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Dai barconi all’Università. Le lingue come passaporto

coverdi Antonino Cusumano

Che l’immigrazione sia tema tanto più dibattuto quanto meno conosciuto è uno dei numerosi paradossi del nostro tempo. Nella pandemia mediatica delle retoriche securitarie e delle ideologie xenofobe che ammorbano l’aria del nostro Paese rimane sepolto e invisibile tutto un mondo, vivo, silenzioso e operoso, quello che abita ai margini delle rappresentazioni della ribalta e al centro della nuda realtà quotidiana, a diretto contatto con gli uomini e le donne in carne ed ossa. Una galassia fatta di volontariato e istituzioni, di organismi pubblici e privati, un arcipelago di associazioni e soggetti protagonisti di buone pratiche e di esperienze metodologiche innovative, una rete di servizi sussidiari e di percorsi progettuali volti a favorire in varie e molteplici forme processi di inclusione sociale e promozione culturale.

L’insegnamento della lingua italiana è tra le opportunità offerte ai migranti quella più preziosa perché condizione indispensabile per il loro accesso non solo ai diritti fondamentali ma anche alla vita stessa della comunità ospitante. La lingua, si sa, non è mai un fatto formale, è la chiave di lettura della realtà e del nostro modo di ordinare i dati dell’esperienza, di pensare il mondo, di esservi e di abitarlo. «Le lingue sono per noi qualcosa di più che sistemi di comunicazione intellettuale. Esse sono abiti invisibili che si drappeggiano intorno al nostro spirito e predeterminano la forma di tutte le sue espressioni simboliche». Le parole di Edward Sapir (1969: 218) rimbalzano sulle pagine di Tullio De Mauro (1992: 79-80): «La lingua non è un vestito. È oggetto di un investimento, anzi di un coinvolgimento, prima che di un investimento: di un coinvolgimento psicofisiologico. (…) La lingua viva e vera non è lo sfero di Parmenide, un essere uguale a se stesso in ogni suo punto. Una lingua è fatta di variabilità». De Mauro è convinto della ricchezza che ogni lingua rappresenta in sé e delle notevoli potenzialità di risorse affidate al possesso di più lingue, dell’importanza dunque di una politica del plurilinguismo, come del pluriculturalismo, fondamentale fattore di crescita intellettuale e sociale.

Per i giovani migranti che stipati nei barconi o nascosti nei tir arrivano nel nostro Paese le questioni linguistiche sono pregiudiziali alla conoscenza e al riconoscimento. Le lingue che parlano e quelle che ascoltano sono impegnate nella difficile e asimmetrica sfida della prima interazione e della comprensione reciproca. L’apprendimento dell’italiano attraverso specifici corsi di formazione concorre a plasmare quell’ambiente di contatto che vale a dare senso alle pratiche dell’accoglienza e un più rassicurante orizzonte al progetto migratorio. L’alfabetizzazione, dunque, come percorso di arricchimento non solo linguistico ma anche relazionale, affettivo, identitario, civico. Una scolarizzazione fuori dai curricula scolastici, modulata all’interno di una strategia didattica che privilegia approcci orientati alla verbalizzazione in forma di narrazioni di sé e alla coproduzione di simboli e significati condivisi.

Palermo, Scuola di italiano per Stranieri

Palermo, Scuola di Lingua italiana per Stranieri

È l’impegno che dal 2008 compie con generosità di competenze e professionalità la Scuola di Lingua italiana per Stranieri (ItaStra) della Università di Palermo, una struttura diretta da Mari D’Agostino che lavora soprattutto (anche se non solo) con i giovani profughi e con i minori stranieri, in una feconda prospettiva di sperimentazione pedagogica e di ricerca sociolinguistica. «Dal momento in cui il primo “giovane migrante solo” è entrato a S. Antonino, sede di ItaStra, – ha scritto D’Agostino (2018:77) – ricerca e didattica hanno dovuto correre molto in fretta, per rispondere a nuovi bisogni, la costruzione di nuovi modelli didattici e di contesti e luoghi di immersione linguistica e condivisione di esperienze».

