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Dal macro al micro nelle dinamiche dell’alterità. Lo smartphone e i migranti

 Hungary Migrantsdi Giuseppe Sorce 

Avete presente quel particolare tipo di piano sequenza in cui l’inquadratura parte da un occhio (azzurro possibilmente), poi si allarga piano piano: prima il viso, poi l’intero corpo, la strada, il quartiere? Lo zoom si dilata senza fine, la cinepresa sembra prendere il volo, risucchiata. L’area, la città, la regione, lo Stato, il continente, il globo, la terra. E così via, il nostro sistema solare, la galassia, l’universo… poi ritorna nel profondo dell’iride le cui fantasiose forme colorate e ombreggiature si sovrappongono a quelle vorticose e brillanti degli universi nella loro microscopicità. E ancora prosegue lo zoom verso le molecole, le cellule, gli atomi, ancor più in profondità [1].

Immaginiamoci di poter stoppare per un attimo il viaggio della camera durante la sua peregrinazione verso il cielo dall’occhio e spostare l’inquadratura. Muoversi trasversalmente. Dal macro al micro di alcune vite, di alcuni spazi. Incroceremo allora un viaggio, dal macro del discorso sulle migrazioni al micro di una borgata, ai bordi di una città «periferia d’Europa» [2]. Un viaggio di sola andata. Un’onda perpetua che ricomincia sempre daccapo infrangendosi sul litorale roccioso, lasciando dietro di sé, o meglio davanti a sé, pozze d’acqua salata che ristagnano fra gli incavi degli scogli bassi e appuntiti. Il mare informe che si fa direzione e meta, arrivo fatale verso la terra. Lì il viaggio si ferma a sostare per  un po’. Brandelli di quella massa liquida e spumosa naufragano lontani dalla marea, incastrati fra le rocce a ribollire sotto al sole. Nelle pozze iniziano a formarsi batteri, alghe variopinte, piccoli crostacei e i pesci dalle onde più alte giungono in queste culle primordiali; s’innescano movimenti, guerre per mangiare e non essere mangiati. Giusto il tempo di micro esistenze nel breve spazio di una nuova marea e arriva un’altra onda che si porta via tutto, cambia l’acqua, si trascina via la minuscola fauna marina. Qualche alga rimane incagliata, qualche pesce più fortunato ritrova le correnti del basso fondale, qualcos’altro viene travolto e abbandonato chissà dove, forse in riva, forse di nuovo nel mare.

Ma davvero quello che succede in una pozza può contare qualcosa? Cosa sono oltre a muti esperimenti di vita, di lotte lontane e di adattamento, fra sole e mare e terra? Si trova a Palermo la pozza che voglio raccontarvi, anch’essa raccolta in un frastaglio incalzato dal mare, anch’essa incavo fra maree e territori ben più vasti. Anch’essa occasione di vita, di lotte e di adattamenti, di incontri, esperimenti e fraintendimenti, di conquiste e di rese, incomprensioni, bug, solidarietà e lontananze. Anche in questo caso le onde arrivano dal mare trasportando storie-pozze che dal grande tema-discorso globale della migrazione vengono risucchiate, rimescolate e rigettate fra turbinii di slogan massmediali ed emergenze politico-umanitarie.

Il mare e le sue onde sono metafora e forma allo stesso tempo, passaggio violento e senza sosta, energia motrice e creatrice, forza di morte e tragedia che investe esistenze umane, sottratte ai propri luoghi dalla speranza. In questo fluire incessante e drammatico alcune di esse ristagnano, come sappiamo dalla cronaca, ovunque possono: sotto i ponti, vicino le stazioni, davanti a un confine, nei CARA, in centri di ogni tipo.

