Le ultime settimane sono state, sul piano legislativo, particolarmente importanti per le piccole comunità locali perché hanno visto l’approvazione di due provvedimenti di legge da lungo tempo attesi che, nel susseguirsi delle legislature, sono stati vittime di veti incrociati che, sino ad oggi, ne hanno sempre impedito l’approvazione.
Lo scorso 28 settembre il Senato ha approvato in via definitiva, a dodici mesi di distanza dall’analoga approvazione avvenuta alla Camera dei deputati, la proposta di legge “Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni”; risultato per il quale, nonostante la convergenza e condivisione delle diverse forze politiche, sono stati necessari sedici anni di dibattito in Parlamento, lungo tre successive legislature.
La legge, pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 6 ottobre, si propone di promuovere e sostenere lo sviluppo dei piccoli comuni sul piano economico, sociale, ambientale e culturale, favorendo l’equilibrio demografico del Paese, facilitando la residenza in tali comuni e tutelando e valorizzando il patrimonio naturale, rurale, storico-culturale e architettonico custodito dai piccoli borghi sparsi lungo tutta la penisola. Il provvedimento, che stanzia complessivi 100 milioni di euro per il periodo 2017-2023, rappresenta un’opportunità per il Paese, per ridefinire le vocazioni di questi territori e delle relative comunità, coniugando storia, cultura e saperi tradizionali con l’innovazione, le nuove tecnologie e la green economy.
La legge sui “piccoli comuni” si rivolge in particolar modo a quei territori con popolazione residente fino a 5.000 abitanti che si trovino in aree soggette a fenomeni di dissesto idrogeologico, economicamente arretrate o in via di spopolamento, con un sistema di welfare carente e distanti o scarsamente collegate ai grandi centri urbani.
In Italia sono 5.627 i comuni con meno di 5.000 abitanti, il 70% per cento del totale; amministrano il 54% della superficie del nostro Paese e ospitano poco più di 10 milioni di abitanti: il 16,6% per cento dalla popolazione totale.
Custodire la storia e la tradizione delle comunità locali, valorizzandone le potenzialità inespresse o compresse dalla modernità, è l’obiettivo della legge 158/2017, la quale ha di poche settimane anticipato, forse aprendo la strada alla sua definitiva approvazione, il via libera ad un altro importante provvedimento particolarmente atteso.
Il 26 ottobre 2017, dopo un iter di quattro anni e dopo diversi tentativi andati a vuoto in precedenti legislature, la Camera dei deputati ha approvato, all’unanimità e in via definitiva, la legge “Norme in materia di domini collettivi”. Unanimità e condivisione dimostrata nei fatti da tutti i gruppi parlamentari i quali, con l’obiettivo di ottenerne una definitiva approvazione in seconda lettura ed evitare il rischio di una ulteriore passaggio al Senato, hanno ritirato tutti gli emendamenti al testo sottoposto all’esame dell’aula. Una ulteriore lettura, infatti, approssimandosi la fine della legislatura, avrebbe quasi certamente determinato l’ennesima prova di incon- cludenza del Parlamento su questa materia.
All’apparenza una “piccola” legge che offre però, finalmente, certezza giuridica a quel “modo diverso di possedere”, come lo ha definito un insigne giurista e storico del diritto come Paolo Grossi, quello collettivo, che il fascismo, con la legge 1766 del 16 giugno 1927, aveva cercato completamente di liquidare.
Una legge che non ha avuto l’onore delle prime pagine e tuttavia riguarda un grande numero di comunità locali delle aree rurali, per lo più collocate in zone montane, ed una estensione territoriale ragguardevole pari al 9,7% dei quasi 17 milioni di ettari di superficie agricola totale; in base all’ultimo censimento dell’agricoltura dunque ben 1,668 milioni di ettari di suolo agricolo risultano in gestione a Comunanze, Università Agrarie, Regole o Comune, con denominazioni diverse a seconda della tradizione locale o regionale, nella forma della proprietà collettiva. Il riconoscimento formale dei domini collettivi, obiettivo strategico della legge, non è dunque cosa di poco conto.