Narrazioni autobiografiche e valorizzazione del plurilinguismo sono le efficaci linee guida della metodologia adottata dalla Scuola nella realizzazione di progetti laboratoriali che unitamente alla alfabetizzazione hanno perseguito l’obiettivo di strappare gli allievi ai traumi dell’afasia e della segregazione. Da questi presupposti muove la pratica immersiva di mutuo apprendimento che vede protagonisti insieme agli studenti stranieri gli universitari siciliani impegnati nel loro tirocinio presso ItaStra. L’incontro tra le diversità nella pluralità di lingue e culture esita nel dialogo spontaneo di ragazzi e ragazze – studenti o tutor – attraverso lo scambio delle storie di vita, la partecipazione a spazi e luoghi comuni, a giochi di ruolo e a fatiche di studio. Tra arte, musica, sport, animazione teatrale, esplorazione della città, escursioni fotografiche e documentazioni video, l’esposizione all’italiano nei contesti e nei progetti più diversi mette insieme oralità e scritture, disegni e sonorità, corpi e oggetti, sguardi ed emozioni. Tra l’aula e la strada si inventano e si costruiscono così percorsi di apprendimento non solo della lingua italiana, ma anche dell’arte della conoscenza e della convivenza umana e culturale.

Senza questa intensa e straordinaria esperienza didattica, senza gli incontri, i dialoghi, le voci e le storie di questi giovani africani che dai barconi sono arrivati all’università con le loro plurime lingue e le loro tenaci speranze, non sarebbe potuto nascere l’ultimo libro di Mari D’Agostino, Noi che siamo passati dalla Libia. Giovani in viaggio fra alfabeti e multilinguismo, edito nel 2021 da Il Mulino. Chi vuole davvero capire chi sono questi migranti che chiamiamo clandestini e stimiamo fuorilegge, chi vuole tentare di uscire dai luoghi comuni dentro cui ci aggrappiamo per giustificare le nostre pigrizie mentali, scoprirà nelle pagine di questo volume denso di vivida umanità un mondo di adolescenti la cui soggettività spesso oscurata o minimizzata è invece dotata di risorse intellettuali e personali, di energie esistenziali e capitali simbolici, di capacità e identità transnazionali. Agenti di una globalizzazione che spinge alla mobilità e alla dislocazione, i giovani profughi sono figure liminari e in quanto tali si muovono con una certa disinvoltura dentro un complesso sistema di network che connette paesi e comunità anche lontani.

Di queste vite nude generate ai margini delle diaspore e dei nomadismi contemporanei, sopravvissute al mattatoio libico e al naufragio in mare, Mari D’Agostino raccoglie non solo le mille lingue parlate e poco conosciute ma anche le mappe delle loro identità umane e culturali, le pratiche di interazione sociale, le geografie dei viaggi e le rotte dell’immaginario. La sua è una indagine a tutti gli effetti etnolinguistica (forse più che sociolinguistica), muovendosi a partire da una ricerca che in sociologia si chiama “azione” e in antropologia “etnografica”. Nel ripensare la lezione di Giorgio Raimondo Cardone, non si può non ribadire che tutti i fatti culturali sono riconducibili a strutture e dinamiche linguistiche, così come tutti i fatti linguistici non trovano spiegazione solo all’interno della lingua. È noto che le dimensioni del linguaggio e della cultura interagiscono, interferiscono, s’influenzano reciprocamente, possono perfino fondersi. La cultura è comunicazione e la comunicazione è fatto eminentemente culturale.       

