CIP
di Alessandro D’Amato, Anna Chiara Strafella
Quando, nel 2007, la casa editrice Einaudi ha dato alle stampe l’autobiografia di Vincenzo Rabito, scrittore siciliano semianalfabeta e autodidatta «chilassa [scil. classe] 1899», la pubblicazione divenne immediatamente un caso editoriale. Terra matta, questo il titolo dell’opera, suscitò sia l’interesse dei lettori, raggiungendo ben presto numeri straordinari in termini di vendite, sia quello della critica. A Terra matta si sono accostati ben presto linguisti, storici, filologi, critici letterari, etnoantropologi e nel 2012 Costanza Quatriglio e Chiara Ottaviano ne hanno tratto il docufilm omonimo, anch’esso di successo e pluripremiato in numerosi festival in giro per il mondo.
Terra matta è il resoconto che Vincenzo Rabito fa della propria esistenza «desprezata e male tratata», irta di difficoltà e sofferenze, ma affrontata sempre con animo e cipiglio «mastrise», un aggettivo del dialetto siciliano che, nell’accezione con cui lo usa Rabito, sarebbe semplicistico tradurre come ‘furbo’, ma che rimanda piuttosto all’idea di abilità, destrezza comportamentale e strategica, adattabilità resiliente. Da molti ostacoli è costellata la vita di Rabito: la morte prematura del padre, con la conseguente necessità di andare a lavorare a sette anni, l’arruolamento obbligatorio tra i soldati, tutti giovani, poveri e perlopiù analfabeti, mandati a morire sul Carso durante la Grande Guerra, la partecipazione alla Campagna d’Africa negli anni Trenta, i bombardamenti del secondo conflitto mondiale vissuti come emigrato in Germania; e poi, una volta tornato in patria, la necessità di parteggiare opportunisticamente per il partito e la fazione che di volta in volta sembrano maggiormente propensi a dispensare favori, nell’affannosa e caparbia ricerca di «umposto» sicuro, ovvero una posizione lavorativa stabile che finalmente lo tragga fuori dalla miseria e dal bisogno. Battaglie per la sopravvivenza che Rabito ingaggia senza esclusione di colpi e che porta a termine con incrollabile fiducia in sé stesso, riuscendo a sistemarsi con un impiego da cantoniere che gli consente di mettere su famiglia e di far studiare con profitto i tre figli maschi, ma che, per un comico rovesciamento di sorte, nulla si mostrano essere di fronte al fardello di una suocera pestifera che, per citare lo stesso Rabito, lo atterrisce più delle bestie feroci che ha potuto vedere in Africa.
Nondimeno, non è solo materiale biografico a rendere eccezionale questo memoriale: in fondo Vincenzo Rabito ha vissuto esperienze che molti della sua stessa generazione e condizione socioeconomica si sono trovati a sperimentare; ciò che però Rabito dimostra di saper fare in modo superlativo con il proprio patrimonio esperienziale è raccontarlo, dandogli la forma di un singolare ibrido tra romanzo di formazione e epos eroicomico, in cui le tradizionali linee di sviluppo narrativo in crescendo della vicenda dell’eroe si sfaldano allo scontro con le leggi di un mondo che non è pensato per accogliere e integrare il protagonista che, per superare le proprie disfatte e guadagnare il riconoscimento cui anela, deve ogni volta lavorare di ingegno e di astuzia, per elaborare stratagemmi che ribaltino la sua condizione e gli consentano di progredire nella scalata verso la riuscita personale. Ed è proprio la straordinaria abilità narrativa che contempera in una struttura stilistica a tenuta saldissima tensione tragica (come quella che permea la descrizione delle efferatezze, tanto subite quanto compiute, negli scenari di guerra) e ironia tagliente (che prende corpo nei commenti dell’autore, nei suoi a parte carichi di gusto coloristico e cinismo senza sconti) a fare di Terra matta un capolavoro, e a inserire a pieno titolo Vincenzo Rabito in quella schiera di talenti che, seppur con un exploit tardivo e non convenzionale, bisogna riconoscere come narratori di razza.
