L’antropologo Antonino Buttitta in uno dei suoi saggi dedicati al rapporto tra antropologia e letteratura rifletteva su come «lo scrittore cercando l’uomo trova gli uomini, l’antropologo, ma anche il sociologo, lo storico etc., osservando gli uomini troppo spesso perdono l’uomo» (Buttitta 2004: 492). Penso alle sue osservazioni dopo aver visto Segnali di vita, un lungometraggio firmato da Leandro Picarella, cineasta di origini agrigentine i cui lavori scrutano nel limen tra realtà e finzione, verità e apparenza, in una ricerca tesa alla creazione di un “Cinema del reale”, una sperimentazione creativa sostanziata da una composita e interessante tecnica narrativa che alterna riprese di tipo documentaristico e scene di simulazione. Una marca distintiva impressa sulle sue pellicole e che in questo ultimo lavoro si declina nella polarizzazione tra scienza e ciò che scienza apparentemente non è, tra la presunta mistificazione della realtà attuata da teorie gnoseologiche altre e il “vero” incarnato nella scienza.
Siamo a Saint-Barthélemy nel piccolissimo villaggio di Lignan sito in Valle d’Aosta, qui l’astrofisico milanese Paolo Calcidese, protagonista della storia che interpreta sé stesso, decide di isolarsi nell’Osservatorio astronomico per raccogliere dati utili alla sua ricerca, unica compagnia un robot battezzato come la stella oggetto del suo interesse: Arturo. Saint-Barthélemy è il luogo perfetto per lo scienziato: il villaggio è abitato da pochissime anime, nessun rapporto umano a distrarlo e nessuna attività ricreativa tra le asperità della montagna, solo assoluto silenzio e immensi cieli stellati. Ben presto qualcosa turba la perfezione della stasi in cui l’astrofisico è immerso, un imprevisto che arena i progetti di studio, l’anelata solitudine e le letture di Dylan Dog, l’inciampo epifanico. Il telescopio ha un guasto meccanico che richiede l’intervento di un tecnico irreperibile e lo scienziato sarà così costretto a dedicare il suo tempo ad una fase della ricerca, certamente non congeniale ai suoi interessi, ma importantissima per il Comitato in quanto attrattiva per gli investimenti:
«[…] la questione del questionario scienze e società, l’analisi delle misconcezioni da fare con la comunità, ecco quello è un aspetto scientifico anche quello, non nel campo dell’astrofisica ma appunto scienza e società alla quale tra l’altro il Comitato tiene particolarmente e quindi niente, approfondisci per esempio anche questo aspetto qua. Concentrati su questo, guarda che le misconcezioni sono importanti, cioè capire cosa le persone pensano dell’astronomia».
L’astrofisico sbuffa alle direttive del direttore, sa già cosa dovrà ascoltare. Ed è così che riluttante e molto infastidito interromperà il muto dialogo con le stelle per iniziare una comunicazione con gli abitanti della comunità di Lignan. Maldisposto, ostile e carico di pregiudizi inizierà la raccolta dei dati e le interviste lungi dall’essere momento di ricerca si configureranno come un campo di battaglia, uno scontro fatto di malintesi e incomprensioni linguistiche tra la secolare convinzione dello scienziato come unico custode della conoscenza e patrono di quel “metodo” capace di ghermire e spiegare il reale e differenti paradigmi interpretativi quali la fede, le tradizioni, le credenze e altre fantasiose spiegazioni suggerite dai «folletti verdi».
Quanti moti ha la terra? Cos’è il sole? La stella polare è la stella più luminosa del cielo? Secondo voi c’è un’interazione, un legame che lega gli esseri umani o le loro attività del quotidiano agli astri? Tipo le stelle o la luna in particolar modo? Ad ogni domanda un conflitto scatenato dalle risposte degli abitanti i quali interpretano i fenomeni secondo categorie che esulano dall’ambito scientifico. Il sole diviene una fonte di luce che fa star bene così come la luce è la fede, alla risoluzione fideista del quesito corrisponde un sussulto dello scienziato, una reazione che riconfigura la postura delle donne e degli uomini intervistati irrigidendoli. Confusamente vedremo sovrapporsi i piani in quello che non è un dialogo ma una diatriba. L’autorità scientifica inibisce, blocca i pensieri e paralizza ciò che si crede di sapere, così che alle domande molti rispondono con il silenzio manifestando evidenti difficoltà: «[…] sto cercando solo di fare una statistica», si giustifica lo scienziato, «dell’ignoranza del paese?» risponde l’intervistato.
Altri reagiscono difendendo a spada tratta le proprie certezze e visioni del mondo come nel caso dell’intervista alle donne a cui si domanda del legame tra gli esseri umani e gli astri. Prontamente esse tutelano il sapere millenario che vuole i parti e i «sanguinamenti» influenzati dalle fasi lunari chiamando in causa l’autorità scientifica delle ostetriche. Ma non basta, l’astrofisico è trincerato nella sua posizione e il dato riportato giudicato irrilevante, vuole porre una domanda più «raffinata». Insiste nel sapere quale sia questa fantomatica influenza: «Avete usato il termine influenzano, che cosa è questa influenza? Che forza è? Nella fisica si conoscono quattro forze fondamentali», «Ma noi non siamo fisici, tu non stai facendo domande a dei fisici». In un crescendo di botta e risposta, in cui l’uso alternato della ripresa documentaristica che fissa la reazione mimica delle due donne in risposta al tono aspro di Paolo, posto fuori campo, unitamente alle loro interiezioni restituiscono in modo esemplare l’inconciliabilità delle due visioni del mondo quando i soggetti non sono disposti al reciproco riconoscimento.
Al limite dello scontro l’astrofisico esclamerà: «Voi avete un minimo di fiducia nella tecnologia, nella scienza?» risponderanno le donne di sì, ma «è la scienza che non ha fiducia in altro, più che altro…», mentre l’astrofisico continuerà affermando che «La scienza ha il suo metodo». O chi, ancora, in modo più pacifico spiega le proprie ragioni di diffidenza:
«[…] posso aggiungere un particolare? Mi ricordo nel corso di uno star party ci fu una conferenza in particolare che sfatava, o tentava di sfatar, le varie credenze popolari, così su… sull’influenza appunto degli astri su di noi, ma c’era una punta di come dire, non dico d’ironia ma di sarcasmo così nei confronti di queste credenze popolari che a me aveva dato un po’ fastidio perché…così mi aveva dato un po’ fastidio questa cosa perché dicevo ecco la solita scienza che si erge, io so tutto e voi…».
E chi, invece, tenta una sintesi negoziando e manifestando comunque un’apertura «Aò! Poteva essere scientifica anche questa: il sole che è un pianeta, non lo so è un pianeta…adesso onestamente non mi ricordo più di tanto e poi Gesù che è un altro pianeta e la terra ruota intorno al sole e ruota intorno alla fede». Intervista dopo intervista qualcosa cambia nello scienziato, nasce timidamente una curiosità nei confronti di questa umanità così diversa, dalle strane abitudini e dalle curiose suggestioni, solita ad appendere alle pareti della casa le fotografie del bestiame e non quelle dei propri cari. La curiosità lo predispone all’apertura, un impulso capace di espugnare barriere e attraversare i confini degli strutturati schemi mentali, un ‘moto’ che lo guiderà nell’esplorazione di altri modi possibili di guardare e di figurare mondi.
Così il “campo di battaglia” si trasforma in “campo” nell’accezione antropologica del termine. Il campo non solo come contesto spaziale ed entità fisica misurabile e localizzabile geograficamente ma inteso come situazione relazionale in cui si attua la ricerca antropologica, come costruzione simbolica, spazio elettivo in cui l’incontro e il confronto tra soggetto osservante e “oggetto” osservato plasma gli oggetti e i soggetti stessi della ricerca. «Che sia fisico, materiale oppure virtuale e simbolico, il campo è presenza ‘densa’ e intensa, in cui le categorie dello spazio e del tempo sono ripensate e riorganizzate, le prospettive mentali e le posture comportamentali decostruite e riconfigurate. Qui si misurano, in ultima analisi, e si verificano gli orientamenti e i paradigmi teorici e prendono forma materialmente e concettualmente gli oggetti e i soggetti dell’impresa antropologica» (Cusumano, 2024: 9). Il campo è nucleo dove si innescano reazioni nucleari, trasformazioni continue, spazio-tempo in cui si dispiega il rito dell’osservazione partecipante, il passaggio mitico, catasterismo che consacra il ricercatore allo status di antropologo.
«Di tutte le ambiguità irrisolte e le interrogazioni epistemologiche di cui è sostanziato il lavoro inquieto dell’antropologo, il campo è certamente il luogo più problematico e tuttavia più emblematico e peculiare del mestiere. Nulla di più consustanziale alla sua metodologia. Nulla di più dibattuto, investigato, criticamente ripensato. Il campo è sinonimo di ricerca etnografica, di approccio all’osservazione partecipante, di viaggio, di straniamento, di incontro con l’Altro. Vi si addensano i nodi e le criticità ma anche le magie, le epifanie e le esaltanti prove esistenziali di quella umana iniziazione che può fare di un ricercatore un antropologo: «quel genere di esperienza che ci fa pulsare la mente e battere il cuore, e può procurare incontri personali memorabili», per usare le parole di Ulf Hannerz. Pur nelle sue contraddizioni interpretative connesse all’ossimoro costitutivo di osservazione e partecipazione, il campo è, infatti, il crocevia di quella sfida malinowskiana che nell’esercizio totalizzante della full immersion è stata fondativa dello statuto disciplinare dell’etnografia» (Cusumano, 2024: 9).
Non appare sbagliato rapportare l’esperienza conoscitiva dell’astrofisico a quello dell’antropologo intento alla sua prima ricerca sul campo, se infatti tale metodo di ricerca presuppone e richiede una prolungata permanenza in un determinato luogo, la stretta contiguità con l’oggetto della propria osservazione, la partecipazione quotidiana alla vita del gruppo volta alla comprensione del loro punto di vista, al modo in cui introiettano il mondo restituendolo sotto forma di significati, simboli, pratiche, miti, così come comporta una immersione totalizzante per il ricercatore che investe il corporeo, lo psichico fino all’inevitabile messa in crisi della propria soggettività, allora la storia raccontata da Picarella può essere inquadrata attraverso tale obiettivo.
Paolo, apprendista antropologo, abbandonata la rigorosa postura della scienza dura, abbraccerà inconsapevolmente tale tecnica metodologica, un metodo meno rigido ma sicuramente più incline e adatto ad indagare e scrutare la molteplicità dell’umano. Inizierà a porre domande diverse per cercare di capire le abitudini e i modi di vivere degli informatori e in questo modo imparerà a conoscere Silvia, la giovane allevatrice impegnata nell’attività di famiglia e contemporaneamente a gestire il materno affetto per le sue mucche, Severino, l’anziano signore che corteggia la vedovella Agnese per colmare le reciproche solitudini, Gabriele, papà della piccola Agata, interessato alla scienza omeopatica. L’interrogatorio iniziale si trasformerà in un dialogo dove le sue conoscenze saranno messe a disposizione della comunità, un bene comune fruito dagli abitanti, che genera stupore e incredulità nell’astrofisico, il quale – a sua volta – non riesce bene a inquadrare cosa gli stia accadendo: «mi succede di raro di avere voglia di dare le risposte». Inviterà gli abitanti ad andare all’Osservatorio rompendo l’isolamento volontario e partecipando alla vita associata, creando incontri abituali, frequentando i luoghi ricreativi come il bar del villaggio. Paolo immettendosi nella rete di rapporti sociali attiverà quelle interazioni socio-spaziali che generano il concetto stesso di comunità (Dematteis, Lanza, 2014: 218), ed è in quanto membro della comunità che verrà supportato nel momento di difficoltà, quando dopo una serata al bar non si sentirà bene e riceverà il supporto di Severino e Gabriele. Il giorno successivo si aprirà all’Altro e racconterà la sua storia, quella di un giovane ragazzo che si accosta all’astrofisica perché studiando comprende che osservando la volta celeste può dominare lo spazio e il tempo, il segreto di un dio che lo eleva separandolo dagli altri uomini, dagli affetti e il cui prezzo, come già suggerito da Antonino Buttitta relativamente alla ricerca sociale, è la perdita della dimensione dell’umano. Il suo mondo crolla costringendolo ad una impasse come i tardigradi, i microorganismi in morte apparente che ama osservare, sarà il tempo trascorso con la piccola comunità di Lignan che lo riporterà sulla terra, alla vita, all’empatia, ad una comprensione che è cum – prehendere, prendere insieme, così come sarà la sua presenza che aprirà le porte del giudicante Osservatorio in uno scambio proficuo in cui le differenze si accolgono l’un l’altra generando comunità.
Leandro Picarella racconta in modo delicato, tenero, poetico la storia di una crisi, di un cambiamento, di una evoluzione che implica il cambiamento, anzi il rovesciamento, delle prospettive. Perfetta la scelta di Segnali di vita di Franco Battiato a corredo della scena finale, da qui il titolo del documentario: «Il tempo cambia molte cose nella vita/ il senso, le amicizie, le opinioni/ che voglia di cambiare che c’è in me […] Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire/ le luci fanno ricordare le meccaniche celesti». Il singolo come parte di una comunità e la comunità come parte di qualcosa di più grande, microcosmi connessi al macrocosmo, polvere di stelle che non deve dimenticare di costituire insieme indivisibile con l’Universo. Suggestiva la scena al Santuario della Madonna di Cuney, nell’osservazione di quel quadro, tra i tanti presenti, che ritrae un gruppo di uomini che scrutano con un telescopio il cielo, un firmamento in cui convivono e trovano spazio le stelle e la Madonna, come a voler suggerire la possibilità di una coesistenza tra diverse realtà, tra le diverse prospettive. Così come è stimolante la tecnica compositiva utilizzata dal regista che si dispiega dalla prima scena, aprendo la narrazione su un’alba e sfumando in dissolvenza sulla valle, dall’alto, lasciando allo sguardo la visione di un insediamento a bassissima densità, preludio all’isolamento ma anche dello specifico modo di vivere della comunità locale.
Pratiche e abitudini riflesse nei silenzi e nei rumori, nei significati sottesi ai cambi di codice che alternano italiano e patois, il dialetto locale usato spesso come difesa nei confronti dell’astrofisico, nel rapporto con gli animali come discrimine tra lo “spirito del contadino” e le multinazionali, o ancora nelle preoccupazioni e i timori dettati dai processi di modernizzazione, dall’incertezza espressa sulle conseguenze per questi piccoli paesi: «Dove stiamo andando? Me lo dica lei che è un uomo di scienza?». Ma in modo più esteso, oltre la stessa comunità di Lignan, le questioni connesse al rapporto tra uomo e tecnologia, riflessioni indotte ancora tramite la contrapposizione delle scene: l’attenzione prestata da Gabriele alla piccola Agata durante la raccolta delle more, scena in cui viene evidenziata la reciprocità dei gesti tra un padre e una figlia a cui si oppone nella scena successiva Paolo impegnato a dare dei comandi unidirezionale al robot Arturo per valutare come muove gli “arti”, o la scena del pascolo delle mucche sotto l’occhio vigile dell’allevatore a cui fa da contrappunto l’osservazione al microscopio del tardigrado.
I dialoghi spezzati, la sovrapposizione nei turni di parola, l’utilizzo degli stessi abitanti come attori, tutto concorre a rendere Segnali di vita una felice prova di “cinema del reale”, e forse a rendere così vero il lungometraggio è l’intuizione di Picarella nel voler raccontare «partendo da una profonda connessione con il luogo», trasferendosi egli stesso a vivere a Lignan, integrandosi gradualmente con gli abitanti. Come Paolo anche Leandro Picarella è apprendista antropologo e Segnali di vita riesce a restituire il senso “reale” di una comunità e del suo farsi comunità senza perdere di vista gli uomini e le donne, soggetti imprescindibili della sua ricerca cinematografica come di ogni indagine scientifica.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Riferimenti bibliografici
Buttitta A., Giuseppe Cocchiara tra folklore e letteratura, in Cocchiara G., Popolo e letteratura in Italia, Sellerio, Palermo, 2004: 473-496.
Cusumano A., Prefazione a D. Inglese, Antropologia a tutto campo, Pasqualino Edizioni, Palermo 2024: 9-12.
Dematteis G., Lanza C., Le città del mondo. Una geografia urbana, Utet Università, Torino, 2014.
Garofalo C., L’antropologo in campo. Soggetto, oggetto e contesto, “Dialoghi Mediterranei”, n. 28, Novembre 2017.
Segnali di vita | Cinéma de la Ville.
Spinelli A., Sorzo S., Ripartire da zero. Leandro Picarella racconta Segnali di vita – SentieriSelvaggi , 9 Maggio 2024.
“Triokala”, il film d’esordio del regista Leandro Picarella, al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo” – Centro Sperimentale di Cinematografia (fondazionecsc.it).
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Annamaria Clemente, laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni. Su questo tema ha scritto saggi e numerose recensioni. Ama la fotografia cui si dedica da dilettante.
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