Palermo, Scuola di Lingua italiana per Stranieri

Palermo, Scuola di Lingua italiana per Stranieri

Con questa consapevolezza la studiosa, pur mettendo al centro del suo lavoro le lingue, evita le trappole pansemiologiche o glottocentriche e, attraverso le interviste in profondità individuali e di gruppo e soprattutto le storie di vita dei soggetti incontrati, fa della osservazione partecipante una procedura di approccio che contribuisce a decentrare lo sguardo e a decostruire le narrative dominanti, dando spazio ad «altre narrazioni nelle quali il nostro pezzetto di mondo e i suoi fantasmi non siano al centro della scena», come l’autrice scrive nella Prefazione. E aggiunge in conclusione del volume: «Nel disegno della ricerca ho cercato di tenere insieme in ogni momento lo sguardo ravvicinato e quello a più ampio raggio. La intersezione fra scala micro, quella del singolo parlante, e quella macro, l’insieme dei dati di una collettività più ampia, qui costituito da un corposo sotto insieme dei parlanti neo-sbarcati a Palermo».

Se è vero che narrare è verbo transitivo nel duplice senso di narrare qualcosa e di narrare a qualcuno, vi è implicita una reciprocità di azioni, una connessione intellettuale e sentimentale, un contatto che è anche un riconoscimento. Raccontare è in fondo un modo di riappropriarsi dell’esperienza vissuta nel momento in cui la condividiamo con altri, la mettiamo in comune. Le parole dei giovani migranti subsahariani disseminate nel libro di Mari D’Agostino in forma di testimonianze, di storie, di memorie, dissolvono il diaframma che confina le loro identità in categorie precostituite e dispiegano transnazionali e creative visioni del mondo e della vita, duttili modelli mentali e comportamentali, in altre parole culture aperte, mobili, fluide. Come ampio e flessibile è il ventaglio d’uso delle numerose lingue in loro possesso, un formidabile e sorprendente multilinguismo che è patrimonio culturale distintivo individuale e costituisce il centro gravitazionale dell’analisi dell’autrice e il fil rouge di tutto il libro.  

C’è una evidente correlazione tra la natura non angusta dei loro modi di pensare e il policentrismo delle loro lingue, tra la flessibilità dei sistemi relazionali e la varietà degli idiomi in rapporto ai contesti d’impiego, tra la mobilità spaziale e la facilità di acquisizione di nuovi alfabeti. Nella loro esperienza di parlanti prima e durante il viaggio migratorio è clamorosamente confutata ogni concezione reificata delle culture, quella geografia a mosaico disegnata sulla base del rapporto storico tra lingua e nazione, del mito fondato sulla coestensione fra la dimensione linguistica e l’appartenenza etnica. Entra in crisi il concetto stesso tutto occidentale di ‘madrelingua’ o ‘prima lingua’ nel parlante che non è monolingue ma utilizza idiomi cross-border o trans-border diffusi fra più Stati, a dispetto dei confini coloniali, complessi repertori transnazionali differenti ma di mutua comprensibilità. «In Africa – scrive D’Agostino – si vive in famiglie e in rapporti di vicinato multilingui e solo la ideologia dello Stato-nazione, e tutto quello che ad essa è associato (in primo luogo i processi di alfabetizzazione e scolarizzazione e di standardizzazione associati alla scrittura) ha oscurato e oscura questa diffusa realtà». 

Odisseo, Arriving Alone John. Palermo, Scuola di Lingua italiana per Stranieri

Odisseo, Arriving Alone, John, Palermo, Scuola di Lingua italiana per Stranieri

Migrano negli spazi fisici e in quelli virtuali ma migrano anche attraverso gli alfabeti più diversi questi giovani gambiani, nigeriani, senegalesi, ivoriani, ghanesi giunti a Palermo che fin dall’infanzia sono stati immersi in ambienti multilinguistici, imparando a costruire una speciale fluidità della espressione orale. Nelle dinamiche delle interazioni comunicative hanno sperimentato ed elaborato un alto grado di adattabilità in corrispondenza ad un processo di conoscenza di nuovi codici. Hanno appreso dunque durante i loro viaggi nuove lingue e, anche se di nessuna hanno piena competenza, dispongono di una amplissima gamma di possibilità comunicative. Mandinka, wolof, manjako, balanta, fula, kasangko, sarahule, aku, bambara, sono alcuni degli idiomi parlati oltre alle lingue coloniali. A guardar bene, ci avverte l’autrice, siamo di fronte a forme del multilinguismo che nulla hanno a che vedere con i modelli descritti dalla linguistica occidentale. «I parlanti con diverso background linguistico possono ciascuno usare una lingua del proprio repertorio e comprendere le lingue degli interlocutori che utilizzano idiomi molto diversi».