Un ulteriore elemento di interesse nell’autobiografia di Rabito è rappresentato dall’aspetto fisico del dattiloscritto, rinvenuto anni fa dal figlio Giovanni e oggi conservato presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S. Stefano (AR). [1] Per anni, tra il 1968 e il 1975, senza far sospettare nulla ai famigliari, battendo sulla vecchia Lettera 22 appartenuta al figlio minore, Vincenzo Rabito si dedica alla stesura delle sue memorie, lasciandoci «1027 pagine a interlinea zero, senza un centimetro di margine superiore né inferiore né laterale»[2]. Oltre a questo insolito sfruttamento del supporto cartaceo, che testimonia di una mai acquisita confidenza con le consuetudini della lettoscrittura, va annotata anche una particolare modalità di utilizzo dei segni di interpunzione: «la punteggiatura originale [infatti] prevedeva un uso ipertrofico del punto e virgola, e un uso sostanzialmente casuale delle altre forme di punteggiatura»[3]. In pratica, ogni singola parola era separata da quella precedente e da quella successiva attraverso l’inserimento di un segno di interpunzione, il più delle volte costituito dal punto e virgola, condizione che rendeva assai difficoltosa l’interpretazione da parte del lettore e che, conseguentemente, giustifica la scelta dei curatori di intervenire sul dattiloscritto originale adeguando la punteggiatura ai criteri formali della lingua italiana.
E se la fisionomia del memoriale è eccentrica, ciò che davvero ha costituito sin da subito l’oggetto dell’interesse e dell’attenzione della critica è la forma linguistica con la quale Rabito mette per iscritto i propri ricordi. Si badi, per quanto riguarda la collocazione all’interno del repertorio linguistico secondo i criteri diagnostici della sociolinguistica non c’è nulla di atipico né di alieno: l’opera di Vincenzo Rabito rientra senza incertezza nel grande gruppo delle scritture identificate come esempi di “italiano popolare” [4] (un’etichetta che si può trovare accanto, senza troppe sottigliezze, ad altre come per esempio “italiano degli incolti”, o “italiano dei semicolti”, definizioni che puntano a evidenziare le differenze tra chi non abbia goduto di alcun addestramento scolastico, seppur rudimentale, e chi invece attraverso canali tradizionali abbia quantomeno ricevuto un’alfabetizzazione di base, seppur non sufficiente a conoscere e usare la norma).
La lingua usata da Vincenzo Rabito per scrivere si presenta come un arduo e combattuto compromesso tra la lingua madre dell’autore, ovvero il dialetto di Chiaramonte Gulfi, e la varietà alta cui tenta di conformarsi, ovvero l’italiano (meglio sarebbe dire, considerando anche l’altezza temporale in cui Rabito scrive, citando uno dei contributi capitali in materia di italiano popolare, «quella che ottimisticamente si [poteva] chiama[re] la lingua nazionale»[5]), ed è dunque il magmatico prodotto della negoziazione costante tra codice posseduto e codice vagheggiato come modello, un fiume in piena che brilla per espressività, icasticità, asciuttezza e forza dei dialoghi, caratteristiche queste che non si devono solo al particolare talento affabulatore di Rabito, ma che vanno ricondotte anche ai modelli letterari di cui l’autore fa spesso menzione durante il racconto. Il rapporto con la letteratura popolare e con la paraletteratura non è secondario: se non avesse assistito agli spettacoli del Teatro dei Pupi, se non avesse assimilato le trame del ciclo bretone e carolingio, o la vicenda del Guerrin Meschino [6], se non avesse letto Il Conte di Montecristo mentre era in quarantena durante la campagna d’Africa, Vincenzo Rabito non avrebbe avuto un modello colto cui guardare e ispirarsi, sia per quanto riguarda la lingua, sia per quanto riguarda le strutture narrative.