Le proprietà collettive nascono in un’epoca premoderna come realtà specifica e peculiare diversa dagli altri domini pubblici o privati. In esse proprietà, gestione e uso civico delle terre, dei boschi, delle lagune sono un tutt’uno che nasce dalla valorizzazione del ruolo esercitato attivamente dalla collettività locale chiamata alla conduzione pubblica, diversa dalla mera utilità soggettiva, di una risorsa collettiva. Quelle collettive sono forme d’uso volte a tutelare le comunità attraverso una serie di vincoli, di divieti all’uso di tecniche che possono ridurre la riproducibilità delle risorse, di norme volte a mantenere un rapporto equilibrato tra popolazione e territorio. L’ordine sociale e politico che si fonda sulla comunità e sulla proprietà collettiva si pone quindi in antitesi rispetto al trinomio proprietà-ricchezza-progresso su cui si è costituita la modernità e, per questa ragione, è stato per lungo tempo negato e respinto.
La loro origine è l’esito di una storia millenaria di consuetudini (già nella Tavola di Polcevera del 117 a.c. il Senato di Roma tratta di una controversia su questi Beni di una comunità ligure) poi cristallizzate in Laudi e Statuti, redatti per lo più nel corso del Medioevo, tramandati pressoché integri fino ai giorni nostri.
Le forme di possesso comune delle risorse naturali sono state in Italia, così come in altre parti dell’Europa, in gran parte soppresse nel corso dell’Ottocento da una legislazione tesa ad affermare la generalizzazione della proprietà privata. In tale periodo è prevalsa la volontà di “liquidare” i beni comuni in tutte le loro forme e manifestazioni, intendendole come delle anomalie rispetto all’ordine giuridico ed economico che si stava affermando. Il Codice Civile del 1865 risente di questo clima e per questo evita accuratamente di contemplarle tale forma giuridica.
Paolo Grossi ha fornito un’interpretazione della storia delle proprietà collettive nuova e originale: per lui l’intervento diretto a sopprimere tali istituzioni non è stato l’esito di un processo volto a distruggere un sistema di valori arcaico per affermarne un altro teso a dispiegare forze sociali e politiche progressiste e modernizzatici ma è stato, al contrario, il risultato di un percorso teso ad eliminare quell’armatura istituzionale che si ispira alla necessità di garantire a coloro che non possiedono nulla di poter vivere in modo dignitoso e di preservare, a tal fine, le risorse da forme di sfruttamento indiscriminato e devastante.
Lo studioso racconta una storia di cui non vi è traccia nei testi scolastici e nella quale le comunità locali esprimono un’intrinseca capacità di coordinarsi ed autoregolarsi, individuando limiti alle libertà individuali capaci di scongiurare il tragico collasso. Norme sociali, ordinamenti, regole, tradizioni, usi e consuetudini sono gli strumenti del diritto che le comunità hanno adottato autonomamente, al di là delle forme canoniche del diritto, al fine di non autodistruggersi.
Le proprietà collettive che tuttora si sono conservate nel solco della disciplina tramandata dai documenti di origine medievale che a loro volta codificavano tradizioni più antiche, sono nate dalla libera scelta dei titolari dei beni di imporsi dei limiti nel loro godimento, al fine di perpetuarli alle generazioni future. Questo vincolo autoimposto, che limita innanzitutto la piena disponibilità e fa del dominio dei legittimati una situazione tutt’altro che assoluta, pone la realtà delle proprietà collettive in una prospettiva irriducibile al rigido binomio tra proprietà privata e proprietà pubblica.
Esse si definiscono in ragione di tre elementi necessari: 1) la comunità, cioè una pluralità di persone fisiche legate fra loro da un vincolo agnatizio oppure individuata sulla base dell’incolato e considerata non solo come destinataria delle utilità del fondo, ma come pluralità di soggetti chiamati a gestire collettivamente il patrimonio civico secondo regole consuetudinarie per preservare il godimento dei beni stessi alle future generazioni; 2) la terra di collettivo godimento intesa come un ecosistema completo comprendente tutte le componenti naturali ed antropiche, dal suolo al sottosuolo, alle acque superficiali e sotterranee e più in generale al paesaggio. Un patrimonio non solo economico, ma naturale e culturale; 3) l’elemento teleologico, ovvero lo scopo istituzionale, diverso e trascendente rispetto agli interessi individuali delle singole persone fisiche che compongono la comunità.