Questa lingua “ricettiva” che si offre a continui processi di aggiustamento e negoziazione dei codici della conversazione, a facili meticciamenti in assenza di rigide forme di standardizzazione, è la risorsa strategica chiave per le interazioni, il capitale fondamentale dell’identità transnazionale che permette ai giovani migranti di socializzare la comunicazione, di approntare risposte adeguate a situazioni critiche, di esercitare e far valere una resilienza che è frutto di saperi acquisiti in assidue pratiche di adattamento. Più che alla scolarizzazione, debole e discontinua, la disposizione all’apprendimento e all’uso di questa estrema varietà di lingue va ricondotta al regime comunitario della vita nei villaggi africani, alla estesa struttura familiare e parentale, alla frequente mobilità territoriale all’interno della stessa nazione e dello stesso continente, alla trama delle quotidiane mutualità sociali, in una parola al complesso universo semiotico della cultura di origine. “Scherzare con le lingue” di cui racconta Mohamed, gambiano, terzo di nove figli, è espressione emblematica del singolare gioco di connessioni tra codici nomadi la cui prossimità ne facilita l’uso nel continuum della produzione verbale.

«Capita che uno parla una lingua e uno risponde in un’altra. C’è una persona che parla quattro lingue ma capisce sei lingue, un altro che parla tre lingue e ne capisce anche altre due, tu mi parli una lingua che io capisco; io non so rispondere in quella lingua ma in un’altra che tu capisci, e così che funziona». 

Nel multilinguismo sociale e plurilinguismo individuale comune all’esperienza dei tanti giovani migranti protagonisti di questo libro si conferma in modo eclatante il potere eminentemente simbolico della lingua, la sua precipua funzione socializzante, il suo valore performativo e politico. Alla intelligenza delle molteplici possibilità comunicative ed espressive corrisponde un più ampio potenziale di solidali relazioni, una più versatile plasticità di visioni estranee a chiusure etniche e identitarie, un più agile bagaglio di competenze sia cognitive che psicologiche, una più sensibile e manifesta capacità di azione. Da qui anche la compresenza di più sistemi di scrittura a livello individuale e comunitario nella rappresentazione della stessa lingua, anche se gli alfabeti latino e arabo, associati rispettivamente al Cristianesimo e all’Islam, prevalgono nella diffusione delle forme testuali nel continente africano, che contro ogni evidenza empirica e documentazione storica (si pensi solo ai geroglifici) pregiudizi coloniali e post coloniali hanno ottusamente definito come un “continente senza scrittura”. A fronte delle distorsioni dei sistemi di scolarizzazione di impronta occidentale che mortificano gli idiomi nativi, le scuole coraniche classiche insegnano l’apprendimento dell’arabo attraverso una memorizzazione meccanica delle sure, una loro trascrizione letterale attenta più alle forme che ai significati.  

Odisseo, Arriving Alone, Bright, Palermo, Scuola di Lingua italiana per Stranieri

Odisseo, Arriving Alone, Bright, Palermo, Scuola di Lingua italiana per Stranieri

