di Marinette Pendola
La storia non è poi/ La devastante ruspa che si dice,) lascia sottopassaggi, cripte, buche/e nascondigli. C’è chi sopravvive (Montale)
Scrivere storie, avviarsi verso sottopassaggi mai percorsi prima e penetrare in cripte, buche e nascondigli, attraversare un mondo sommerso sconosciuto ai più e portarlo alla luce affinché i sentieri poco battuti diventino parte della Storia: questo mi è toccato in sorte dalla vita. Attraverso il racconto, un intero mondo prende vita e nasce in qualche modo alla Storia. Scrittura come testimonianza dunque, ma anche come approdo ultimo di un’esperienza umana, sociale e linguistica che copre circa due secoli.
Tutto ebbe inizio negli ultimi anni del diciannovesimo secolo. Fra le tante famiglie che lasciarono la Sicilia per la Tunisia, so di quattro, i miei antenati conosciuti attraverso le leggende familiari e i loro figli che divennero i miei nonni. Ci fu la nonna paterna arrivata a Tunisi tredicenne, la cui madre non si rassegnava allo sradicamento e consumava i pochi risparmi per ritornarsene ogni tanto a respirare l’aria di Alcamo. Ci fu il nonno paterno che aveva appena sei anni e attraversò quel lembo di mare da Sciacca su un barcone di pescatori, insieme alla madre, la nonna, il fratello minore e il padre in fuga dopo aver assistito a un delitto di mafia. Ci fu anche il nonno materno arrivato a Tunisi diciassettenne insieme alla madre, partito da Giarratana dopo la morte del padre, lui ormai uomo e capofamiglia. E poi non dimentico la nonna materna, l’unica nata a Tunisi pochi mesi dopo l’arrivo della famiglia da Villalba, figlia di fornai rovinati dalla crisi del grano di fine Ottocento.
Tutti si lasciarono alle spalle le vecchie storie di Sicilia senza mai dimenticarle e approdarono nella nuova terra con il solo carico di miseria e buona volontà. Delle loro sofferenze, dei legami definitivamente recisi, degli adattamenti faticosi, a noi bambini giunse solo un’eco lontana, come di leggenda in cui i dolori, le paure, le ansie erano a tal punto stemperati da non cogliersi più. Soltanto ora, da adulta e con un’esperienza simile, posso capire la fatica del ragazzo Giovanni che scende a piedi da Giarratana con la vecchia madre in cerca di un porto da cui imbarcarsi, il terrore del bisnonno Baldassarre che lo porta a fuggire, la nostalgia della bisnonna Rosaria che non può strapparsi Alcamo dal cuore, l’impellente bisogno del bisnonno Michele di ricominciare da capo dopo la distruzione del suo forno. Ora che ho conosciuto i loro luoghi, dopo un iniziale stupore, capisco. Capisco il coraggio che fortificava ogni loro fibra. Capisco la potenza della disperazione e la forza che dà.
Tutte queste persone finiscono casualmente in un lembo di terra ai piedi del monte Zaghouan, Bir Halima, che diventerà paese grazie anche a loro. Trovano lavoro presso grandi proprietà terriere acquisite con facilitazioni coloniali dai francesi Chevallard, Grémaud, Ducroquet, Janel e Roquerol, i quali intendono valorizzare quei terreni coperti di boscaglia per trasformarli in campi coltivabili. Perciò diventano facilmente punto di approdo di famiglie siciliane disperate, sbarcate da poco e stipate in qualche fondaco della capitale in attesa di un qualsiasi sbocco. I miei antenati si mettono a disboscare, trasformano la legna raccolta in carbone che vanno a vendere a Tunisi per procurarsi l’essenziale: olio, farina, sale, qualche volta caffè e zucchero, in quantità sempre modeste.
Che cosa facciano le donne non so. Posso soltanto immaginare il loro percorrere la campagna in cerca di erbe da bollire e portare a tavola, il loro lavoro quotidiano per tenere in ordine il misero gurbino, quella casupola costruita con materiali scadenti, che chiamano con lo stesso termine indicante la casa del contadino tunisino fatta con mattoni di fango e paglia. E ancora il loro strenuo zappare il poco terreno disponibile intorno a casa per seminare quel po’ di fave che renderà la terra più fertile e i pasti meno monotoni, il loro estenuante tornare dalla fontana con il carico di acqua necessario al fabbisogno quotidiano. D’altronde l’acqua non manca come fa intuire il toponimo: Bir Halima significa Pozzo di Halima. E la leggenda narra di una certa Halima che vi si buttò non si sa perché né quando, proprio come fece il fratello del nonno Giovanni, che, in pieno delirio da febbre malarica acuta, cercò refrigerio nel pozzo in cui annegò, pagando così il primo tributo di sangue a quella terra selvaggia.