A seconda dei territori in cui sono presenti, le proprietà collettive vengono variamente denominate: “associazioni degli antichi originari”, “cantoni”, “vicinìe”, “vicinanze”, “consorterie”, “consorzi”, “consortele”, “regole”, “interessenze”, “partecipanze”, “comunaglie”, “comunalie”, “comunelle”, “comunanze”, “università agrarie”, “comunioni familiari montane”, “beni sociali”, “jus”, “ademprivi”, “ASUC”, “ASBUC”, “frazioni”, ecc. Nel Centro-Nord il patrimonio collettivo viene normalmente gestito da un ente dotato di personalità giuridica. Nell’Italia meridionale e insulare viene, invece, gestito dai comuni e si è fatto di tutto per dimenticare la sua origine: nei territori dell’ex Regno di Napoli, in Sicilia e in Sardegna, le terre di uso collettivo sono denominate “demani comunali” e sono di proprietà condivisa della generalità dei cittadini del Comune o delle frazioni che separatamente le amministrano. Gli enti che gestivano le terre collettive originariamente svolgevano non solo compiti di organizzazione degli spazi agricoli comuni per il soddisfacimento di bisogni primari, ma anche funzioni pubbliche, come pagare il medico e la levatrice oppure curare la manutenzione dei fiumi, delle strade e delle fontane. Non costituivano mai solo comunità di proprietà, ma sempre comunità di vita.
Anche per queste ragioni che sono un tutt’uno con la storia e la tradizione delle comunità locali, la proprietà collettiva costituisce oggi un’opportunità per rinnovare e respon- sabilizzare la società civile nella gestione sostenibile di fondamentali beni comuni. Ma per far questo occorre restituire la gestione alle collettività ricostituendo enti autonomi e separati dalle amministrazioni comunali.
La legge approvata mette in chiaro e dà veste giuridica a questa forma di proprietà che è diversa da quella pubblica e da quella privata, precedendole entrambe: la proprietà collettiva, ovvero un patrimonio che non appartiene né allo Stato, né alle Regioni, né agli enti locali né, tantomeno, ai singoli cittadini. L’obiettivo che il legislatore si è dato con la nuova legge si può bene interpretare attenendosi a due criteri congiunti – il significato letterale delle parole e la ricerca dello scopo – chiaramente espressi con la finalità espressa in testa all’art. 1 con la dizione “Riconoscimento dei domini collettivi”. Si sono riunificati così, sotto il sintagma “domini collettivi”, una pluralità ed una diversità di enti collettivi presenti su tutto il territorio nazionale, al fine di un formale riconoscimento in netta contrapposizione alla legge del 1927 che li riuniva sotto lo stesso titolo polisemico “usi civici” con l’obiettivo di liquidarli.
Con questa approvazione inoltre il Parlamento si è proposto di chiudere un periodo troppo lungo di lotta che le organizzazioni familiari montane, soprattutto del Nord Italia, hanno condotto sul piano giudiziario e politico per difendersi dalla legge del 1927 e per porsi fuori dalla sua applicazione.
A questo proposito giova ricordare che con il 1 gennaio 1948, finita la guerra e terminata l’era fascista, la stessa legge 1766/1927, quella che voleva liquidare la proprietà collettiva, “transita” in una situazione politico-giuridica diversa da quella esistente al momento della sua approvazione, per “finire” in un sistema caratterizzato dal principio democratico, dall’esaltazione del principio della partecipazione alla gestione della cosa pubblica, dalla tutela delle formazioni intermedie, dall’inserimento dell’Italia nella Comunità Europea, dalla tutela dell’ambiente.
Si contano, dopo il ’48, numerosi provvedimenti legislativi in cui elementi di un diverso e più moderno inquadramento dei domini hanno raggiunto il successo: il decreto legislativo 1104/1948 sulle Regole del Cadore; la legge sulla montagna 991/1952; la legge 278/1957; la legge 97/1994, così come numerose decisioni giurisprudenziali a tutela sia dei diritti dei singoli consortili che delle amministrazioni dei beni collettivi comprese quelle, fondamentali, della Corte costituzionale.
