Quando nelle società riceventi si discute d’immigrazione, s’intende in realtà la mobilità umana problematica. Il nostro sguardo sugli spostamenti attraverso le frontiere è selettivo, anche e soprattutto quando non ce accorgiamo. E non si tratta soltanto di percezioni o atteggiamenti socialmente condivisi, ma di prospettive che si riflettono sulle definizioni politiche e sulla produzione normativa. Anzitutto, non consideriamo e non trattiamo come immigrati i cittadini dei Paesi sviluppati e neppure le élite dei Paesi in via di sviluppo: questi anzi godono di diritti di libera circolazione forse mai così ampi come oggi. In alcuni Paesi, come Cipro e Malta, possono acquistare la cittadinanza se investono nel Paese una certa cifra ed eventualmente assumono qualcuno, senza essere sottoposti alle trafile dell’anzianità di residenza, dei test di conoscenza linguistica, delle dimostrazioni d’integrazione. Più o meno ovunque, nel mondo sviluppato, godono di permessi di soggiorno privilegiati (Golden Visa e simili) e di diritti come quello di portare con sé i propri familiari.
Gli arrivi dal Sud del mondo di rifugiati o persone comuni suscitano invece allarme e timori d’invasione. Meloni ha recentemente rilanciato la leggenda dell’Italia «campo profughi d’Europa»: un’affermazione contraddetta dai dati Eurostat, secondo cui nel 2022 la Germania ha ricevuto 218 mila richieste d’asilo, la Francia 137 mila, la Spagna 116 mila, l’Italia 70mila. I richiedenti asilo non arrivano soltanto dal mare. Sbagliato ed enfatico anche parlare di un’emergenza senza precedenti. Nel 2015 e 2016 nell’UE le richieste di asilo hanno superato il milione: 1.321.000 nel 2015 e 1.259.000 nel 2016, a causa soprattutto della guerra in Siria e della fuga di chi poteva da quel martoriato Paese, ed è stata la Germania ad accoglierne gran parte. In Italia nel 2014-2017 gli sbarchi hanno superato sempre le 100 mila unità all’anno, prima dei controversi accordi con la Libia, mentre le domande di asilo sono cresciute proporzionalmente a seguito dell’istituzione degli hotspot richiesti dall’UE, superando le 100 mila nel 2016 e nel 2017, ma rimanendo comunque sempre al di sotto dell’impegno della Germania e di altri paesi: in rapporto agli abitanti, il Libano accoglie un rifugiato ogni 7 abitanti; la Giordania uno su 16; nell’UE la Svezia ne accoglie uno su 40; Malta uno su 56, l’Italia 1 su 175.
È altrettanto significativo tuttavia che in un momento in cui ritorna in auge la chiusura dei confini nei confronti degli sbarchi dal mare, assistiamo ad almeno tre diversi trattamenti dei nuovi arrivati. Il primo approccio riguarda i profughi ucraini, a oltre un anno dall’invasione russa. L’Italia a fine marzo 2022 ha recepito la direttiva dell’Unione Europea dell’inizio del mese, concedendo una protezione di un anno, recentemente rinnovata, l’immediato accesso all’assistenza sanitaria e al sistema educativo, la possibilità di cercare un impiego regolare. Ma non solo. Ha affidato alla Protezione Civile la regia dell’accoglienza, istituendo un nuovo canale di assistenza ai rifugiati, che si differenzia da quelli già esistenti (CARA, SAI e CAS). La Protezione civile ha immediatamente emanato un’ordinanza che all’articolo 1 parla di “Accoglienza diffusa”. Ha riconosciuto l’esigenza di integrare l’offerta pubblica di servizi di ospitalità rivolgendosi agli Enti del Terzo settore, ai Centri di servizi per il volontariato, alle Associazioni registrate, agli Enti religiosi civilmente riconosciuti. A questi soggetti di natura privata ha chiesto di prevedere un pieno coinvolgimento dei Comuni mediante la sottoscrizione di accordi di partenariato.
Ha così configurato, almeno sulla carta, una strategia di accoglienza condivisa, che chiama a collaborare enti locali, servizi pubblici, forze organizzate della società civile, datori di lavoro. L’attivazione di quest’ampia rete ha comportato notevoli lungaggini e complicazioni, ma ha innegabilmente espresso una volontà di accoglienza. La norma ha previsto poi un’altra significativa innovazione: i rifugiati ucraini sono stati incoraggiati a cercare sistemazioni abitative autonome, nel mercato dell’affitto o presso famiglie locali, ricevendo direttamente un contributo di 300 euro al mese per ogni adulto e di 150 euro per i minori, per un periodo di tre mesi. Per la prima volta le istituzioni pubbliche italiane hanno riconosciuto autonomia e responsabilità ai rifugiati, trattandoli da adulti capaci di badare a se stessi. Nello stesso tempo hanno previsto che si attivasse un’offerta privata di abitazioni disponibili, non solo da parte di famiglie solidali, ma anche di normali proprietari immobiliari, quelli che normalmente si mostrano assai diffidenti verso gli immigrati e soprattutto verso gli altri rifugiati arrivati nell’ultimo decennio. Il ‘caso ucraino’ ha dunque modificato i parametri culturali con cui si era soliti considerare i nuovi arrivati e la nostra capacità di accoglierli.
Un problema è rimasto però insoluto, e si riallaccia alla questione dell’apertura selettiva. L’accoglienza è stata garantita ai cittadini ucraini, ma non altrettanto ai soggiornanti stranieri in Ucraina: per questi ultimi, vale soltanto in caso di possesso di un permesso di soggiorno permanente o di uno status di rifugiati, con l’aggiunta dell’impossibilità di tornare in condizioni sicure e stabili nel Paese di origine. Ossia non si salva quasi nessuno. Esclusi per esempio gli studenti, i lavoratori con contratti a tempo determinato, i richiedenti asilo di altri Paesi che si sono trovati coinvolti nella guerra. Per tutte queste persone fuggite dall’Ucraina sono rimaste in vigore le normali regole della protezione internazionale, ossia il lungo e incerto percorso della domanda d’asilo.
A un anno di distanza, l’Italia ha accolto circa 170 mila profughi ucraini (la Germania, è bene ricordarlo circa un milione), senza porre limitazioni numeriche. È rimarchevole il fatto che l’accoglienza non ha suscitato polemiche politiche né resistenze sociali, né speculazioni mediatiche. Sarebbe difficile sostenere che i profughi ucraini non pesino sul sistema di welfare, eppure – fortunatamente – nessuno ha eccepito. Non sono nemmeno definiti nel discorso pubblico come rifugiati o immigrati.
Il secondo caso scaturisce direttamente dalle recenti disposizioni governative, che hanno abbozzato una sorta di nuovo schema delle politiche migratorie dopo il disastro di Cutro. Sono morte in mare persone che fuggivano da guerre e repressioni, e l’esecutivo Meloni ha annunciato un aumento delle opportunità d’ingresso per lavoro, che coinvolgerà Paesi diversi da quelli da cui partivano i naufraghi di Cutro, in buona parte afghani. Il governo ha in realtà risposto alle pressioni dei datori di lavoro, stretti tra carenza di manodopera e procedure bizantine per i nuovi ingressi, tanto che finora i decreti-flussi sono serviti sostanzialmente a regolarizzare lavoratori già entrati in Italia e privi di documenti idonei per l’assunzione.
Qui va notata una convergenza con ciò che sta accadendo in altri Paesi dell’UE, sebbene con un approccio stentato e riluttante, giustificato con la motivazione di scoraggiare le partenze spontanee anziché ammettere che l’immigrazione inserita nel sistema economico è una risorsa.
Per circa vent’anni, l’immigrazione dai nuovi Paesi entrati nell’UE, come Polonia, Romania, Bulgaria, ammessa nel giro di qualche anno alla piena libertà di movimento, ha soddisfatto le richieste dei mercati del lavoro dei Paesi della vecchia UE bisognosi di manodopera, tra cui l’Italia. Altri canali, come i ricongiungimenti familiari (Francia) e l’accoglienza di rifugiati (Germania, Svezia), assumevano in modo indiretto anche il compito di rifornire di manodopera il sistema economico. Ora però, nel contesto post-pandemico, le vecchie ricette stanno mostrando la corda. I datori di lavoro un po’ ovunque lamentano di non trovare i lavoratori di cui hanno bisogno, e dall’Est a quanto pare non arrivano più candidati in numero sufficiente.
Si può dunque cogliere un aspetto positivo nei nuovi orientamenti del governo italiano: l’apertura ai nuovi ingressi indica un cambiamento culturale, o almeno il suo inizio. L’immigrazione non è più una minaccia, ma a certe condizioni diventa un ausilio per la ripresa. Si comincia ad ammettere che un fenomeno complesso e variegato come quello migratorio non può essere trattato in blocco, e tanto meno governato a colpi di slogan e di polemiche sui social networks. Vanno distinte e gestite le sue componenti, anche se questo non può significare chiudere le porte a chi fugge dalle guerre e mai potrà ottenere preventivamente un’autorizzazione all’ingresso per lavoro.
In coda alla lista delle politiche migratorie selettive compaiono infatti le persone in cerca di asilo, ma non beneficiate dalla cittadinanza ucraina. Qui l’approccio governativo assume un segno decisamente avverso, rafforzato dal Consiglio dei Ministri riunito a Cutro nel mese di marzo, dopo il decreto anti-ONG promulgato a gennaio. È bene ricordare di passaggio che l’aumento degli sbarchi nel 2023 (oltre 150 mila a fine novembre, contro 94 mila nel 2022 alla stessa data) smentisce l’idea che le navi delle ONG attraessero le partenze. Le navi umanitarie nel 2022 avevano d’altronde soccorso soltanto il 12% delle persone sbarcate. Ancora più importante notare il contrasto tra i 170 mila ucraini accolti pacificamente e gli allarmi per gli arrivi dal mare di un numero di persone analogo, considerando poi che i più non vedono l’ora di passare le Alpi per insediarsi in altri Paesi.
In contrasto con la parziale apertura nei confronti dei lavoratori, sull’asilo il governo cerca di rafforzare la linea della chiusura, senza neppure provare a immaginare soluzioni alternative per l’accoglienza dei rifugiati. La retorica sul “diritto a non emigrare” significa in realtà imporre il dovere di non emigrare, soprattutto a chi proviene dai contesti più critici. La prima misura varata è il rafforzamento dei CPR, ossia i centri destinati a rinchiudere le persone in vista del rimpatrio forzato, disumani quanto inefficienti, ammettendo così implicitamente il fallimento delle precedenti rumorose campagne sull’incremento delle espulsioni.
La seconda misura è l’aggravamento delle pene per i cosiddetti scafisti, su cui il governo scarica la responsabilità delle morti in mare. In realtà chi guida le barche è l’ultimo anello della catena del trasporto illegale, non sono certo i boss a rischiare la vita in mare o l’arresto. Tra gli arrestati per la tragedia di Cutro c’è un minorenne, e qualche anno fa erano una cinquantina i minorenni rinchiusi nelle carceri italiane per reati analoghi. Va poi ricordato, se ce ne fosse bisogno, che il trasporto illegale prospera perché non esistono vie d’ingresso legali a disposizione di chi fugge, e usa mezzi fatiscenti o inadeguati perché sa che i natanti verranno sequestrati e distrutti.
Infine, in coda è stato aggiunto in corsa, rispetto alla bozza preannunciata, il veleno che avrà le peggiori conseguenze sul futuro dei profughi e sulla qualità della vita urbana: il permesso per “protezione speciale” viene ristretto e in prospettiva, secondo la premier verrà abolito. Era un’opportunità per tutelare chi, pur non avendo ottenuto il riconoscimento come rifugiato, aveva compiuto dei passi verso l’integrazione sociale, per esempio avendo imparato l’italiano e trovato un lavoro. Ricacciarlo nell’ombra, ossia in mezzo a una strada, sarà un dramma per lui e un problema per tutti.
Nessuna menzione di corridoi umanitari e altre soluzioni alternative ai viaggi per mare. Generosità dunque verso gli ucraini, cauta apertura alle braccia, porte chiuse verso le persone in fuga da altre guerre e repressioni. Questo quadro è stato rafforzato dall’accordo con il governo albanese annunciato a sorpresa nelle scorse settimane e in attesa di una ratifica in Parlamento che non appare problematica (fine novembre 2023). Il governo Meloni aveva bisogno di riprendere l’iniziativa sul fronte sbarchi, dopo i magri risultati dei ripetuti viaggi in Tunisia e dei vertici europei. L’accordo riecheggia il modello britannico dell’accordo con il Ruanda, bocciato poco tempo dopo dall’Alta Corte del Regno Unito, e i tentativi analoghi di Danimarca e più recentemente dell’Austria: trasferire gli obblighi di accoglienza dei richiedenti asilo in Paesi terzi, abbastanza deboli e bisognosi di sostegno economico e politico da non potersi sottrarre e abbastanza poveri da rappresentare un deterrente per i profughi in arrivo.
Come nel caso britannico, il governo si prepara ad adottare un doppio linguaggio: dirà alle istituzioni europee, alle corti di giustizia e al parlamento di essere pienamente rispettoso degli obblighi umanitari e di avere inteso risolvere un problema di capacità di accoglienza, mentre dirà all’opinione pubblica, anche grazie ai media amici, che con la minaccia di deportazione in Albania infliggerà un colpo micidiale a quella che definisce senza esitazioni immigrazione illegale, o peggio clandestina. L’intento della deterrenza traspare dalla precisazione che donne incinte, minori e persone fragili non verranno dirottate verso il Paese delle Aquile. Ma l’analogia con il caso britannico comporta anche il rischio di incidenti di percorso con le corti di giustizia, com’è accaduto al governo di Londra. Il problema essenziale è quindi il rispetto dei diritti umani fondamentali, della Costituzione e delle convenzioni internazionali sull’argomento. A giudicare dai precedenti, l’accordo non avrà vita facile nel suo percorso di convalida.
Vanno poi considerate alcune questioni pratiche che investono la capacità di attuazione effettiva delle disposizioni dell’accordo. Anzitutto c’è il problema dei destinatari della misura: ragionando sui dati relativi agli sbarchi del 2023, coloro che sono stati tratti in salvo in mare, vengono da Paesi classificati come sicuri e non appartengono alle categorie meritevoli di protezione sono circa il 10% del totale. Sull’altro versante, l’accordo prevede di realizzare strutture di accoglienza per 3.000 persone e di riuscire a trattare 36-39 mila casi all’anno, con un tempo di quattro settimane l’uno. Ma i tempi medi di risposta alle domande di asilo sono di 18 mesi. I profughi potrebbero rimanere a lungo bloccati in Albania, ingolfando i centri di accoglienza.
Una giustificazione della misura è l’aumento della capacità di accoglienza di un sistema in permanente affanno, ma è un po’ curioso che si pensi che un piccolo Paese di 2,8 milioni di abitanti sia in grado di affrontare il problema meglio di un Paese di 60 milioni di abitanti, e con ben altre risorse economiche e istituzionali. L’accordo costerà inoltre, secondo le prime cifre circolate, qualcosa come 16 milioni di euro all’anno, cifra probabilmente sottostimata perché si aggiungeranno altri costi, di trasporto, sorveglianza, servizi medici e altro ancora. Fra l’altro, posti di lavoro e indotto, per la fornitura di cibo per esempio, che non ricadranno sul territorio italiano. Ci saranno inoltre costi politici: come la Turchia, l’Albania vorrà qualcosa in cambio, per esempio un più convinto appoggio italiano per l’ingresso nell’UE.
C’è poi il problema del dopo. Se otterranno una risposta positiva all’istanza di asilo (nel 2022 il 48% l’ha conseguita in prima istanza, e il 72% di chi in seguito al diniego ha presentato un ricorso giurisdizionale), potranno entrare in Italia, e si sarà perso tempo nel processo d’integrazione causando inutili sofferenze aggiuntive a persone già provate. Se invece l’esito sarà negativo, dovrebbero essere in teoria rimpatriati. Ma la capacità di attuare le espulsioni è notoriamente molto bassa (4.304 persone nel 2022, prevalentemente verso un solo Paese, la Tunisia). Se l’espulsione non riuscirà, chi si farà carico delle persone interessate? Il presidente albanese Rama ha già rifiutato di farlo, e precisato che dovrà pensarci l’Italia. Quindi non è improbabile che, trasferiti in un primo tempo in Albania, i non molti profughi trattati secondo le disposizioni dell’accordo in un secondo tempo arrivino comunque quasi tutti in Italia.
Rimane l’effetto deterrenza: far paura ai profughi intenzionati a raggiungere il nostro Paese e frenarli o spingerli verso altri lidi. Anche se le corti di giustizia dovessero autorizzare l’accordo, e non fosse in gioco una questione di rispetto dei diritti umani, l’efficacia della minaccia sarebbe poco più di una scommessa. Chi fugge da situazioni per molte ragioni insostenibili non si fermerà tanto facilmente. Forse alla fine il principale risultato sarà quello di strappare un applauso alla curva dei tifosi su un tema così identitario e mobilitante.
Questa impostazione però non manca di suscitare mobilitazioni di senso contrario. Di rifugiati e solidarietà si occupa un volume appena uscito presso EGEA, che reca il titolo Stato d’assedio. Come la paura dei rifugiati ci sta rendendo peggiori. È un’analisi dell’attuazione del diritto di asilo, nel mondo, in Europa e in Italia. Parla del “gioco duro della solidarietà” e di possibili piste di soluzione al dramma dei rifugiati.
Benché parole d’ordine come sovranità, confini, nazione, sembrino oggi prevalere, un altro sguardo è possibile, e una diversa visione dei diritti umani e della solidarietà è tutt’altro che sconfitta.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
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Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni presso l’Università di Milano, insegna da diversi anni anche nell’università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova e dirige la rivista “Mondi migranti” e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. Fa parte del CNEL, dove è responsabile dell’organismo di coordinamento delle politiche per l’integrazione dei cittadini stranieri. Autore di diversi studi, ha pubblicato recentemente L’invasione immaginaria (Laterza 2020) e Altri cittadini. Gli immigrati nei percorsi della cittadinanza (Vita e Pensiero, 2020).
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