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Dai rivoluzionari responsabili alla generazione sbagliata: il PCT e la sinistra tunisina

61r2uq9r1vldi Federico Costanza

In occasione del decimo anniversario della Rivoluzione tunisina del 2011 migliaia di manifestanti si sono riversati sulle strade del centro storico della capitale Tunisi. Un evento atteso, nonostante l’appello delle autorità a rispettare le misure sanitarie di quarantena per scongiurare il diffondersi del Covid.  L’anniversario della Rivoluzione è caduto in uno dei periodi più drammatici di questa fase di transizione democratica del Paese nordafricano: mancanza di giustizia sociale, un’economia in larga parte informale e precaria frutto di una dilagante corruzione, una litigiosità politica che serve solo a tutelare le posizioni già acquisite dalla classe dirigente al potere.

Un’intera generazione di giovani, magari nata a ridosso delle rivolte del 2011, ha sperato di poter crescere in un paese sostanzialmente diverso da quello dei loro padri, contraddistinto da decenni di regime autoritario. Questa giovanissima generazione di adolescenti ha deciso di ritornare in strada per denunciare l’assenza di una prospettiva politica nazionale, ma anche per rivendicare la propria presenza di fronte a un sistema che ha sostanzialmente escluso larghissime fette della popolazione dal processo decisionale.

La risposta a questo disagio è stata ancora una volta il ricorso alla violenza poliziesca e l’utilizzo di metodi di indagine e repressione ampiamente illegali. Questa ondata di proteste, che negli scorsi mesi ha anche attraversato altri Paesi arabi del Medio Oriente e del Nord Africa, si è organizzata autonomamente e spesso spontaneamente nei quartieri più poveri delle periferie cittadine o nelle zone interne rurali.

Questa generazione che si è definita “sbagliata” rivendica il proprio diritto ad avere una voce, nonostante le accuse provenienti dall’establishment politico di vandalismo e mancanza di interesse o rispetto per la cosa pubblica. Il paternalismo delle istituzioni torna sostanzialmente a nascondere le gravi inefficienze del sistema politico tunisino post-rivoluzione, bersaglio delle proteste: un regime oligarchico rappresentato dalla classe conservatrice, espressione del Presidente della Repubblica Kaïs Saïed, dalle intese fra vecchia classe dirigente ed esponenti dell’Islam politico, dall’egocentrismo e dalle frammentazioni interne della sinistra con la sua ortodossia vetero-classista.

La studiosa Daniela Melfa ha raccontato proprio la storia di una parte importante di questa sinistra tunisina, illuminata dalle lotte anticoloniali per l’indipendenza, fino ai rapporti tormentati e contraddittori con i regimi di Habib Bourguiba e Zine el Abidine Ben Ali. Rivoluzionari responsabili. Militanti comunisti in Tunisia (1956-1993), edito da Carocci nel 2019, descrive la storia del Partito Comunista Tunisino (PCT) attraverso accurate ricerche in vari archivi e una raccolta di importanti testimonianze da parte dei protagonisti di quegli anni.

Il merito dell’indagine di Daniela Melfa è sicuramente quello di avere fornito diverse e nuove chiavi di interpretazione. Come suggerisce Antonio Messina in una sua recensione al libro, l’importanza di questo studio risiede: da una parte, nell’avere collocato «il comunismo tunisino e, più in generale, i movimenti progressisti-rivoluzionari arabi entro la cornice del processo di State-building, dell’antimperialismo e del confronto con l’Islam»; dall’altra parte, nell’utilizzare la prospettiva locale «per spiegare dinamiche di natura transnazionale e globale […]»[1].

Dalla sua fondazione negli anni ’30 del XX secolo fino alla definitiva trasformazione in senso riformista nel 1993, passando per gli anni della clandestinità (dal 1963) e delle aperture (tornato legale nel 1981), il PCT ha attraversato tutte le fasi più importanti della storia del Paese. La narrazione di questa storia è paradigmatica dell’evoluzione politica dei partiti d’opposizione in Tunisia e mantiene elementi comuni a diversi altri movimenti d’opposizione nel mondo arabo-musulmano.

Innanzi tutto, il racconto di questa storia, come nel caso del PCT, è spesso affidato agli stessi militanti, seppur studiosi di alto profilo, al punto che la stessa Melfa parla di una “storiografia nativa”: nazionalità e appartenenza politica sarebbero, quindi «credenziali atte a operare quell’ “esclusivismo possessivo” proprio dei gruppi subalterni in lotta contro le visioni orientaliste dominanti».

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Tunisi, Manifestazione di protesta

Il PCT, come molti altri movimenti di opposizione, si è diffuso quasi esclusivamente all’interno delle fasce intellettuali o tra i funzionari cittadini, lasciando a organizzazioni più trasversali la rappresentanza di larghe fasce di lavoratori, come è stato il caso del maggiore (e per decenni unico) sindacato tunisino, l’UGTT, che è tornato ad avere un ruolo fondamentale nel contesto del dialogo nazionale all’indomani della Rivoluzione del 2011 e le successive elezioni politiche, come testimonia il Nobel per la Pace ricevuto assieme ad altre istituzioni.

Il Partito Comunista Tunisino ha attraversato gli anni dei due regimi, Bourguiba e Ben Ali, affrontando diverse fasi, sottolineate dai rapporti con il governo, le chiusure o le aperture verso le opposizioni, le differenti frammentazioni delle opposizioni stesse, le scelte di politica economica o sociale, i rapporti con gli altri paesi. L’euforia della prima fase di costruzione nazionale, in occasione della nascita della Repubblica di Tunisia, e il ruolo accanto al partito neo-desturiano rappresentano una fase di “effervescenza collettiva” e di “ottimismo della volontà”, come definita in termini gramsciani da Daniela Melfa.

Il PCT sostiene le riforme socialiste di Ahmed Ben Salah e del suo ministero per la pianificazione economica, prima che dal 1962-63 la svolta autoritaria e repressiva faccia virare il partito verso un “sostegno critico”, una fiducia limitata all’attesa di azioni più incisive. Si tratta dell’adozione di quella linea riformista e gradualista che contraddistinguerà il Partito comunista tunisino d’ora in avanti, scegliendo di essere rivoluzionario ma “responsabile”.

La fine dell’esperienza socialista di Ben Salah però e l’acuirsi delle azioni repressive da parte del regime di Habib Bourguiba segneranno ancora una volta un momento di tensione non solo interna al Paese ma anche alle stesse opposizioni, ormai relegate a un ruolo comprimario a causa della sospensione delle loro attività e dell’instaurazione del regime monopartitico. I comunisti tunisini si divideranno in varie correnti e gruppi più o meno concordi con la nuova visione nazionale di Bourguiba ormai improntata a un modernismo più smaccato, liberale e filoccidentale a partire dalla fine degli anni Sessanta.

Gli apparati statali e di potere erano agli occhi dei comunisti espressione della piccola borghesia nazionale, a tratti “naturalmente progressista” – come sostenevano positivamente Noureddine Bouarrouj e il Gruppo Kléber – oppure destinata a essere rovesciata dalla futura dittatura del proletariato – come auspicava il gruppo GEAST attraverso la sua rivista “Perspectives”. Sono anni di dure contestazioni e repressioni di polizia, di scontri all’interno degli studentati, nelle università, nel sindacato studentesco UGET, dove si confrontano le diverse correnti della sinistra e i gruppi emergenti giovanili dell’Islam politico [2].   

Un clima politico che continuerà negli anni Settanta, seppure il confronto con l’autoritarismo del regime, la dimensione minoritaria, la condizione di clandestinità e l’obbligo a operare sotto minaccia, finiranno per influire negativamente sull’attivismo di sinistra, molto più vivo all’estero, soprattutto nelle università e sulle riviste parigine.