È il 30 maggio 2016. Scoppia una rivolta al centro accoglienza sede dell’Associazione L’Araba Fenice, corso dei Mille 1608, Palermo. Siamo ai bordi della città. La strada, che va da Villabate alla stazione centrale, proprio nei pressi di quel tratto si fa stretta, quasi ad una corsia ma sempre a due sensi. Superando l’incrocio che porta al centro commerciale, proseguendo verso il nevrastenico snodo autostradale di Pomara, in un raggio di poco più di 500 metri, l’area denominata Guarnaschelli sembra condensarsi. Calcando la strada che la attraversa come gli insediamenti alle rive del Nilo ne seguono la sinuosità, si arriva ad una piccola borgata. Il rione si espande trasversalmente inoltrandosi negli stretti vicoli affluenti, difficilmente avvertibile da chi semplicemente passa da lì, percepito e sentito invece da chi ci vive; qualche centinaio di metri e un curvone che precede un sottopassaggio ne segna la fine.

Il centro accoglienza è un casolare fra uno di questi vicoli, ramificazioni perpendicolari della strada maestra (corso dei Mille) e quest’ultima, vicino a un paio di antiche ville baluardi di un tempo cha abitava il quartiere almeno cinquant’anni fa. In passato queste erano a un mondo di distanza dalla vita della città, omogenee oggi per colore e incuria ai pochi palazzi e palazzine di costruzione recente: un bar, un tabacchi, uno o forse due panifici, una chiesetta, un supermarket.

 Foto di G.A. Caracausi

Palermo (ph. G.A. Caracausi)

In coincidenza con l’apertura del centro il morale non era dei più alti, «non fa piacere a nessuno avere ’ste cose vicino casa» giustificava così Salvatore L. il malcontento del vicinato, «e poi lo sappiamo tutti che è una scusa per guadagnarci, si fanno dare i contributi e una parte se la mettono in tasca loro, ormai così si fanno i soldi» si sentiva sul marciapiede di fronte. Ma ben presto il buon cuore prevale e già dopo qualche giorno in molti del quartiere portano giacche, pantaloni e scarpe; «io c’ha puittava cuacchicuasa ai picciuttieddi, mischini» (io gli portavo qualcosa ai ragazzini, poveretti, anonimo).

Delegando in buona fede ai giornalisti il compito di raccontare i fatti quanto più vicini alla verità, succede che durante le fasi finali della rivolta e nelle ore immediatamente successive, si sparge la voce che la causa dei disordini sia la mancata possibilità di connessione ad internet. Come si trova scritto su vari giornali sembra che in realtà l’impossibilità di collegarsi sia stata soltanto una delle tante motivazioni che hanno portato i giovani ospiti a prendere in ostaggio alcuni fra gli operatori che lavorano nella struttura, barricandosi dentro. Si è parlato di disagi veri e propri, mancanza di cibo, medicine, servizi, mancato pagamento della diaria. Dalla maggior parte della cronaca ho appreso perciò che la rivolta in questione sarebbe soltanto il culmine di una serie di altri tafferugli accaduti nei tre giorni precedenti nei pressi del centro: in pratica la difficoltà di connessione è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, un vaso neanche tanto grande dato il ristretto numero dei ragazzi effettivamente artefici dei misfatti. Nelle molte testate giornalistiche e giornali online, locali e non, che hanno tentato di illustrare lo svolgimento dei fatti e le cause intrinseche, le voci dei protagonisti in negativo (il centro in quel momento ospitava 52 minori, i fautori della rivolta sono a quanto pare 5 ragazzi che hanno fomentato il resto) sono sparse, più accurate e precise quelle ufficiali (cioè di chi gestisce e di chi opera all’interno). Così la responsabile del centro Alessandra Airò Farulla:

«Sono tutti minori, con età compresa tra i 14 e 17 anni, non riceviamo al momento alcun finanziamento, i soldi dovrebbero arrivare proprio a luglio. Siamo noi, quindi, a farci carico di tutte le spese, compreso il cibo ed internet. La rivolta di oggi nasce dalle difficoltà di connessione perché purtroppo siamo in una zona periferica ed internet non funziona sempre bene, ma soprattutto dal mancato pagamento della diaria di 2,50 euro per ognuno dei ragazzi, che dovrebbe arrivare coi finanziamenti. Noi qui facciamo tutto il possibile, cerchiamo di non fare mancare nulla, offriamo il massimo della professionalità. E in realtà, il gruppetto che cerca sempre di coinvolgere gli altri nella protesta è composto da cinque o sei ragazzi. La loro è già un’età complicata, sono ragazzi che vanno monitorati, ascoltati, capiti. Abbiamo persino messo a disposizione il telefono di un volontario per permettere loro di contattare le famiglie. Abbiamo dovuto farlo perché i genitori non sempre utilizzano i social network, possono quindi mettersi in contatto soltanto telefonicamente. Per quanto riguarda il cibo –  prosegue – non è mai mancato. Ce lo fornisce una ditta, tramite un catering e vengono garantiti ai ragazzi colazione, pranzo e cena, con il rispetto di tutti i requisiti delle tabelle alimentari stabilite dall’Asp. Così come le medicine. Abbiamo quelle di base e l’assistenza sanitaria non è mai venuta meno. Basti pensare che alcuni di loro sono stati curati da un dentista, gratuitamente, e che più di una volta, sono stati accompagnati in ospedale per altri piccoli problemi» (livesicilia.it).

Una fra le voci degli ospiti ci dice:

« non ci danno cibo oppure ci portano la carne di maiale. Ma noi siamo musulmani e non possiamo mangiarne. Ci negano anche acqua, vestiti e scarpe – spiegano mostrando i buchi sotto le loro ciabatte. Non ci permettono di telefonare alle nostre famiglie. La maggior parte di noi li ha potuti sentire appena arrivati a Palermo. Ora sono quasi due mesi che non riusciamo a chiamarli. – Alla base della protesta anche le condizioni della struttura, sistemata in fretta e furia per fronteggiare l’emergenza –. Dormiamo in quattro per ogni stanza, alcuni bagni sono in condizioni pessime, armadi e letti sono distrutti. A questo si aggiunge il trattamento a noi riservato: chiediamo l’intervento di medici e ci rispondono sempre ‘domani’, chiediamo paracetamolo e creme ma non ci vengono date. Raccontate all’esterno come viviamo» (ilgiornale.it, palermotoday.it).

In sintesi: «I minori lamentano il mancato pagamento della diaria e un trattamento non idoneo. Poche docce, poco cibo e niente medicine. Scarsa l’assistenza sanitaria. Tutte rivendicazioni che vengono respinte degli operatori e dai responsabili del centro» (www.repubblica.it). Insomma tra le fonti la situazione non emerge mai con sufficiente chiarezza, c’è da dire inoltre che le dichiarazioni della direttrice sono ovviamente considerate quelle più autorevoli e di conseguenza vengono riportate in quasi tutte le fonti giornalistiche sui fatti (in bibliografia ne riporto un elenco).

 Foto di G.A. Caracausi

Palermo (ph. G.A. Caracausi)

È quello che accade fuori dal centro, per strada, che vale pena di essere indagato tanto quanto le supposte ingiustizie che sono avvenute all’interno; fuori, per strada, nelle botteghe del quartiere, nel viavai dei clienti del supermarket o in attesa dietro il bancone del panificio, fin sui balconi delle palazzine dei vicoli, la situazione è ben diversa. Le parole sono altre e hanno un’intensità e una qualità dissonante con gli avvenimenti dell’interno del centro accoglienza, di cui nessuno mai (se non i protagonisti) saprà mai il reale svolgimento.

Fuori, che è medesimamente un dentro (il dentro immaginabile della piccola borgata), si sente raccontare un’altra storia, che, come succede spesso in questi casi, si sparpaglia senza il minimo riferimento alla veridicità dei fatti. Dilaga come l’acqua piovana da quei tombini che nel quartiere si otturano sempre durante la pioggia, trascinando con sé dettagli, invenzioni, pareri, omissioni, supposizioni, speranze, segreti rancori, ostentate difese. L’aver sentito o in qualche modo percepito che il motivo scatenante la rivolta fosse stato la difficoltà di connessione ad Internet ha di colpo invertito il parere della gente del quartiere che si stava, e si sta, abituando alla presenza di quei giovani. La parola rivolta, applicata a contesti di tal genere, riassume facilmente i tafferugli accaduti evocando lo sviluppo e la manifestazione di azioni ed emozioni considerate legittime o comunque condivisibili, ma senza dubbio tollerabili quando si verificano, come in questo caso avrebbero potuto verificarsi, per carenza di servizi primari quali igiene, cibo, riparo, o pericolosi e seriamente ingiusti abusi. Tuttavia la notizia che forse la causa fosse stata la difficoltà di connessione ha innescato dei ragionamenti, delle associazioni, dei meccanismi di senso basati sul sillogismo becero del tipo: nessuno indaga sull’informazione che quindi viene data per vera; se è vera allora sia la rivolta in questione che quelle dei giorni precedenti vengono valutate allo stesso modo, portate sullo stesso piano; l’atteggiamento e il giudizio nei confronti della vicenda e dei giovani ospiti si ribalta.

3.La voce (in maggioranza) del quartiere ha ritenuto estinti tutti i presupposti che avrebbero reso comprensibile un atto di forza quale è stato, se pur breve e senza danni considerevoli. È bastata la diffusione della frase «tutto questo perché non hanno il Wi-Fi» che improvvisamente il parere e la disposizione emotiva e di pensiero della gente del rione cambiassero radicalmente, da tolleranza e pietà a disprezzo e rammarico. Gli ospiti del centro accoglienza, i «picciuttiaddi», hanno assunto, nello spazio di un passaparola, le forme di giovani facinorosi e viziati, spocchiosi e arroganti solo perché «non hanno internet e fanno il bordello» (anonimo). Nessuno tra la gente del quartiere si è mai inoltrato nei locali del centro per accertarsi delle condizioni effettive, nessuno ha cercato di valutarne le dinamiche all’interno durante i fatti in questione né quelli dei giorni precedenti. Quando lo si è fatto, soltanto e grossolanamente nei giorni successivi, l’emergere delle vere cause si è mischiato al chiacchiericcio dilagato e ormai ristagnante. Così come germi, sono rinati nella poltiglia dell’«infosfera» (Arcagni, 2016) idee razziste e classiste mascherate da lungimiranza sociale, «io u sapiava ch’avìa a succièriri na cuasa i chista» (io lo sapevo che sarebbe successa una cosa del genere, anonimo). E a dare sostegno ai pareri della strada sono arrivati subitanei quelli in rete (si ritiene plausibile ipotizzare che gli autori di questi ultimi non siano abitanti del quartiere):

 «Anche io adesso mi dipingo la faccia di nero perché voglio un bellissimo computer, (voglio parlare con i miei parenti in Inghilterra) tanto denaro, un cellulare, vitto, alloggio e vestiario»(Salvatore, 30-05-2016, livesicilia.it) e in risposta: «Sabato davanti una nota carnezzeria ce n’era uno che chiedeva l’elemosina parlando con l’auricolare tenendo in mano un nuovissimo e costoso smartphone Samsung di ultima generazione che personalmente non mi sono ancora potuto permettere…» (Marco, livesicilia.it). E ancora: «[…] dobbiamo  aspettare che una donna venga violentata dai giovani virgulti, o un uomo preso in ostaggio per rivendicare il Wi-Fi? basta questa non è accoglienza, non è solidarietà, è solo e semplice    prepotenza e non può essere accettata!» (sailor61, www.ilgiornale.it).

Perché proprio la parola Wi-Fi, e tutto ciò a cui è associata, ha scatenato lo sdegno degli abitanti del quartiere e non solo? Perché la possibilità di connettersi ad internet, che comporta l’avere un cellulare ha innescato tale ondata di risentimento, delusione, condanna e rabbia? Provare a rispondere a queste domande ci fa scivolare attraverso territori ontologici dai confini incerti. Cosa vuol dire, oggi,avere accesso a internet o, in altre parole essere connessi?Non è infatti soltanto un problema di essere informati, rimanere per il maggior tempo possibile in rete; non si tratta soltanto del giochino di carte quando siamo in attesa dal medico. È un problema dell’esserci, nello spazio fisico e interiore, che riguarda la presenza, la partecipazione, il fare, la percezione. Di sé e del mondo.

4.Agire in rete: io (ci) sono. Il gassoso mondo della socialità online non è il solo a richiedere delle azioni (dei comportamenti?) per mezzo di computer e simili. Senza di essi infatti non si può intervenire nella vita materiale fatta di gas di scarico e scomode platee di vecchie aule universitarie, pagare le bollette gestire il conto in banca, redigere quanto prima il bilancio aziendale, prendere un aereo, sapere qual è la linea di bus e quanto tempo è necessario per andare a trovare la zia dall’altra parte della città. Sembra che niente di tutto ciò possa  riguardare un migrante, in particolar modo un ragazzino fuggito da chissà quale parte del continente africano, che ha sfidato la morte, ha vinto la morte, è diretto forse in Francia o in Germania, parla una lingua che nessuno capisce e si trova adesso in un vicolo di corso dei Mille, alla periferia di Palermo, senza soldi, senza famiglia, con niente addosso, senza possibilità. Perché? Il migrante, rifugiato o profugo che sia, «non è come noi, unn’avi bisuagnu! a so casa unn’hanno sti cuasi»(non ne ha bisogno, a casa sua non hanno queste cose, anonimo). L’immigrato viene ri-collocato in un luogo di provenienza immaginato. Dalla “carnezzeria”, la vista dello smartphone funziona da sinapsi, ci fa ri-pensare l’individuo che chiede l’elemosina come incongruenza del sistema, poiché lo si era pensato in un altrove che la povertà imputatagli traslittera in esotico, atavico, in cui certi oggetti, certe possibilità, non sussistono. Cosa vuol dire essere online, potersi collegare?

 «L’uomo vive costantemente nell’urgenza di riempire i vuoti di tempo e di spazio con storie agite e narrate: […] l’uomo d’affari fa casa attorno a sé soffiando sulle braci di uno smartphone, evocando da Facebook i volti del suo clan allargato» (Meschiari, 2012: 21).

Proviamo a ripensare lo smartphone o un pc come protesi inorganiche che ci danno modo di essere altrove, proprio in quell’altrove che è casa. E casa vuol dire identità, sicurezza, salvezza. Attraverso una connessione internet si può rivedere la sorella, si può ridere dei video pubblicati dagli amici. Megafoni tascabili per farci sentire e sentirci meno soli, amplificatori digitali di informazioni e narrazioni. Trivelle in silenzioso smantellamento delle pratiche tradizionali di relazione e comunicazione attraverso quei confini geopolitici che la realtà analogica invece continua a costruire.«Veicoli di diffusione di un modo di essere-corpo che stanno mutando alla radice non solo la nostra società ma i nostri stessi modelli cognitivi» (manipolando Meschiari, 2012: 78), meri strumenti tecnologici, aggeggini traslucidi nelle nostre mani che però possono diventare dei ponti virtuali verso casa: una vecchia da cui si è scappati e una nuova, chissà dove in Europa, che si cerca di abitare. Inoltrandoci negli ambienti virtuali della e attraverso la rete scopriamo di potere non essere lontani. «Sto imparando lo spagnolo su YouTube» mi ha detto un amico un mese fa.

Mentre alcuni intravedono la spia del consumo dell’eccesso e del superfluo dietro certi prodotti tecnologici (spesso proprio loro che perpetrano logiche di questo tipo), altri, i nomadi, i nuovi nomadi [3] e i migranti, trovano una risorsa più preziosa in un telefono cellulare che in un paio di scarpe «ancora nuove, gliel’ho portate ieri» (Francesco S., dona il suo abbigliamento usato al centro accoglienza). Perché forse può essere importante per l’animo devastato di un individuo, un ragazzo spaesato e solo, poter far scorrere soltanto uno sguardo distratto dietro uno schermo in cui può leggere la sua lingua, vedere i suoi luoghi, sentire una voce registrata dal suo clan allargato, anche se in un “dove” digitale, che conta così tanto anche per noi.

 ph. AP.  Santi Palacios

Passaggio in Turchia (ph. AP. Santi Palacios)

 Come la facoltà motoria ha portato queste persone oltremare, la facoltà di essere online li riporta quanto più vicino casa, bypassando i traumi degli eventi che li hanno visti protagonisti. Con un balzo fra le pareti digitali delle finestre di dialogo, si ri-trovano con un parente già oltralpe o con chi invece è rimasto a casa. Una nuova modalità di essere-corpo attraverso le tecnologie è oggi sperimentata ancor più da individui che sono costretti a spostarsi col corpo e che grazie alla condizione sintetica della rete possono farlo liberamente. Quel “poter parlare coi i genitori dall’Inghilterra” è un sintomo del nomadismo [4] di nuova generazione che molti di noi giovani occidentali sperimentano nel quotidiano, e che molti giovani migranti invece comprovano a forza. Uno status le cui le sue feroci derive sono vissute dai giovani ospiti del centro i quali ne sperimentano sfaccettature di gran lunga più drammatiche e spesso tragiche, e che pare ancora non essere compreso neanche quando si traduce nelle ormai numerose stragi dei barconi nel Mediterraneo.

A proposito di ri-collocazione del migrante ad un ambiente di provenienza immaginato, proiezione in un altrove (post)bellico poverissimo. Lo sappiamo, smartphone e simili valgono oggi a strumento essenziale del fenomeno del «vetrinizzare sé stessi» (De Luca, 2016). Cosa chiediamo allora all’altro per eccellenza, l’immigrato? Gli chiediamo di non essere come noi. Per essere noi c’è bisogno di un’alterità, anche se essa si trova all’interno della nostra società. Al di là di talune derive cospirologiche che vedono nel migrante il colpevole occulto della mancanza di lavoro e delle crisi economica, non possiamo negare all’altro cibo o sostentamento minimo. Non possiamo farlo per legge (secondo alcuni), per senso di umanità (per altri), per un particolare senso di responsabilità (per altri ancora). Allora neghiamo l’unica cosa che ci definisce, per contrasto. Lo smartphone come strumento per eccellenza di sfogo narcisistico, la rete come vetrina. Che dietro l’invettiva di alcuni commenti online si celi questo, cioè l’inconscia e triste consapevolezza che internet voglia dire selfie? Parziale, ed errata ovviamente, consapevolezza.

 ph. Reuters. Alvis Konstantinidis

Il selfie dopo lo sbarco (ph. Reuters. Alvis Konstantinidis)

Dunque questo caso ci dice più cose. Non ci dice soltanto che siamo grossolani nei giudizi, che siamo insensibili davanti i drammi degli altri, che siamo ancora un po’ razzisti. Ci dice anche che la facoltà di essere online si è segretamente fatta corpo, irrimediabilmente embedded e embodied, per cui non consideriamo più mezzi eccezionali la posta digitale, la comunicazione in tempo reale, l’elaborazione dati. Consideriamo un privilegio quello che è in realtà soltanto la punta dell’iceberg della cosiddetta rivoluzione digitale. Tutto il resto, il sommerso di possibilità, azioni, modellazioni e narrazioni, è ormai inglobato nel nostro considerarci essere umani.

«Pensiamo alla maneggevolezza e all’efficacia nel consultare una mappa virtuale… con uno schermo touch è come se il nostro pensiero si concretizzasse subito in un’azione sui data e in un percorso, come se non ci fosse più una mediazione tra idea del fare e l’azione che si realizza tra le nostre mani» (Arcagni, 2016: 141).

Il like, il “segui”, i tweet, il postare, il pagare le bollette, navigare in cerca di una nuova compagnia assicurativa per la nostra auto è la norma dell’agire nel mondo, dell’essere qui e ora. Il rimosso culturale si manifesta nello choc nel vedere che “ce n’era uno che chiedeva l’elemosina parlando con l’auricolare”, non nel fatto che sia ad elemosinare, con in mano un oggetto che potrebbe essergli stato semplicemente dato (come si fa con i vestiti usati anche quando sono griffati). Lo smartphone: amante invadente a cui ci concediamo senza tempo. Abbiamo dimenticato di averlo addosso, ce lo ricordiamo solo quando ce l’hanno gli altri. Possibile che in corso dei Mille, una fra le tante dinamiche più o meno inconsce di definizione e percezione dell’alterità, sia il binomio extracomunitario-possessore di smartphone? Che l’evoluzione tecnologica, e quindi culturale, di cui siamo principali attori, manifesti le sue piste cieche fra i vicoli di una borgata alla periferia palermitana? Siamo diventati gelosi della nostra cultura del superfluo? Oppure davvero, in qualche modo, le possibilità della rete le consideriamo prerogative della nostra comunità? Possibile che trecento anni dopo il positivismo e il darwinismo sociale, ci sentiamo ancora più avanti, più evoluti degli altri, e sentiamo urgente definire l’altro negandogli le facoltà offerte da quella che supponiamo essere soltanto la nostra civiltà? O forse è tutto uno sfogo freudiano, non siamo capaci di dire no ai nostri figli e quindi ci “inventiamo” altri figli a cui dir di no?

L’opportunità di accesso a internet potrebbe essere un aiuto, un cicatrizzante possibile del trauma dello spostamento-spaesamento fisico sempre estremo, come è quello dei ragazzi del centro. Le memorie dei siti, i database online, dei social network, sono memorie di identità con tutto ciò che essa comporta, attraverso tutto ciò per cui essa si costruisce e si mantiene viva. Collegarsi significa ritornare a ricostruirsi, risanarsi, riperpetrarsi in un altrove (che per loro è il nostro qui) ignoto e spesso brutale. Oggi «l’interattività è una condizione, non un’opzione» (De Kerckhove 2010:19 in Arcagni, 2016: 5).

Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Note
 [1]  Eccone un esempio https://www.youtube.com/watch?v=Usj6viU0AaI.
[2]  Così viene presentata Palermo all’alba delle rivoluzioni del ’48 in Lupo S. 2010,  Il passato del nostro presente, Il lungo Ottocento,  Laterza, Bari-Roma.
[3]  Vedi nota successiva.
[4] In Lévy e Gori il concetto viene esplicitato nelle sue molteplici sfaccettature e implicazioni.             
Riferimenti bibliografici
Arcagni S. 2016, Visioni digitali. Video, web e nuove tecnologie, Einaudi, Torino.
Castles S., Miller M.J. 2012, L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo, Odoya, Bologna.
De Kerckhove D. 2010, la mente accresciuta, ebook, 40K, Milano:19. 
De Luca P. 2016, Nuove forme del sintomo: la dipendenza da internet, in Psychiatryonline.it
Gori F. 2015, Pensare il pleistocene, Pleistocity-The Blog, pleistocity.blogspot.it
Lévy P. 1998, L’intelligenza Collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano.
Meschiari M. 2012, Spazi Uniti d’America. Etnografia di un immaginario, Quodlibet Studio, Macerata.            
Sitografia            http://livesicilia.it/2016/05/30/guerriglia-al-centro-daccoglienza-piu-di-50-immigrati-in-rivolta_753737/ http://palermo.repubblica.it/cronaca/2016/05/30/news/palermo_protesta_di_migranti_minorenni_in_centro_di_accoglienza-140938412/            http://www.palermotoday.it/cronaca/rivolta-centro-immigrati-piazza-guarnaschelli.html            http://www.palermomania.it/news.php?palermo-migranti-in-rivolta-in-50-tengono-insegnanti-in-ostaggio&id=83653            http://www.ilgiornale.it/news/cronache/immigrati-rivolta-palermo-sequestrati-operatori-cara-1265458.html    http://www.corriere.it/notizie-ultima-ora/Cronache/Migranti-rivolta-centro-accoglienza/30-05-2016/1-A_027525038.shtml      http://palermo.gds.it/2016/05/30/palermo-scoppia-la-rivolta-in-una-comunita-di-migranti-chiedono-condizioni-migliori-video_519547/
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 Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo,  ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Attualmente studia Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna.

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