So perfettamente quello che non fanno i bambini: non vanno a scuola, non giocano. Non ne hanno il tempo. Devono contribuire con le loro modeste forze all’economia familiare: i maschi, finché sono piccoli, sorvegliano le carbonaie; quando superano i dieci anni, prendono la zappa e, con le mani non macchiate d’inchiostro ma indurite dai primi calli, vanno con i padri a disboscare. Le femmine hanno un carico di lavoro pari a quello delle madri, ma soprattutto si occupano dei fratelli minori. Questo è il motivo per cui sono analfabeti. A Bir Halima, una scuola viene costruita nel 1906, ma pochissimi siciliani la frequentano.
Non so molto altro. I primordi della vita a Bir Halima sono avvolti nelle leggende. L’infanzia dei nonni emerge casualmente dai loro racconti, come incidenti del narrare. Tento di ricostruire un mosaico possibile cercando i tasselli sparpagliati fra aneddoti e favole. La durezza di quegli anni, o forse ancora di più il tempo, ha levigato le sofferenze, lasciando emergere un vissuto di leggende in cui i morti convivono con i vivi, a volte aiutandoli, molto più spesso sfidandoli. Vi sono tesori sepolti sotto alberi di carrubo o nelle fondamenta di una certa casa, nascosti dagli antichi romani oppure dai pirati e custoditi dalle anime di schiavi sacrificati all’uopo. Per dissotterrarli, queste anime vanno blandite con l’aiuto di qualche stregone africano arrivato da oltre il deserto. Il prezzo è molto alto e richiede a volte rinunce impossibili come il sacrificio di un figlio. Tutti sanno dove sono nascoste le truvature ma, a queste condizioni, nessuno ha più voglia di trovarle. Perciò rimangono sepolte continuando ad alimentare le leggende. E diventano metafora dell’agire. Voltando e rivoltando pazientemente la terra con la zappa, come gli eredi di quel contadino di La Fontaine la cui poesia studiai a memoria nella scuola francese di Zaghouan, quei poveri contadini trasformano quella boscaglia in un tesoro di fertilità.
A Bir Halima o nei dintorni, i miei quattro nonni si conoscono, si riconoscono e si sposano. Pochi anni dopo, si trasferiscono come mezzadri a Draa-ben-Jouder, grande latifondo appartenuto fino agli inizi del XX secolo al principe di Baucina e passato poi a una società francese. Qui comincia l’ascesa economica della famiglia paterna che, nel giro di una ventina d’anni, riesce a diventare proprietaria di due aziende agricole. La famiglia s’imborghesisce: la terra è lavorata da braccianti e macchinari. Gli uomini assumono funzioni direttive, le donne si dedicano a mansioni casalinghe, al ricamo del corredo e alla vita sociale. La famiglia materna, composta da uno spirito artistico poco incline all’imprenditoria e da una donna intraprendente a cui è lasciato poco spazio, vivacchia.
Venuti dai quattro angoli della Sicilia, come molti loro conterranei, per intendersi creano nel tempo un linguaggio comune. Non so chi di loro usasse il termine catu, chi bagghiolu, per indicare il secchio. So per certo che insegnarono ai miei genitori, e di conseguenza anche a me, a chiamarlo stallu, come fanno i tunisini. Non so come i miei nonni chiamassero il quaderno. Soltanto il nonno Giovanni aveva imparato a leggere e a scrivere andando alla scuola serale che il bisnonno Michele, suo futuro suocero, aveva istituito nella sua misera casupola. So per certo che i miei genitori lo chiamavano cahier, come avevano imparato nella scuolettina francese che frequentarono.
Nei loro ricordi ho cominciato a scavare come un archeologo che non sa ancora quel che troverà. Di certezze ne ho trovate poche, ma alcune ipotesi credibili hanno acquisito robustezza. Ho potuto collocare in un tempo preciso alcuni aneddoti, confrontarli con i ricordi di altri, trarne una visione d’insieme più che plausibile. Ho potuto dedurre alcuni meccanismi che hanno trasformato le varie parlate siciliane in siculo-tunisino. Ho capito quando e come alcune specialità culinarie locali sono entrate nell’uso comune adattando e trasformando la tradizione fino a crearne una nuova.
Ho vissuto un’infanzia serena, ricca di stimoli, in totale equilibrio con l’ambiente e le persone, accumulando ricordi felici. E di tutto ciò, sebbene sia stato un nutrimento inconsapevole perché a lungo ignorato, ho fatto tesoro negli anni bui che sono arrivati con la nostra partenza avvenuta alla fine della colonizzazione.