La critica è arrivata a coniare il termine “rabitese” per sottolineare l’unicità della lingua di Rabito, unicità determinata dall’uso ricorrente e quasi specializzato di termini del dialetto siciliano che finiscono così per individuare i capisaldi della Weltanschauung del Nostro, dalla risemantizzazione o dall’interpretazione paretimologica e straniante di parole dell’italiano e, soprattutto, dall’attrito incandescente tra dialetto e lingua, una frizione la cui veemenza è concretamente percepibile nelle interruzioni, nelle perifrasi, nelle riformulazioni, nell’accumulazione di parole e concetti. Un’entità, dunque, il “rabitese” che se certamente non corrisponde a una lingua vera e propria pleno iure, di certo costituisce un prodotto linguistico allotrio e peculiare (come del resto è peculiare e “autogestita” la produzione scritta di ogni semicolto con scarso o nullo addestramento scolastico) e si configura come metonimia sul piano espressivo della sfida esistenziale che Rabito ha disputato durante l’intero corso della sua vita, ovvero la ricerca di un posto ospitale, di una casa dove sistemarsi stabilmente e poter prosperare. Se la vita, in questi rispetti, non si è mostrata sempre prodiga nei confronti di Rabito, la scrittura ha costituito per lui la possibilità di costruire per sé stesso uno spazio in cui situare la propria realizzazione, uno spazio in cui sanare i conflitti e attuare vendette in effigie.
L’autobiografia di Rabito, tra le altre cose, si presta anche a una lettura di tipo antropologico, per la presenza di elementi connessi alla cultura popolare, di cui l’autore si fa, al tempo stesso, protagonista e portavoce. Fatalismo, religiosità popolare, coltivazione dell’ambizione e rapporto col gruppo di appartenenza sono solo alcune delle dimensioni che risaltano dalla lettura di Terra matta, rendendolo di fatto un testo di grande interesse anche dal punto di vista della storia sociale dei ceti subalterni. Restando nel solco di questi grandi filoni tematici, abbiamo pensato di provare a compiere un parallelismo con un’altra autobiografia, questa però recentissima. Ci riferiamo a La mia storia di vita scritta in gamberese [7], del poeta-minatore Domenico Gamberi che, pur radicalmente diversa sotto molti aspetti, presenta interessanti punti di contatto con il testo scritto da Vincenzo Rabito e sollecita riflessioni in più di un ambito. Prima di affrontare gli elementi comuni, tuttavia, occorre soffermarsi sulle sostanziali differenze tra i due testi.
Mentre Rabito, nato alla fine dell’Ottocento, si avvale del supporto tecnologico rappresentato da una vecchia macchina da scrivere Olivetti, Gamberi, nato nel 1945, preferisce affidarsi alla più tradizionale scrittura a mano. Se, come detto, il testo di Rabito consta di oltre mille pagine (cui si aggiungono le quasi millecinquecento della seconda versione, recentemente edita a cura del figlio Giovanni), in cui sono ripercorse cronologicamente le vicende della sua vita, il manoscritto di Gamberi risulta essere molto più stringato: soltanto cinquantasette pagine, scritte a stampatello e suddivise in tre blocchi in cui, tuttavia, non sempre viene rispettata la linea temporale, ma viene fornita una carrellata rapsodica di ricordi, in cui gli stessi si avvicendano secondo una progressione temporale tutt’altro che lineare. Possiamo dire che se Rabito opera sul proprio bagaglio di ricordi con uno spirito che non esitiamo a definire editoriale (ne sono una prova, per esempio, le riscritture parziali con l’apporto di modifiche sostanziali di intere parti del memoriale), Gamberi non si preoccupa di nient’altro che di affidare alla carta, in maniera estemporanea e poco sorvegliata, i ricordi che gli tornano alla mente, per strapparli alla dimenticanza e consegnarli alle figlie e ai nipoti.
Inoltre, se i curatori di Terra matta sono dovuti intervenire corposamente sulla punteggiatura, al fine di rendere comprensibile il testo, così come sui contenuti, effettuando una selezione dei brani da pubblicare, il manoscritto di Gamberi è stato invece pubblicato per intero e senza alcun intervento sulla lettera del testo, dal momento che gli errori di ortografia dovuti alla scarsa istruzione dello scrivente non ne compromettono l’intelligibilità. Sono questi i segni tangibili degli effetti che, nei quarantasei anni che separano la nascita di Rabito da quella di Gamberi, hanno avuto da una parte la maggiore diffusione dell’istruzione obbligatoria (elemento che comunque non va né idealizzato né sovrastimato, tenendo conto di quanto ci dicono i dati storici sull’efficacia effettiva dell’istruzione primaria, in specie nelle aree rurali, nel secondo dopoguerra con strascichi infausti di cattiva gestione fino addirittura agli anni Settanta) e dall’altra, in maniera molto più dirompente e determinante, l’avvento dei grandi media di massa, specialmente della Televisione.