Sul filo delle lingue, scritte, parlate, recitate, cantate Mari D’Agostino ripercorre l’itinerario dei giovani profughi approdati all’ItaStra, ne descrive il profilo umano e anagrafico, il progetto migratorio, le storie di vita. Sono individui soli, hanno affrontato il viaggio senza fratelli, parenti, amici, molti sono minorenni, non sono protetti da alcuna catena di richiamo familiare ma sono piuttosto spinti e orientati nelle traiettorie dalla potente rete delle connessioni digitali, dalle opportunità offerte dai social, grazie alla condivisione delle informazioni. Sono poco scolarizzati ma, come abbiamo detto, molto scaltriti nelle esperienze più multiformi dei diversi alfabeti della comunicazione. Il loro viaggio – più per fuggire dalla terra abitata che per raggiungere l’Europa sognata – non è affatto unilineare né predeterminato. Segue le rotte di un lungo e tortuoso percorso segnato da traversate nel deserto, esasperate attese, schiavitù nei lavori, segregazioni e violenze, rimpatri e ripartenze. «L’attraversamento del Mediterraneo non è che l’ultima ansa, terribile e pericolosa tanto quanto altre, di un fiume nel quale confluiscono migliaia di percorsi individuali, l’uno accanto all’altro, l’uno diverso dall’altro».

La Libia – capolinea e snodo di drammatiche odissee – è al centro dei racconti dei giovani e delle riflessioni dell’autrice. La Libia come luogo di inferno, crocevia di desideri e di paure, covo di trafficanti e porto di fughe e di promesse. Qui le lingue dei migranti si incontrano, si confondono, si affratellano a plasmare un “noi” comunitario di auto- riconoscimento. L’arabo è la lingua della violenza e della morte, adoperata dagli aguzzini e dai sequestratori, la cui memoria rinvia alle preghiere dell’infanzia nelle scuole coraniche. Frammenti di suoni e di parole destinati a comporre il suggestivo puzzle del lessico migratorio – una sorta di mixed language – che Mari D’Agostino passa in rassegna investigando nei diversi contesti d’uso, nelle storie etimologiche e morfologiche, nelle funzioni simboliche a cui significanti e significati sono associati. «Non vi sono spazi esperienziali occupati da un solo idioma», scrive, così che sulle bocche dei migranti, per fare un solo esempio,  il trafficante è indicato ora con l’inglese trafiker, ora con il francese trafiquant e più spesso con coxeur, assente nei dizionari inglese e francese e utilizzato con ampie oscillazioni non solo fonico-grafiche ma anche semantiche: significando non solo il mediatore agente e responsabile della tratta criminale ma anche l’aiutante e il salvatore, assimilato all’ambigua figura del passatore.

Nel lager libico la condivisione di una orribile condizione di detenzione ha finito col forgiare una lingua ibrida, un micro-lessico costruito sul campo della segregazione, riconoscibile per alcuni termini chiave che mutuati dall’arabo identificano quelli “che sono passati dalla Libia”. Reminiscenze di scuole coraniche, parole che diventano spie simboliche di dolorose esperienze comuni, di legami e alleanze salvifiche, di voci straziate dalle torture. Ordini, imprecazioni, minacce, urla, oscenità formulati nell’arabo libico irrompono nella comunicazione tra i miliziani e restano drammaticamente impressi nel vocabolario di chi tra i profughi è sopravvissuto. Schegge strappate all’inintelligibile, brandelli di suoni e accenti incancellabili che richiamano alla mente le acute annotazioni di Primo Levi (1986: 73) sulla sua esperienza nei campi di concentramento tedeschi: «A distanza di quarant’anni, ricordiamo ancora, in forma puramente acustica, parole e frasi pronunciate intorno a noi in lingue che non conoscevamo né abbiamo imparato dopo».

Il mare è il referente insistito nel paesaggio lessicale di questi migranti subsahariani, per quanto la sua stessa perturbante idea sia rimasta a lungo estranea al loro orizzonte linguistico e culturale. Nell’immaginario il Mediterraneo è “grande e pericoloso”, e Mohamed, che è ben scolarizzato e parla e comprende un gran numero di lingue, ha incontrato in Libia per la prima volta il mare come tanti suoi compagni. Prima era un’astratta presenza nelle immagini diffuse sui social, nei versi di canzoni, nei racconti dei naufraghi.