Dopo i drammatici momenti del gennaio 1978 e il “Giovedì Nero” con la repressione degli scioperi, l’apertura si avrà solo nel 1981. Il PCT, tornato alla legalità, aprirà quel fronte interno di “politica della mano tesa” e formerà un blocco storico nuovo e riformista per avere più peso nella proposta politica, iniziando a collaborare con l’Islam politico dell’MTI (più tardi “Ennahdha”) di Rachid Ghannouchi e Abdelfattah Mourou e con altri partiti di diversa provenienza politica, in un’Unione Democratica elettorale. Questo spirito di cooperazione e riformismo accompagnerà la trasformazione del partito in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e la caduta del blocco comunista in Europa, fino alla nascita del partito del Rinnovamento “Ettajdid”, nel 1993, ultima fase politica del PCT.

In fondo, il comunismo tunisino era già l’affermazione di una “specificità”, definita, non a caso, “la via tunisina al socialismo”. Da un’interpretazione invalsa della teoria di Lenin secondo la quale i Paesi più arretrati potevano adottare una loro “via non capitalista di sviluppo” senza passare dalla fase capitalista, la visione del PCT era plasmata sul ruolo chiave dello Stato moderno nazionale, non solo come fattore di sviluppo economico ma anche per il progresso culturale della nazione, attraverso un processo democratico pacifico e progressivo.

Sul fronte dei rapporti con l’esterno, i comunisti tunisini, sostenendo l’idea di identità nazionale, sposano apertamente i movimenti panarabisti, laddove questo significa valorizzare la lotta antimperialista, stella polare del socialismo internazionalista anticoloniale e frontista. La causa palestinese, ad esempio, che irruppe nel contesto tunisino alla fine degli anni Settanta con il trasferimento della sede dell’OLP a Tunisi in seguito al bombardamento israeliano a Beirut, rappresentò un fattore aggregante per tutto il fronte di sinistra negli anni a venire.

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Tunisi, protesti di fronte al Parlamento

Ma è tutta la dinamica del dibattito interno che pone il PCT di fronte a quelli che possono essere considerati alcuni fra i punti più spinosi del dibattito politico in seno alle società arabo-musulmane: il ruolo delle donne, il rapporto con le minoranze, soprattutto quella ebraica, l’utilizzo della lingua araba, sullo sfondo del confronto continuo e delicato con l’Islam e la tradizione musulmana.

Considerando l’importanza che l’arabo classico esercita all’interno della cultura e dell’identità delle società arabo-musulmane, alcuni movimenti di sinistra hanno utilizzato il dialetto tunisino proprio nell’ottica di ribaltare questa gerarchia e sottolineare così il peso dell’identità nazionale su altre dimensioni culturali. Lo hanno fatto e lo fanno ancora molti politici, e non solo in Tunisia, per quello che, nel caso di Habib Bourguiba, veniva definito “l’arabo intermedio”, significando un misto di arabo parlato e classico e termini francesi. L’uso del dialetto ha inoltre caratterizzato l’intervento delle avanguardie artistiche e letterarie protagoniste delle cosiddette primavere arabe nel 2011.

È infine molto interessante approfondire la riflessione che il PCT pose sulla possibilità di conciliare progresso (“taqaddum”) e patrimonio (“turath”), operando una sintesi. Lo storico segretario del PCT negli anni ’80, Mohamed Harmel, sosteneva che «il marxismo può rimanere vivo soltanto se si radica nelle formazioni nazionali, se si nutre del patrimonio culturale e di civiltà», per esempio «recuperando – scrive Melfa – quegli elementi di progresso e razionalismo iscritti nella tradizione araboislamica», arrivando finanche ad affermare che l’Islam poteva considerarsi un perno dell’identità nazionale e un baluardo contro l’oppressione.