Non va dimenticato poi che, se Rabito ha come madrelingua il dialetto siciliano, un diasistema che presenta una grande distanza dall’italiano, Gamberi proviene dal grossetano, e per quanto la sua lingua si mostri piena di solecismi sintattici e grammaticali e ricca di localismi, essa riposa interamente nell’alveo delle varietà toscane, quelle più vicine all’italiano, e pertanto perfettamente comprensibili da lettori provenienti anche dalle altre regioni (fatti salvi, come si accennava sopra, quei localismi o quei geosinonimi che sono tipici della cultura locale e contadina, dell’universo dei mestieri antichi, che quindi richiedono d’esser interpretati ed eventualmente tradotti e che, ai fini di un’indagine storico-antropologica, si rivelano anche particolarmente interessanti ed utili). “Gamberese” è il nome con cui Domenico Gamberi, dietro suggerimento di Pietro Clemente, sceglie di chiamare la propria scrittura ed è questa una definizione che possiamo accettare se, appunto, la destiniamo a identificare l’usus scribendi peculiare di questo poeta operaio con pochi anni di scuola dalla propria parte, e se, in certo modo, vogliamo riconoscergli lo statuto di epigono (inconsapevole) dell’antecedente illustre rappresentato da Rabito.
È anche superfluo specificarlo, quando scegliamo di analizzare qualcuno di questi testi appartenenti alla categoria degli scritti privati catalogabili come esempi di italiano popolare, è ben evidente che parlare di capostipiti ed emuli significa fare un discorso ozioso e senza fondamento; tornando al caso che trattiamo in questa sede, la comparazione tra Rabito e Gamberi si rivela molto più produttiva e utile se istituita su altri elementi che non unicamente quello linguistico. Ad esempio, le considerazioni che la loro storia personale ci consente di fare in merito al rapporto e alla permeabilità tra cultura alta e cultura popolare. Di Rabito, e delle sue asistematiche ma efficaci “frequentazioni” col mondo della letteratura di consumo e della paraletteratura s’è già detto sopra. Per quanto riguarda il processo di acculturazione di Domenico Gamberi, invece, l’elemento di sutura tra letteratura culta e tradizione popolare è rappresentato dalla conoscenza e dalla pratica del contrasto in ottava rima. Per un approfondimento sulla diffusione e l’utilizzo, nell’Italia centrale, con particolare rilevanza in Toscana e alto Lazio, dell’ottava rima in diversi contesti performativi (cui corrispondono, a seconda delle modalità d’esecuzione e della rilevanza dell’accompagnamento musicale, denominazioni specifiche, tra cui ad esempio i maggi e i bruscelli) rimandiamo a studi specialistici che non possiamo, per ragioni di spazio, prendere in considerazione in questa sede ma tra i quali intendiamo citare almeno un lavoro fondamentale licenziato nel 1986, I poeti contadini, di Giovanni Kezich [8].
Domenico Gamberi dichiara d’aver maturato una passione crescente per i contrasti in ottava rima dopo aver assistito, ammirato, a una sfida a colpi di versi durata una notte intera tra un “trincagliere” (un venditore ambulante di minutaglia per il cucito e il rammendo) e un mezzadro del podere vicino, avente come tema, appunto, “il contadino e il trincagliere” e la questione su quale fosse il più utile tra i due mestieri. La stupefazione di Gamberi deve essere stata, allora e in seguito, più che giustificata, e non solo per la durata temporale del contrasto, ma soprattutto per la perizia tecnica con cui questi artisti dell’ottava rima sanno rispettarne il rigore della struttura (otto endecasillabi, di cui tre distici a rima alternata e un distico finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC, con l’obbligo, durante il contrasto, che l’inizio di ogni ottava rimi con il distico di chiusura dell’ottava precedente) e per la conoscenza da parte degli sfidanti di tutto un repertorio di topoi ed espressioni formulari che consentono di sostanziare il discorso con argomentazioni valide e, al contempo, di far quadrare rime e metrica. Ciò che rende il fenomeno dell’ottava rima importante agli occhi dello studioso sociale è, come si accennava prima, il fatto che costituisca un terreno di incontro tra fonti letterarie alte e modalità di rielaborazione popolare e testimoni della ricezione di repertori tematici e di strutture formali culte da parte di un pubblico aduso alla trasmissione orale dei saperi e alla loro preservazione attraverso la pratica mnemonica.