Già a cavallo tra anni Ottanta e Novanta del XIX secolo, venne espressa sul piano legislativo la necessità di mantenere le forme di possesso comuni laddove, per l’altitudine e la natura dei fondi, le terre non potessero essere migliorate dal punto di vista agricolo. L’idea che prevalse fu che la proprietà collettiva non negasse il progresso, ma assicurasse invece forme associative di uso del territorio, essendo essa stessa una sorta di cooperazione. Con la promulgazione della legge 431/1985, cosiddetta Galasso, si è fatto emergere il sistema storico degli assetti fondiari collettivi e di questi tutela le terre di collettivo godimento come beni naturalistici ed ambientali, allargando la tutela dalle utilità di produzione (legno, foraggio, energie rinnovabili, ecc.) alle utilità di regolazione ecologica degli ecosistemi e degli di habitat.
Il provvedimento del 26 ottobre 2017 conclude questo percorso fornendo una sistemazione giuridica a quelle diverse ed eterogenee situazioni legate al godimento da parte di una determinata collettività di specifiche estensioni di terreno abitualmente riservata ad un uso agrosilvopastorale ed istituisce la figura giuridica dei domini collettivi intesi come ordinamento giuridico in cui si organizzano le comunità alle quali afferiscono i beni di proprietà collettiva e quelli gravati da diritti di uso civico.
La legge si riferisce ai domini collettivi come ad una situazione giuridica in cui una data estensione di terreno è di proprietà di una collettività determinata, per modo che solo chi fa parte di quella collettività può trarre utilità da quel bene, indipendentemente dal fatto che lo stesso possa essere sfruttato individualmente o congiuntamente tra tutti gli aventi diritto. Sono beni inalienabili, indivisibili, inusucapibili, imprescrittibili. Il loro uso non può essere per alcuna ragione modificato. Sono diritti reali di cui i residenti godono da tempi immemorabili e continueranno a godere per sempre ma in comune – cioè senza divisione per quote – per ritrarre dalla terra le utilità essenziali per la vita.
Il dominio collettivo si conferma dunque una situazione giuridica antitetica rispetto a quella della proprietà privata individuale ma non è riducibile allo schema della com- proprietà e nemmeno a quello della proprietà pubblica. La proprietà privata individuale implica infatti nel titolare il diritto di godere e disporre del bene in modo pieno e assoluto. Quando invece uno stesso bene si trova nella comproprietà di più soggetti, si produce per il nostro ordinamento una situazione fragile, poiché ciascun comproprietario ha il diritto unilaterale e potestativo di chiederne lo scioglimento, ottenendo di essere proprietario esclusivo di una frazione del bene, o del suo equivalente. Il dominio collettivo attribuisce, al contrario, ad ogni singolo partecipante, solo il diritto di usare della cosa, secondo i termini consuetudinari che caratterizzano quella singola situazione. Diversamente della comproprietà, è una situazione permanente e duratura: i partecipanti non possono, neanche per accordo unanime, vendere a terzi i beni che costituiscono l’oggetto del loro diritto, né dividerli tra loro. La proprietà collettiva non può essere alienata, non può essere espropriata, non può essere usucapita e non può essere neanche data in garanzia. Risulta invece affine, pur nella diversità, alla proprietà pubblica per il vincolo teleologico che la distingue: i beni non possono essere utilizzati in modo tale da sottrarre il godimento ai singoli membri della comunità. È diversa da entrambe queste situazioni proprietarie per la sua assoluta indisponibilità.
A partire da queste peculiari caratteristiche è possibile intuire come la nuova legge, nel salvaguardare i domini collettivi quali ordinamento giuridico primario delle comunità originarie, ne prefiguri la modernità e il possibile sviluppo. Per comprendere ciò bisogna anzitutto sforzarsi di scendere in profondità dentro la radice storica della formazione dei domini collettivi e ricordare come la solidarietà intracomunitaria abbia costituito un modello indispensabile per la sopravvivenza delle famiglie di numerosissime comunità. A prescindere dall’atto formale di nascita del dominio, possedere ed usare insieme era la chiave di gestione che permetteva di avere sempre qualcosa. Partecipazione, controllo, mutualità erano le regole per costruire passo passo un equilibrio di benessere. Un equilibrio che intrecciava i diritti del presente con la garanzia del futuro, sia in termini intergenerazionali che in termini ecologici: rovinare qualcosa significava danneggiare in modo percepibile gli altri e in primis la propria famiglia. Con conseguenze non banali in termini di auto e mutuo controllo nella gestione e con la formazione di un senso civico di cui si avverte francamente il bisogno oggi più che mai. Non si trattava infatti solo di comproprietà di beni particolari quali bosco e pascoli, goduti in un modo particolare, cioè collettivo, ma si trattava e si tratta di persone che esprimono, nell’articolazione fondiaria, una scelta squisitamente antropologica della vita: il primato della comunità sul singolo!