«Ancora ho paura quando vedo il mare, mi vengono in mente tante cose, anche ieri sono stato a guardare il mare. Mi siedo, sto a guardare, mi vengono in mente tante cose, tante. Ho bisogno di pensare da solo».

Le parole di Mohamed sembrano certificare il rapporto ambivalente e contraddittorio con questa alterità magmatica ed enigmatica, mobile e sfuggente, frontiera della vita e della morte. I suoi pensieri precipitano nei recessi di quel complesso universo simbolico che oppone il mare alla terraferma e si muove ai confini dell’umano, sul sottile crinale che separa la seducente attrazione dalla inquieta e turbata repulsione.

Palermo, Scuola di Lingua italiana per Stranieri

Palermo, Scuola di Lingua italiana per Stranieri

Tra marosi e silenzi, il Mediterraneo è lo spazio delle fughe e dei naufragi, dei rocamboleschi salvataggi e delle tragiche sorti dei sommersi. Nelle voci dei profughi Kasura è la parola di chi nell’attraversamento non ce l’ha fatta, Busa o boza è, al contrario, espressione entrata anche nei media per indicare “siamo arrivati”. Lo sguardo di Mohamed seduto sulla sponda dell’Europa, assorto e perduto sull’orizzonte del mare che lo separa dal continente africano, chiude il libro di Mari D’Agostino e rimette al centro quel concetto di frontiera su cui ha ragionato il compianto studioso Alessandro Leogrande (2015: 16): «La frontiera è un termometro del mondo. Chi accetta viaggi pericolosissimi in condizioni inumane, attraverso i confini che si frappongono lungo il suo sentiero, non lo fa perché votato al rischio o alla morte, ma perché scappa da condizioni ancora peggiori. O perché sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile». Mohamed, come lo scrittore Joseph Conrad, intuisce che le frontiere della propria biografia coincidono con le frontiere del mare laddove si aprono i possibili varchi per il passaggio in un’altra età della vita, e nel bene e nel male in un’altra vita.  

Le storie dei giovani che hanno attraversato le frontiere e sono approdati all’università di Palermo raccontano di traumi e di soprusi ma anche di riscatti e di speranze. Mari D’Agostino le ha ascoltate e le ha restituite in questo libro che ci aiuta a rovesciare la narrativa convenzionale in una prospettiva decoloniale, dal lato cioè dell’Africa e non più dall’angolo visuale delle nostre impressioni  e delle nostre paure, ripercorrendo a ritroso le rotte di quanti migrando mettono in comunicazione lingue, culture e mondi diversi. In ogni pagina si percepisce il coinvolgimento dell’autrice, il suo lungo e attento lavoro di ricerca, di ascolto, di cura, di sensibilità etica e culturale. Tanto più che il suo prezioso contributo alla costruzione dei dati autobiografici – complesso sintagma di esperienze e rappresentazioni – è operazione che trascende il piano meramente scientifico e può segnare lo stesso destino del profugo davanti alla commissione chiamata a valutarne la richiesta d’asilo. In questo senso le parole incarnate nelle loro storie di vita sono fragili ponti gettati sul mare, sottili fili di Arianna. Le loro lingue passaporti di libertà.

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Riferimenti bibliografici
G. R. Cardona, Introduzione all’etnolinguistica, Utet Torino 2006
M. D’Agostino, Le lingue come luogo d’incontro. La Scuola di Lingua italiana per Stranieri dell’Università di Palermo, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 31, maggio 2018: 75-80
M. D’Agostino, Noi che siamo passati dalla Libia, Il Mulino, Bologna 2021
T. De Mauro, Aspetti linguistici di una società multiculturale, in Scuola e società multiculturale, a cura di G. Tassinari, G. Ceccatelli Gurrieri, M. Giusti, La Nuova Italia Firenze 1992: 75-82
A. Leogrande, La frontiera, Feltrinelli Milano 2015
P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi Torino 1986
E. Sapir, Il linguaggio, Einaudi Torino 1969

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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore)La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020).

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