra il 1560 ed il 1570 venne creato un circuito di torri e furono ripristinate le fortificazioni delle principali città portuali, in primis quelle di Napoli (Pessolano, 2005), Palermo e Messina (Favarò, 2004), dove si raccoglieva l’Armata mediterranea. Furono avanzate anche proposte per il ripristino dei porti e delle fortezze di Brindisi (Sirago, 2000) e Taranto, dove Antonio Doria proponeva di creare delle basi alternative per le imbarcazioni della flotta incaricate di controllare l’Adriatico e lo Ionio (Sirago, 2009).
Dalla seconda metà del XVII secolo il Mediterraneo era nettamente diviso in due grandi aree, quella ottomana e musulmana e quella cristiana, perennemente in guerra tra loro (Galasso, 2004 e 2007). Il Regno di Filippo II coincise con la fase più aggressiva della Sublime Porta, che nel 1558 arrivò a saccheggiare Minorca, infliggendo dure sconfitte alla squadra spagnola nel Mediterraneo. La flotta spagnola nel 1562 subì gravi perdite presso Herradura, vicino Granada, a causa di una tempesta ma fu subito ricostruita (Braudel, 1976, II: 1041-1042). Ma in quel frangente i turchi catturarono il generale della squadra napoletana don Sancio de Leyva, tenendolo prigioniero per due anni (Fenicia, 2003: 9ss. e 99ss.).
In quegli anni il «pericolo turco» era sempre più incombente, per cui nell’arsenale napoletano si lavorava per costruire numerose galere. Nel 1563 Dragut, successo al Barbarossa, era al comando di una flotta turca di centoventi galere (Heers, 2003) con cui assalì le spiagge calabresi e saccheggiò Reggio; poi si era diretto alla volta di Napoli: qui il 23 maggio il suo luogotenente, Gian Dionigi Galeni, un corsaro calabrese detto Uccialì, (Mafrici, 2021), approfittando del fatto che Gian Andrea Doria era andato in soccorso di Orano con le galere utilizzate per la difesa del Regno meridionale, sbarcò nella spiaggia napoletana di Chiaia e tentò di assalire il palazzo d’Avalos, sequestrando 24 persone subito riscattate dal viceré (Benzoni, 1998). Infine la flotta il 13 giugno devastò Massalubrense e Sorrento, dove si racconta che furono catturati circa 12 mila prigionieri e la sorella di Torquato Tasso, Cornelia, riuscì a salvarsi con il marito e i figli fuggendo sulle montagne circostanti. Ma la sua casa insieme alle altre fu distrutta. L’episodio sconvolse tutto il Regno, vista la vicinanza di Sorrento alla Capitale, restò profondamente impresso nell’animo del poeta, che ne fece poi materia del suo poema epico (Capasso, 1866: 107ss.).
Un altro terribile episodio si ebbe nel 1565 quando la flotta turca tentò di distruggere i potenti cavalieri gerosolimitani, ponendo l’isola di Malta in assedio per quattro mesi. La manovra non riuscì per l’eroica difesa del Gran Maestro Jean Parisot de la Valette e per l’aiuto prestato da Filippo II, che in settembre mandò una flotta agli ordini dei suoi migliori generali, don Garcìa di Toledo, Alvaro de Bazàn e Giovan Andrea Doria. Dopo una sanguinosa battaglia finale, i turchi dovettero desistere, lasciando 30 mila morti, tra cui anche l’ammiraglio Dragut (Cassola, 2002).
Ma il pericolo era stato grande, per cui si cominciò a discutere sui rimedi da prendere per frenare l’avanzata delle armate turchesca e barbaresca. I pareri erano però discordi, poiché i veneziani volevano mantenere buoni rapporti con l’Impero ottomano per poter esercitare i loro commerci in Levante (Jačov, 2004). Solo nel 1570, il 20 maggio, dopo undici mesi di negoziazioni, il pontefice Pio V, Antonio Ghisleri, fortemente preoccupato per le pretese avanzate su Cipro dal sultano Selim (Solimano II), successo al padre nel 1566, riuscì a costituire la Lega Santa, una alleanza teoricamente perpetua per la difesa della Cristianità. I firmatari della Lega, Stato Pontificio, Monarchia spagnola e Repubblica di Venezia, cominciarono a raccogliere una numerosa armata: quella papale era comandata da Marc’Antonio Colonna, quella veneta da Sebastiano Venier, a cui si aggiunsero le squadre collegate, tra cui quella maltese (Morenés, 2000) e quella genovese comandata da Giovan Andrea Doria, erede di Andrea (Sirago, 2018: 66ss.).
Finalmente la flotta, al comando di don Giovanni d’Austria, fratellastro di Filippo II, il 9 agosto arrivò nel porto di Napoli (Barbero, 2010: 431ss) dove ricevette dal viceré Antoine Perrenot de Granvelle con una solenne cerimonia il vessillo donato dal papa (Sylvène, 2005). Poi ripartì per Messina dove giunsero le navi venete, e da lì veleggiò alla volta della Grecia. Il 7 ottobre la flotta congiunta sconfisse clamorosamente i turchi a Lepanto (Barbero, 2010), una vittoria di cui sono rimaste numerose testimonianze iconografiche (Mussari, 2017).
Ma fu l’apporto veneziano, in particolare quello delle sei galeazze, nuove imbarcazioni a propulsione mista, velica e remica in dotazione alla squadra della Serenissima, dotate di potenti cannoni a far pendere la bilancia a favore della flotta cristiana (Tenenti, 2001: 545).
Dopo la vittoria di Lepanto don Giovanni pose il suo quartier generale a Napoli, dove nel 1572 aveva fatto costruire la chiesa di Santa Maria della Vittoria, al Chiatamone (odierna piazza Vittoria) per celebrare la splendida vittoria. La chiesa era poi stata restaurata nel 1628 da donna Giovanna d’Austria, nata due anni dopo Lepanto dalla relazione di don Giovanni e Diana Falangola, una bellissima sorrentina di famiglia aristocratica (Nicolini, 1934). La fanciulla per celebrare le imprese paterne aveva commissionato un affresco ad un artista ignoto in cui è raffigurata la Vergine apparsa a don Giovanni d’Austria durante la battaglia per incitarlo a combattere (Regina, 2004).
Una descrizione accurata della epocale battaglia è stata scritta da Miguel de Cervantes y Saavedra, uno dei più famosi poeti soldati dell’epoca, che partecipò alla battaglia sulla galera Marquesa riportando numerose ferite per cui al ritorno dovette restare sei mesi nell’ospedale di Messina per curarsi (Arrabal, 1996) . Nel Prologo della seconda parte del suo romanzo Don Chisciotte raccontava in modo dettagliato la battaglia:
«due galere s’investono per le prue nel mezzo dello spazioso mare. esse sono incastrate e avvinghiate, e al soldato non rimane altro spazio che quello che gli concedono diedi di tavolato dello sperone; e con tutto ciò, pur vedendo … che alla prima disattenzione nel mettere i piedi andrebbe a visitare il profondo seno di Nettuno, con tutto ciò, con intrepido cuore, spinto dall’onore che lo pungola, si mette a far da bersaglio a tanta fucileria, e cerca di passare per un così angusto spazio alla nave nemica. E ciò che fa più meraviglia è che non appena uno è caduto da dove non potrà più rialzarsi sino alla fine del mondo, ecco che un altro immediatamente ne occupa il posto; e se anche questo cade nel mare che l’aspetta come un nemico, prende il suo pun altro, e poi un altro, senza dar tempo al tempo che muoiano: che è il più gran valore e ardimento, che possa riscontrarsi fra tutti quanti gli episodi di guerra» (Cervantes, 1888: 182; Mussari, 2017: 60).
Conclusioni
A Napoli il giovane principe aveva continuato a far armare galere e aveva firmato un contratto con il generale Alvaro di Bazan, primo marchese di Santa Cruz perché gliene fornisse 40 da aggiungere a quelle della flotta napoletana (Fenicia, 2003: 109ss.). Nell’estate del 1572 ancora una volta raccolse a Messina l’Armada spagnola, composta da novantasette galere, che sperava in altre facili vittorie, mentre la Porta ricostruiva la sua armata, riuscendo a fare solo delle scorrerie in Mediterraneo (Caddeo, 1942: 863). Ma la Repubblica Veneta all’improvviso il 7 marzo 1573 decise di stipulare la pace con l’Impero turco, sancendo il definitivo scioglimento della Lega (Knapton, 1992: 232-233). Don Giovanni però non si arrese, accorrendo in difesa di Tunisi nel 1574. Ma la spedizione si ridusse in un disastro, visto che la flotta spagnola non era disponibile. Difatti Filippo II dopo la firma della tregua tra Venezia e gli ottomani Filippo II aveva cominciato a mutare la sua politica marittima, preferendo diminuire le galere e dando impulso alla costruzione di vascelli, necessari per organizzare le “imprese” atlantiche mentre imperversava la guerra nelle Fiandre. Lo stesso don Giovanni l’anno seguente fu richiamato in Spagna dove gli fu dato l’ordine di recarsi nelle Fiandre per dirigere le operazioni belliche in luogo di Luigi de Requenses, morto all’improvviso. E qui lo raggiunse il nipote Alessandro Farnese, che lo sostituì al comando due anni dopo, nel 1578, quando anche il giovane don Giovanni morì (Stradling, 1992: 25ss).
Il Mediterraneo visse fino alla morte di Filippo II (1598) un periodo di relativa tranquillità per il reciproco abbandono delle ostilità da parte dei due principali contendenti, Spagna e Turchia (Braudel 1976, II: 1225). Ma le galere spagnole, napoletane, siciliane dovevano restare sempre in allerta per prevenire eventuali attacchi barbareschi. Un risultato concreto della battaglia di Lepanto si ebbe a Napoli nel 1577 quando fu costruito ex novo un arsenale per galere (Pessolano, 1993). Ma il tempo per le grandi armate di galere, inutilizzabili in inverno, stava tramontando: in breve si passò alle galeazze, a propulsione mista, velica e remica, e poi ai vascelli e galeoni, molto temibili per i loro cannoni (Sirago, 2004).
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Sannazaro di Napoli, ora in pensione. Partecipa al NAV Lab (Laboratorio di Storia Navale di Genova). Ha pubblicato numerosi saggi di storia marittima sul sistema portuale meridionale, sulla flotta meridionale, sulle imbarcazioni mercantili, sulle scuole nautiche, sullo sviluppo del turismo ed alcune monografie: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2013; Gente di mare. Storia della pesca sulle coste campane, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2014, La flotta napoletana nel contesto mediterraneo (1503 -1707), Licosia ed. Napoli 2018.
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