È giusto domandarsi perciò in quale misura questi valori, queste forme di gestione e questi interessi siano ancora attuali e necessari. Non va nascosto infatti che essi sono stati via via abbandonati in tanta parte del Paese sulla base della fase di sviluppo socioeconomico che si è determinato dopo la seconda guerra mondiale, e in particolare con lo spopolamento nelle aree interne e nelle zone di montagna, ma anche con la mentalità non sempre in linea dei molti amministratori locali che, invece di accompagnare la resistenza di queste istituzioni, hanno spesso lavorato per il loro superamento definitivo.
Ma ora con questa legge siamo di fronte ad un atto di discontinuità rispetto a questo declino, la salvaguardia di qualcosa di antico e nel contempo anche l’affermazione di qualcosa di nuovo. Un seme di futuro. Non è un caso, del resto, la nota sui tempi che riferisce del clima politico e dell’analisi socio-economica che ha accompagnato la discussione alla Camera della legge, appena venti giorni dall’approvazione di quella per il sostegno ai piccoli comuni. Quasi a dire come la sensibilità del legislatore sia più spesso di quanto si creda “in trazione” con modelli e riflessioni dove l’identità viene coniugata non solo con la difesa di qualcosa ma anche con la volontà di declinare diversamente il futuro.
In che termini? In primo luogo proprio tramite il riconoscimento della centralità della comunità come “soggetto neo-istituzionale” del patrimonio civico. In una stagione di grande crisi dei corpi sociali intermedi, si tratta di una apertura di credito non secondaria, capace di riavviare il risveglio dei soggetti dormienti, per cogliere le opportunità che il modello collettivo offre. Non si tratta in questo senso di paradigmi ideologici, ma di vere esperienze che in numerose comunità locali stanno segnando la stagione di riconsiderazione di una serie di valori, connessi al dominio collettivo. Non ultima la valorizzazione delle comunità là dove i necessari processi di aggregazione istituzionale dei Comuni e pure anche delle realtà religiose tradizionali come le parrocchie, vanno accompagnati da forme di riequilibrio identitario. Certo la terra, certo la possibilità dell’iniziativa e della rendita economica, ma non solo questo. Anche la partecipazione e la cultura della condivisione e della solidarietà. Merce preziosa al tempo della globalizzazione. Senza dimenticare inoltre che gli «enti gestori delle terre di collettivo godimento, rientrano a pieno titolo nell’imprenditoria locale, cui competono le responsabilità di tutela e di valorizzazione dell’insieme di risorse naturali ed antropiche presenti nel demanio civico». Il che, da un lato, afferma in modo chiarissimo la centralità della comunità quale motore di sviluppo locale. Dall’altro, si capisce la ragione per cui questa proposta di legge diventi fondamentale per il territorio e il paesaggio che comprende specificità agro-silvo-pastorali inalienabili.
La legge individua anche un’impostazione non solo conservativa ma anche dinamica, volta a comprendere l’attuale «fase di sviluppo delle aree rurali, della montagna in particolare, le cui strategie fanno affidamento essenzialmente sul modello di sviluppo locale e su quello di sviluppo sostenibile»; una fase in cui ai domini collettivi viene «riconosciuta la capacità di rendere locali anche gli stimoli provenienti dall’esterno della comunità per la mobilitazione delle risorse interne, di trattenere in loco gli effetti moltiplicativi, di far nascere indotti nella manifattura familiare, artigianale, nella filiera dell’energia delle risorse rinnovabili e nel settore dei servizi».
Insomma c’è in ballo una capacità delle aree interne – quelle che, turismo a parte, faticano a produrre PIL – di costruire un modello economico alternativo, orientato ad autosostenersi. Un modello in cui non sia centrale la capacità di appropriarsi delle risorse ma la loro gestione. È tempo anche in Italia di orientarsi diversamente, come suggerisce da qualche anno anche il nuovo indicatore BES promosso dall’ISTAT.
Si parla sempre delle cose che si possono acquistare, ma meno di quelle che si distruggono per poterle produrre. I costi della crescita senza limiti sono tanti, basti pensare ai danni all’ambiente, ma anche ad alcuni costi sociali che non vengono presi in considerazione quando si calcola il PIL. Nei Paesi occidentali è vero che la gente guadagna di più, ma spende ancora di più per compensare ciò che distrugge.
