di Mauro Magatti
Come si possono porre le religioni nell’era della globalizzazione, in un’epoca, cioè, in cui il pianeta si è fatto piccolo e interconnesso e in cui le coordinate spazio-temporali entro cui si svolge la nostra vita personale e collettiva sono profondamente ristrutturate?
È probabile che, davanti a noi, si distenda un tempo del tutto nuovo. Un tempo di conversione per l’umanità e per le stesse religioni. Un tempo a cui occorre guardare con speranza, nella convinzione che il meglio dell’umano sia davanti, non dietro di noi.
Attraversare questo tempo, e le sfide di cui esso é portatore, comporterà anche un profondo rinnovamento delle stesse religioni, almeno rispetto al modo in cui le abbiamo conosciute finora. E anche in questo caso, ciò potrebbe essere per il meglio non per il peggio.
In questa sede, vorrei dire qualcosa a tale riguardo. Le scienze umane oggi ci dicono che il rapporto con l’altro soffre della tendenza intrinseca del linguaggio (logos) verso la oggettivazione. Il linguaggio è un’arma. a doppio taglio: mentre ci mette in comunicazione reciproca e ci orienta all’universale, allo stesso tempo esso è ciò che irrimediabilmente ci separa dall’altro. Un punto chiarito dallo psicanalista Lacan, secondo il quale proprio la parola, mentre ci permette di distinguerci e individuarci, costituisce un sottile ma invincibile schermo rispetto a ciò che ci circonda.
Si potrebbe rileggere in questa chiave il tema caro a Benedetto e a Habermas sulla crisi della ragione contemporanea. Come sappiamo, il logos ha subìto, in particolare nell’ultimo secolo, una sua riduzione che, se da un lato ha permesso una crescente integrazione globale (specialmente attraverso la scienza, la tecnica, l’economia), dall’altro produce una “universalità dimidiata” (cioè ridotta e parziale) lungo la strada che R. Guardini ha chiamato di progressiva astrazione (caratterizzata da distacco e divisione).
In questa situazione, il rischio è che il dialogo non riesca più a darsi, spingendoci ad una continua oscillazione tra omologazione e conflitto. Il problema è che se ci fermiamo al logos dimenticando il dia (preposizione che nella lingua greca indica movimento: per, per mezzo, attraverso, dopo, per merito o colpa, a causa di), ciò che è transitorio finisce per diventare permanente e ciò che si trasforma, immutabile. Un tale effetto lo si vede molto bene nei rapporti sociali che si producono nelle nostre società, dove – al di là delle buone intenzioni – ciascuno viene spesso schiacciato nella sua appartenenza culturale, senza che gli sia riconosciuta la capacità di essere un soggetto capace di una propria elaborazione culturale. Lo stereotipo (una mera tipizzazione) viene così confuso con la rappresentazione. E ciò accade per tutte le differenze più significative; di razza, di etnia, di genere e anche di religione.
Di fronte a tale difficoltà, occorre tornare a riflettere sull’idea dell’altro come soggetto portatore di uno “sguardo” e non solo come un oggetto da guardare e definire. Ma dire questo, cosa può significare?
Occorre ricordare prima di tutto che non esistono culture separate dalla persone né persone separate dalle culture. Le culture non esistono oggettivamente, come entità definite e ancorate una volta per tutte a determinati territori. Al contrario, le culture sono corpi vivi e si trasmettono e trasformano attraverso le pratiche e le relazioni. In effetti, le culture esistono solo attraverso la mediazione di uomini e donne, e solo in questo modo esse durano e cambiano. In quanto forme incarnate, le culture sono in movimento.
Su questo presupposto è allora possibile fare un passo in avanti introducendo ciò che R. Panikkar chiama “dialogo dialogico” (e non meramente dialettico) a partire dal riconoscimento della struttura dialogica che caratterizza l’essere umano. Noi oggi sappiamo, infatti, che la scoperta e la costrizione della propria individualità e identità avvengono nell’incontro (con la madre, con gli altri…) e che ci è possibile capire chi siamo anche attraverso lo sguardo degli altri su di noi.
La stessa cosa vale anche a livello culturale. Senza dubbio, la cultura ci definisce e contribuisce in modo decisivo a strutturarci; e tuttavia, proprio l’incontro con l’altro – tanto più l’altro “straniero” o “povero” – ci fa prendere le distanze dalla nostra cultura, consentendo riflessività e cambiamento. Per paradosso, si può dire che la tendenza alla cristallizzazione delle culture è guarita dalla ferita-feritoria che nasce dalla provocazione che ci viene dall’altro.
In questa prospettiva, il dialogo dialogico può essere visto come un movimento (dia-logos) che porta ad un risultato aperto in grado di cambiare tutte le parti coinvolte mediante due movimenti fondamentali. In primo luogo, il movimento tra tradizione e innovazione: una identità culturale viva è una identità capace di cambiare rimanendo se stessa. In secondo luogo, la tensione tra particolare e universale che, come ci ricorda R. Guardini, ci salva dalla doppia deriva di un particolare che decade a frammento insensato e nell’universale che scade in pura astrazione.
Molto concretamente, un tale movimento dialogico si sviluppa su tre piani: 1) cognitivo (conoscenza o ignoranza dell’identità dell’altro); 2) pratico (si conosce l’altro impegnandosi in progetti comuni); 3) mistico (c’è qualcosa al di là di ciò che già siamo che ci aspetta e ci unisce).
Possiamo pensare il dialogo dialogico come una figura della trascendenza (che come la feconditá, è capace di far nascere il nuovo), nel senso che esso non riduce l’avvenire a quello del Medesimo, perché include la dualità dell’Identico.
Ciò significa dire che il dialogo dialogico é una relazione con ciò che non è ancora, che non si limita a ripetere la linea individuale del sé, ma la interrompe, dando vita ad una generazione, che è trascendenza e separazione.
Una tale trascendenza non ha la struttura dell’intenzionalità: e questa è una cosa sempre difficile da assumere davvero fino in fondo. Forse potremmo tradurre questo aspetto con il fatto che nel dialogo non c’è un ritorno su di sé, senza però che ciò voglia dire dissoluzione nel collettivo. O per dirla diversamente, che non c’è un “pieno” né prima (secondo la mera intenzionalità in senso razionale) né dopo (come rassicurazione dell’identico).
Ciò che si genera attraverso questa trascendenza nel dialogo dialogico è piuttosto un punto di libertà interiore che si apre grazie alla separazione – quella separazione che libera il soggetto dalla sua stessa fatticità, portandolo ad andare al di là dell’essere per essere-per-altri.
É in questa prospettiva che si può cogliere la sfida che la globalizzazione porta alle religioni mondiali. In un mondo che si è fatto piccolo, esse sono chiamate ad un profondo rinnovamento, diventando capaci di assumere pienamente la forma dialogale del dialogo. Così da diventare capaci di percorrere la strada che può portare al futuro di una umanità unita e non solo omologata o lacerata dal conflitto.
Tutto ciò è fondamentale rispetto allo stesso destino del logos, alla possibilità di riallargare i suoi confini (tema caro a Benedetto XVI ) e, conseguenza, a ciò che possiamo pensare come universale nell’esperienza umana.
Non occorre tacere il fatto che la strada del dialogo inter-religioso ci appare oggi molto lunga e irta di difficoltà. E tuttavia, essa è anche entusiasmante e capace di condurci verso un tempo nuovo che dobbiamo at-tendere.
Un’ultima breve postilla. Di fronte a questa nuova fase storica, la stessa Chiesa è invitata a tornare a riflettere su cosa è effettivamente accaduto nei primissimi secoli della sua storia con l’inculturazione nella cultura romana e greca. Se pensiamo alle grandi tradizioni che oggi abitano il pianeta (buddismo, induismo, confucianesimo, Islam…), occorre probabilmente una capacità nuova di vedere negli altri contesti culturali e religiosi quel frammento del Corpo Mistico di Cristo che lì si è incarnato. È probabile che per capire cosa può ciò significare, avremo bisogno di nuovi santi.
Nel frattempo si deve però camminare certi di poter ritrovare, alla fine di una strada che non ci è dato di conoscere in anticipo, l’unità agognata dell’intera famiglia umana.
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
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Mauro Magatti, sociologo ed economista, laureato in Discipline Economiche Sociali (DES) all’Università Bocconi di Milano, ha conseguito il PhD in Social Sciences a Canterbury (UK) nel 1991. Ricercatore universitario dal 1994 presso la Facoltà di Scienze Politiche dell Università Cattolica di MIlano, dal 2002 è professore ordinario in Sociologia generale. Dal 2006 al 2012 è stato Preside della Facoltà di Sociologia presso l’Università Cattolica di Milano dove insegna Sociologia della globalizzazione e Analisi e istituzioni del capitalismo contemporaneo. Visiting fellow presso l’Università di Edimburgo, l’Università di Canterbury e la Università Cattolica di Buenos Aires, è stato visiting professor presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi (2007) e la Notre Dame University (2013). Attualmente è Permanent Research Fellow del Centre for Ethics and Culture della Notre Dame University (US). Nel corso degli anni, ha pubblicato numerose monografie e saggi su riviste italiane e straniere, partecipando a network universitari internazionali e dirigendo progetti per diverse agenzie. Fa parte del Comitato Scientifico del Cortile dei Gentili ed è editorialista de Il Corriere della Sera.
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