Le giovani nazioni, sostiene lo scrittore Albert Memmi, sono gelose della libertà appena conquistata e, aggiungerei, ne sono inebriate al punto da mettere nello stesso fascio come malerbe i colonizzatori e gli altri europei. Di queste considerazioni non c’era ombra allora nel nostro sentire. Nelle conversazioni quotidiane, tutti accompagnavano il sostantivo partenza con l’aggettivo definitiva, come se si trattasse dell’ultimo viaggio, quello della morte. Questo sentivamo tutti. Il nostro mondo si sgretolava sotto i piedi, inesorabilmente. E un giorno la nostra casa non fu più nostra, la nostra terra nemmeno. Non volevamo partire ma abbiamo dovuto. Siamo saliti su una nave tutta bianca in un pomeriggio grigio. Ci hanno fatto scendere scale a non finire, oltre le suite, oltre le cabine di prima classe, giù, giù fino alla terza, quella dei grandi cameroni con i letti a castello su cui le vecchie non volevano salire. Mi sono arrampicata in alto. Toccavo i bulloni bianchi del soffitto allungando appena la mano. Ero schiacciata fra letto e soffitto. Mi mancava l’aria, ma avevo un posticino tutto per me, lontano dai pianti e dai lamenti. Bastò chiudere gli occhi per sciogliere un po’ – solo un po’ – l’oppressione che stringeva la gola. E adattare il respiro al ritmo della nave che beccheggiava, guscio di noce smarrito nel mare grosso di gennaio. In obbedienza cieca a quel movimento attraversammo il mare fino a Palermo prima e a Napoli dopo, e agli sguardi di commiserazione, di curiosità, di distanza, che d’improvviso ci fecero miserabili, strani, altri.
Poi venne il campo profughi con il vento glaciale dei monti della Ciociaria, una stanzetta per nucleo familiare, uno scaldino minuscolo sopra la porta, gli spifferi crudeli e ostinati, e i maglioni di lana uno sull’altro, di giorno come di notte.
Venne anche il tempo di Bologna e dello stupore della gente. Esistevano allora due categorie di umani: loro e i terroni. Loro erano la maggioranza, erano quelli giusti, quelli che rispondevano: «Altro!» all’ultima domanda del negoziante. I terroni rispondevano: «No, grazie, basta così!» con accento pesante e i soldi contati in mano. Il negoziante tollerava, le massaie anche, purché si rispettasse la fila. Loro si distinguevano dagli altri che camminavano a testa china, avevano la pelle un po’ più chiara e i gesti disinvolti, ma ai nostri occhi erano molto simili. Forse non mangiavano le stesse cose, ma vestivano e pregavano allo stesso modo. Noi eravamo più altri degli altri. Eravamo una scheggia conficcata in un deserto di uniformità.
Vennero i tempi duri della conquista della lingua. Indicavamo con il dito puntato quello che volevamo, acquistando a volte, per timore di contraddire il negoziante, cibi che non conoscevamo. Scoprimmo le mele asprigne e il radicchio amaro come l’esilio. Imparammo con pazienza a nominare ogni cosa, a fare dialoghi cantilenanti, ad avere un accento insospettabile.
Con gli anni e la pazienza, venne il tempo del mimetismo che ci rese simili a tutti gli altri, indistinguibili. Solo ci rimase piantata nel cuore la freccia acuminata della nostalgia, come una pena segreta che nessuno avrebbe mai capito, nemmeno i nostri figli. Sapevamo che sempre nella nostra vita avremmo camminato su un doppio binario, con un piede ben saldo su questa riva e l’altro conficcato in quell’altra.
In me, il peso dell’esperienza vissuta dai miei ascendenti e da me stessa bambina era un fiume carsico che chiedeva di emergere a volte con prepotenza, esplodendo in emicranie cicliche: la mia testa non era in grado di canalizzare le due vite, il prima e il dopo, in un unico fluire. Per lungo tempo ci fu un prima gelosamente sepolto nelle pieghe dell’anima, nascosto da strati inamovibili di polvere, segreto quasi come una colpa. E ci fu un dopo saldamente ancorato al vivere quotidiano, proiettato verso il futuro e cocciutamente dimentico del passato.
Due vite, due mondi apparentemente inconciliabili. Un lungo percorso psicoterapeutico gettò ponti sull’abisso che li separava e incanalò quelle acque oscure verso la luce che le illuminò di nuova freschezza e le condusse in un unico alveo. E fu un lento nuotare fino alla scrittura e a una nuova consapevolezza. Non portavo colpe in me, poiché la diversità colpa non è. Molteplici culture avevano attraversato il mio vivere e il mio sentire. Ero ricca di tutti questi mondi e dell’eredità degli antenati, delle loro sofferenze e del loro coraggio. Era – ed è – un mio dovere di gratitudine testimoniare per loro e, nel portare alla luce le loro storie, restituire loro dignità.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
___________________________________________________________________________
Marinette Pendola, scrittrice, è nata a Tunisi da siciliani nati a loro volta in Tunisia. Partita da Tunisi nel 1962, da allora vive a Bologna. Ha pubblicato: L’alimentazione degli italiani di Tunisia, Tunisi, Finzi, 2006; Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Gualdo Tadino, 2007. Per la narrativa, i romanzi: La riva lontana, 1° ed. Sellerio, 2000; 2° ed. Arkadia 2022; La traversata del deserto, Arkadia, 2014; L’erba di vento, Arkadia, 2016; Lunga è la notte, Arkadia, 2020.
______________________________________________________________