Questa legge va dunque in un’altra direzione e prefigura un diverso modello di sviluppo. L’auspicio è dunque che l’approvazione della legge diventi anche un’occasione preziosa per una discussione anche più ampia e progressiva a diversi livelli, dove tra l’altro almeno una volta si dovrà riconoscere che il legislatore parlamentare, dopo aver recepito la storia e gli sforzi promossi anche nelle passate legislature in primo luogo da chi rappresenta la memoria e la cultura attiva dei domini collettivi – tra i quali certamente merita una particolare citazione il Centro Studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive dell’Università di Trento, guidato dai professori Pietro Nervi e Paolo Grossi – ha saputo collaborare e orientare la direzione, nell’interesse delle comunità e dell’Italia tutta.
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
APPENDICE
Sui contenuti del provvedimento:
Riconoscimento dei domini collettivi
Si riconoscono i domini collettivi come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie.
I domini collettivi sono soggetti alla Costituzione e trovano il loro fondamento negli articoli 2, 9, 42 e 43. Sono dunque dotati di capacità di produrre norme vincolanti valevoli sia per l’amministrazione soggettiva e oggettiva, sia per l’amministrazione vincolata e discrezionale. Hanno la gestione del patrimonio naturale, economico e culturale che coincide con la base territoriale della proprietà collettiva. Si caratterizzano per l’esistenza di una collettività proprietaria collettivamente dei beni e che esercita, individualmente o congiuntamente, i diritti di godimento sui terreni sui quali insistono tali diritti. Il Comune svolge di norma funzioni di amministrazione di tali terreni salvo che la comunità non abbia la proprietà pubblica o collettiva degli stessi. Gli enti esponenziali [1] delle collettività titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva hanno personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria.
Competenza dello Stato
I beni di collettivo godimento sono tutelati e valorizzati dalla Repubblica, in quanto:
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elementi fondamentali per la vita e lo sviluppo delle collettività locali;
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strumenti primari per assicurare la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale;
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componenti stabili del sistema ambientale;
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basi territoriali di istituzioni storiche di salvaguardia del patrimonio culturale e naturale;
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strutture eco-paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale nazionale;
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fonte dirisorse rinnovabili da valorizzare ed utilizzare a beneficio delle collettività locali degli aventi diritto.
La Repubblica riconosce e tutela i diritti dei cittadini di uso e di gestione dei beni di collettivo godimento preesistenti allo Stato italiano. Le comunioni familiari vigenti nei territori montani continuano a godere e ad amministrare loro beni in conformità dei rispettivi statuti e consuetudini, riconosciuti dal diritto anteriore.
Al fine di esercitare il diritto sulle terre di collettivo godimento si deve avere normalmente, e non eccezionalmente, ad oggetto utilità dal fondo consistenti in uno sfruttamento di esso; inoltre, il diritto è riservato ai componenti della comunità, salvo diversa decisione dell’ente collettivo.
I beni di proprietà collettiva e i beni gravati da diritti di uso civico sono amministrati dagli enti esponenziali delle collettività titolari. In mancanza di tali enti i predetti beni sono gestiti dai comuni con amministrazione separata.
Beni collettivi
La norma interviene specificando quali sono i beni collettivi che individua nelle:
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terre di originaria proprietà collettiva della generalità degli abitanti del territorio di un comune o di una frazione, imputate o possedute da comuni, frazioni od associazioni agrarie comunque denominate;
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terre, con le costruzioni di pertinenza, assegnate in proprietà collettiva agli abitanti di un comune o di una frazione, a seguito della liquidazione dei diritti di uso civico e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento esercitato su terre di soggetti pubblici e privati;
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terre derivanti: da scioglimento delle promiscuità [2], da conciliazioni; dallo scioglimento di associazioni agrarie; dall’acquisto di terre; da operazioni e provvedimenti di liquidazione o da estinzione di usi civici; da permuta o da donazione;
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terre di proprietà di soggetti pubblici o privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati;
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terre collettive comunque denominate, appartenenti a famiglie discendenti dagli antichi originari del luogo, nonché terre collettive [3];
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corpi idrici sui quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici.