I titoli dei libri come i nomi delle cose sono soglie, limen, frontiere. Designano, identificano, orientano, offrono chiavi interpretative, introducono e invitano alla lettura. Più sono connotativi nella loro ambiguità polisemica e più sembrano dischiudere percorsi ermeneutici, generare sensi e suggestioni seduttive. Umberto Eco nelle Postille a Il nome della rosa ha annotato che «un titolo deve confondere le idee, non irreggimentarle». Un buon titolo muove la curiosità, non la esaurisce. È il caso di questo volume di Dario Inglese che nell’ampiezza denotativa del titolo mette al centro la parola “campo” in un gioco intellettuale aperto all’ambivalenza semantica.
Di tutte le ambiguità irrisolte e le interrogazioni epistemologiche di cui è sostanziato il lavoro inquieto dell’antropologo, il campo è certamente il luogo più problematico e tuttavia più emblematico e peculiare del mestiere. Nulla di più consustanziale alla sua metodologia. Nulla di più dibattuto, investigato, criticamente ripensato. Il campo è sinonimo di ricerca etnografica, di approccio all’osservazione partecipante, di viaggio, di straniamento, di incontro con l’Altro. Vi si addensano i nodi e le criticità ma anche le magie, le epifanie e le esaltanti prove esistenziali di quella umana iniziazione che può fare di un ricercatore un antropologo: «quel genere di esperienza che ci fa pulsare la mente e battere il cuore, e può procurare incontri personali memorabili», per usare le parole di Ulf Hannerz. Pur nelle sue contraddizioni interpretative connesse all’ossimoro costitutivo di osservazione e partecipazione, il campo è, infatti, il crocevia di quella sfida malinowskiana che nell’esercizio totalizzante della full immersion è stata fondativa dello statuto disciplinare dell’etnografia.
Chiarito che “essere là”, in un determinato “altrove”, non basta a definire l’autorità e la scientificità di uno studio antropologico, il campo, oltre l’aura mistica, mitica o esotica di cui è stato lungamente investito, resta l’ineludibile contesto di un metodo, di una pratica e di una teoria, il dato imprescindibile del lavoro di ricerca di una scienza forse non abbastanza scienza, vocata a studiare l’uomo nella diversità delle sue culture e nell’universalismo della sua natura. Che sia fisico, materiale oppure virtuale e simbolico, il campo è presenza ‘densa’ e intensa, in cui le categorie dello spazio e del tempo sono ripensate e riorganizzate, le prospettive mentali e le posture comportamentali decostruite e riconfigurate. Qui si misurano, in ultima analisi, e si verificano gli orientamenti e i paradigmi teorici e prendono forma materialmente e concettualmente gli oggetti e i soggetti dell’impresa antropologica.
Rispetto al passato il perimetro del campo con i suoi classici confini si è enormemente dilatato e nello stesso tempo fratto e frastagliato, in corrispondenza dell’irruzione di paesaggi culturali sempre più globali e della conseguente evoluzione della stagione postmoderna della “riflessività” che ha rovesciato i modelli delle rappresentazioni etnografiche, scompaginando le retoriche dell’antropocentrismo e ristrutturando la cassetta degli attrezzi dell’antropologo. Le frontiere si sono spostate, le posizioni invertite e rimescolate. Nell’antropologia dell’antropologia sono entrati mondi nuovi, che la globalizzazione e la contemporaneità hanno avvicinato, dislocato e decentrato. Dall’attenzione alle comunità remote e in estinzione allo studio delle società vicine e delle complesse realtà urbane, dal “giro lungo” al “ritorno a casa”, l’antropologia ha conosciuto un indubbio ampliamento dell’orizzonte di ricerca, un processo di decostruzione di se stessa, dei suoi saperi e del suo ruolo pubblico, uno sconfinamento rispetto alle partizioni tradizionali e ai paradigmi ‘forti’ attorno a cui era convenzionalmente organizzata la materia nella prassi e nella rappresentazione come nei modelli di scrittura e nei manuali. Svolte ermeneutiche che hanno aperto inediti e multiformi scenari nell’impianto teorico della disciplina come nell’apparato metodologico a favore di una maggiore trasparenza e di una più feconda sinergia tra i diversi attori del dialogo culturale, laddove gli osservati sono diventati osservatori e gli altri siamo noi.
Tramontate o incrinate le certezze novecentesche, forse nessun’altra scienza si è interrogata sulla propria identità come l’antropologia che, pur nella tensione autocritica tra partecipazione empatica e distacco scientifico, tra adesione emotiva e rigore intellettuale, sembra aver rimesso al centro dei suoi interessi la natura umana, privilegiando la soggettività, l’introspezione autobiografica, le connessioni tra saperi, l’attenzione alle storie esistenziali più intime, ai temi del corpo, dei sensi, delle emozioni e dell’immaginazione. Del resto, l’esperienza antropologica, per il fatto di essere fondamentalmente un’esperienza umana, non può sottrarsi alla prossimità dell’interazione personale, a quel “faccia a faccia” che fa della datità spaziale e temporale dell’esistenza il campo. Un campo non più altrove e ormai sotto casa, pensato come habitus più che come luogo fisico, in grado di convertire la stessa vita – nella sua estensione di vissuto, di rappresentato e di immaginato – in oggetto e soggetto consustanziale della ricerca. La vita dunque nella sua nudità come crocevia ermeneutico dell’incontro etnografico. L’antropologia, sia essa umanistica, riflessiva o decostruttiva, come scienza e arte del dialogo, metafora cognitiva essa stessa della convivenza possibile.
Se è vero che dal campo al testo è il percorso più accidentato e il capitolo più tormentato della storia dell’antropologia culturale dopo la svolta di Geertz degli anni 80 e la profonda riconsiderazione dei rapporti tra ricerca, teoria e scrittura, è certo che da allora la riflessione si è spostata sulla dimensione metaetnografica, sugli aspetti cioè letterari della produzione scientifica dei dati, sui testi come fictions e sulle contiguità con il lavoro del narratore, sul ruolo autoriale dell’antropologo nelle strategie di costruzione dell’autorità etnografica. Una stagione che, pur nei suoi eccessi e nelle sue ingenue velleità, ha avuto il merito di mettere in campo le diverse possibili forme di testualizzazione quali traduzioni dei diversi modi di organizzare lo sguardo, ovvero di osservare e di ragionare sul mondo.
L’antropologia a tutto campo di Dario Inglese attraversa i diversi temi di questo dibattito, i problemi di posizionamento sul campo, le responsabilità politiche e le implicazioni etiche connesse all’uso pubblico delle conoscenze, le prospettive ermeneutiche nuove che, nel riaffermare il ruolo fondamentale della cultura, dispiegano orizzonti mai davvero indagati tra il locale e il globale, tra umano, non umano e post-umano, tra artifici tecnologici e dati naturali, tra reale e virtuale. Attento ai fenomeni dell’attualità, Inglese propone convincenti chiavi di lettura dei fatti di cronaca e dei movimenti antropologici contemporanei: da una “meditazione demartiniana” sulla traumatica esperienza del covid alla analisi dell’arcipelago dei negazionisti e dei complottisti, dall’etnografia della didattica a scuola durante il lockdown all’esame della funzione tattica e strategica delle storie di vita nelle procedure per il riconoscimento del diritto d’asilo dei migranti, dallo studio del controverso impiego da parte dell’esercito americano dell’antropologia applicata in occasione della guerra in Afghanistan e in Iraq al ricordo a tutto tondo di Diego Armando Maradona descritto come esemplare figura di demiurgo trasgressivo.
Queste alcune delle questioni affrontate nei capitoli di questo libro. Saggi “raminghi” li definisce l’autore. In verità, tessere sparse di un mosaico che contribuisce alla comprensione delle complesse dinamiche della postmodernità, all’approfondimento critico su fatti, concetti e narrazioni del nostro tempo. «Se c’è un tema dirimente oggi – scrive Dario Inglese – questo è il modo in cui costruiamo il rapporto con la diversità nel senso più lato del termine: con le altre società umane, con quelle non umane, con un ambiente che per troppo tempo la Modernità ha considerato alla stregua di mero palcoscenico». Nella sua debolezza statutaria l’antropologia possiede paradossalmente la capacità di rendere intelligibili relazioni, concezioni e inferenze culturali dei mondi sempre più interconnessi e tuttavia frammentati che abitiamo.
A fronte della polverizzazione degli oggetti di studio e della globalizzazione dei processi di circolazione delle idee e delle pratiche, l’antropologo è chiamato a rendere visibili e riconoscibili i rapporti tra i saperi, tra gli uomini, e tra gli uomini e i luoghi, a ricomporre le cesure e le asimmetrie tra centri e periferie per affrontare le sfide del futuro prossimo venturo, a ricondurre le diversità – oggi convertite in alterità reificate – nell’unicum della natura umana iscritta nell’ordine dell’universalità.
A guardar bene, le pagine di questo libro, maturate all’interno di una rivista bimestrale che ama ricercare i nessi e i fili sottili che tengono insieme gli orditi e le grammatiche delle culture, sembrano corrispondere pienamente all’obiettivo già indicato dal compianto Marc Augè: «L’antropologia del XXI secolo deve affrontare alcune poste in gioco che non riguardano la scomparsa o la conservazione delle società “tradizionali”, ma le relazioni tra i gruppi, le interazioni tra ciò che attiene al locale, empiricamente osservabile sul campo, e ciò che attiene al globale». In questa antropologia il campo non è più un’unità stabile e definita, circoscritta e compatta, ma mobile e plurale, multisituata e transnazionale, da ripensare in termini di flussi più che di spazi geografici. In questo senso, un’antropologia che dialoga con la contemporaneità non può che essere un’antropologia a tutto campo.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
[*] Si pubblica in anteprima per gentile concessione dell’Editore la Prefazione al volume di Dario Inglese, Antropologia a tutto campo. Discorsi sulla contemporaneità, in stampa nella collana “Dialoghi” delle Edizioni Museo Pasqualino.
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020). Per la stessa casa editrice ha curato il volume Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani (2022).
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