E quale migliore esempio dello storicismo scientifico del grande intellettuale tunisino Ibn Khaldoun per “conciliare ideologicamente” le due istanze? D’altronde, il successo della rivoluzione iraniana e la crescita delle frange islamiste tunisine seguaci del Movimento per la Tendenza Islamica di Ghannouchi suggerivano di rimanere cauti nel confronto con la tradizione religiosa, consci di non poterla sottovalutare o escludere dall’identità culturale del Paese. Al marxismo non restava che occuparsi di difendere gli oppressi e i diritti sociali, giacché la religione atteneva alla sfera individuale e la libertà di coscienza era sotto la tutela dello Stato con il suo ruolo super partes.

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Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi

Il modernismo della sinistra tunisina ha comunque dovuto fare i conti con l’ascesa dell’Islam politico una volta tramontata l’era dei regimi autoritari. E questo confronto è ancora vivo nelle piazze attuali della protesta, sebbene da un lato i gruppi di sinistra hanno sempre più perso capacità organizzativa, mentre gli islamisti rimangono la forza più coesa e organizzata. Ciononostante, l’attivismo politico a sinistra e l’incessante propaganda sotterranea hanno preparato intere generazioni di uomini e donne alla progressiva riconquista dello spazio pubblico.

Questo dibattito dissimulato, mimetizzato, anche attraverso il lavoro degli esuli della sponda nord mediterranea, ha permesso di mantenere ben presenti alcune parole d’ordine della protesta sociale: “choghl, hourriya, karama wataniya!” (“lavoro, libertà, dignità nazionale!”) è lo slogan ripetuto dalle piazze durante le rivolte del 2011, assieme alla richiesta più incisiva di rovesciare il sistema, di cacciare il dittatore. Questo è il motivo per cui, seppur frammentate e divise dagli eccessi di protagonismo dei singoli leader, caratterizzate da una dimensione elitaria e dalla poca diffusione in determinate zone del Paese, le sinistre tunisine continuano a ispirare le lotte per la giustizia sociale.

Lo si è visto chiaramente all’indomani degli assassinii dei leader politici di sinistra Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi nel 2013: un’ondata di sdegno e sconforto ha investito l’intera popolazione tunisina che si è rovesciata nelle strade facendo vacillare il governo che sembrava saldamente in mano agli islamisti moderati di Ennahdha. I due politici con il loro carisma, la dirittura morale e l’esempio del loro sacrificio avevano risvegliato un vasto sentimento di coinvolgimento delle masse, rispolverando le icone del popolo e della lotta di classe.

Le prospettive di un rafforzamento politico attraverso le elezioni sono, però, sempre rimaste illusioni. Basti pensare alle aspettative che hanno accompagnato la campagna elettorale del Qotb, il Polo Modernista che riuniva i gruppi progressisti in occasione delle elezioni del 2011 per l’Assemblea Costituente: la disfatta delle sinistre e la loro diffusione solo in alcuni collegi della capitale determinarono, di fatto, l’ultima apparizione del vecchio partito comunista tunisino, seppur sotto altre spoglie.

Soltanto un alacre lavoro di campo assieme a queste “generazioni sbagliate”, con l’esempio delle debolezze ma anche dell’ottimismo della volontà di quei “rivoluzionari responsabili” potrebbe riportare entusiasmo in un movimento che ha davanti a sé un lungo percorso di ricostruzione di un’identità a sinistra.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] A. Messina, in “Il Pensiero Storico”, giugno 2020: 317-322.
[2] Cfr. il romanzo di S. el Mabkhout, L’Italiano, edizioni e/o, Roma 2017.

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Federico Costanza, si occupa di progettazione e management strategico culturale, con un’attenzione specifica all’area euro-mediterranea e alle società islamiche. Ha diretto per diversi anni la sede della Fondazione Orestiadi di Gibellina in Tunisia, promuovendo numerose iniziative e sostenendo le avanguardie artistiche tunisine attraverso il centro culturale di Dar Bach Hamba, nella Medina di Tunisi.

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