Lo stesso Gamberi, nell’intervista in calce al volume [9], ricorda di come tra i contadini fossero ben conosciute le ottave della Pia de’ Tolomei, figura nota grazie al ritratto dantesco del V canto del Purgatorio),e di come molti dei nuclei narrativi che noi riconosciamo provenire dall’epica cavalleresca fossero presenti anche nelle novelle narrate dagli anziani. Corrispondenze che evidenziano un flusso continuo, carsico e fruttuoso tra “alto” e “basso” e che ci portano a rivalutare in maniera significativa tutte quelle forme di letteratura che, nel corso degli anni, hanno funto da tramite tra la letteratura colta e quella popolare.
L’ottava rima toscana si mostra essere un genere di grande plasticità funzionale, e incrementa il proprio repertorio tematico, rinnovandolo e riadattandolo a seconda delle contingenze e delle tematiche più impellenti, contribuendo a rielaborare e risolvere conflitti e contrasti che si presentano nella vita di tutti i giorni, comprese le difficoltà lavorative o le problematiche di politica sociale. Ne è un caso emblematico proprio il memoriale di Gamberi, all’interno del quale si citano ottave che raccontano le condizioni dei lavoratori delle miniere, composte da campioni nell’arte del contrasto, distintisi nelle composizioni di cui Gamberi è instancabile organizzatore. Egli stesso, del resto, è per lungo tempo minatore a Campiano di Montieri, in quelle stesse Colline Metallifere di cui fa parte la miniera di carbone di Ribolla che ispirò tanto il saggio-inchiesta pubblicato nel 1956 da Luciano Bianciardi e da Carlo Cassola, I minatori della Maremma (Laterza), quanto il romanzo La vita agra, scritto dallo stesso Bianciardi, edito da Rizzoli nel 1962. E se l’esplosione del 4 maggio 1954, con la morte di quarantasei minatori,[10] era stato l’innesco del romanzo di Bianciardi, a Domenico Gamberi tocca essere protagonista diretto di un incidente, certo meno grave nei risultati, ma comunque serio: mentre, con altri operai, è nell’ascensore che porta in profondità nella miniera, la cabina, a seguito della rottura delle corde metalliche, precipita fino ad atterrare rovinosamente. Gamberi e gli altri operai sopravvivono, ma riportano ferite e danni scheletrici che non guariranno mai del tutto. Come effetto degli anni di lavoro in miniera, Domenico Gamberi maturerà quella coscienza di classe che, invece, in Rabito non sarà mai presente, così come il suo agire in maniera individualistica dimostra.
Le biografie di Rabito e Gamberi, dunque, rispondono alla necessità di lasciare traccia di sé e delle esperienze significative di cui i due autori sono stati protagonisti. Come già in Rabito, anche in Domenico Gamberi la pratica della scrittura diventa un mezzo per rappresentare la propria identità e fornire un’interpretazione personale della cultura di appartenenza. Pur diversissimi tra loro, Rabito e Gamberi ci appaiono nella loro stimolante comparabilità: sin dalla tenerissima età, i due sono costretti ad andare a lavorare e, nel corso delle rispettive esistenze, a cambiare diversi lavori. Rabito è contadino, genio zappatore durante la Grande Guerra, poi operaio e, infine, cantoniere; Gamberi lavora anch’egli in campagna, poi fa il falegname e, per gran parte della propria vita, il minatore. Ma è anche molto impegnato nelle attività della propria comunità, quale organizzatore di eventi legati alla poesia di improvvisazione in ottava rima e come militante di movimenti vicini alla Sinistra.
L’uno e l’altro affrontano mille sacrifici per far quadrare i conti, sostenere le rispettive famiglie e far studiare i figli. Più volte, ad esempio, Gamberi ricorda la passione della propria famiglia per la caccia, attività che egli stesso evidenzia come necessaria da un punto di vista economico: «Vorrei anche dire che la caccia la facevo per piacere ma anche per bisogno. […]. Due figlie agli studi e una casa da costruire, con la mia moglie che faceva salti mortali per far quadrare i conti. Per tanto qualche cinghiale aiutava eccome!»[11].
Appartenenti a famiglie cattoliche, entrambi sviluppano una forma di religiosità tutta propria: in Rabito ciò si traduce in quella sorta di pragmatismo tutto popolare secondo cui l’alternarsi di atti di fede e di disillusioni prodotte dalla realtà giustificherebbe l’utilizzo consueto della bestemmia e l’affermarsi di una visione asciutta di Dio sintetizzabile attraverso questo suo pensiero: «il Padreterno, quelle che voglino vivere onestamente, in vece di aiutarle li fa morire»[12]. Salvo tornare sui propri passi quando, in una sorta di resoconto di quanto ricevuto in vita, nonostante una condotta non certo irreprensibile e la tendenza a ricadere con facilità nella tentazione dell’imprecazione, si mostra riconoscente: «io mi trava il conto che tutte i sacrafizie che io aveva fatto il Dio mi l’aveva pagato, compure che io, […], aveva bestimiato più assai di tutte li uomine desperate del monto»[13].
Gamberi mostra un atteggiamento ancor più critico nei confronti della religione, dimostrandosi ben più consapevole rispetto a Rabito e arrivando a rivendicare il proprio ateismo, fino a sviluppare una riflessione politica dotata di una certa complessità: «Se è vero come viene detto che è in cielo in terra e in qualsiasi luogo. Se fosse così si dovrebbe guardarsi un pò intorno e poi punire chi fumenta guerre, odio, chi non rispetta il prossimo, però sono sicuro che dovrebbero sparire tutte le religioni, tutte le multinazionali e tutti quelli che non si accontentano di vivere onestamente: come chi fa politica sciacalla: sono sempre più ateo convinto, però rispetto anche gli altri che non lo sono»[14].
Anche dal punto di vista dei rispettivi approcci alla politica, come dicevamo, possiamo tracciare un interessante parallelismo: se Rabito, infatti, pur dichiarandosi socialista, al mutare dei contesti non esita a strumentali ammiccamenti nei confronti di altre forze politiche, allo scopo di ottenere privilegi e agevolazioni, Gamberi adotta una condotta più lineare e coerente, mostrando – come già evidenziato – una certa coscienza di classe. Orgoglioso delle radici comuniste della propria famiglia, Gamberi non tradisce tale tradizione e, anzi, va fatto risalire al secondo governo Berlusconi (in carica tra il 2001 e il 2005), il seguente racconto: «Avevamo messo su con mio fratello Santi una stalla prima le capre poi i vitelli da ultimo ne avevamo 3 ai quali avevo messo il nome perché io mi ci affezionavo allora gli misi il nome Silvio, Gianfranco e Umberto a quelli che mi chiedevano come mai, io rispondevo!! così li posso picchiare senza nessun rimorso»[15]. E, infine, va rilevato l’antiamericanismo più volte presente all’interno delle pagine di Gamberi il quale arriva anche a comporre un’ottava in rima, intitolata “Brava gente gli americani” [16]:
«Vagliel’a spiegà agli americani:
Razza padrona cinica ed infame:
Dei qual colonia siamo fedeli cani:
E spacciano per “oro” quel che è rame.
La guerra l’han nel cuore e nelle mani.
Quanto al cervello è nero come catrame
E soli mai son stati a bombardare.
Con la terribile arma nucleare»[17].
In conclusione, a oltre 15 anni di distanza dall’uscita di Terra matta, la pubblicazione dell’autobiografia di Domenico Gamberi costituisce un nuovo tassello in quel processo di comprensione delle modalità di scrittura non convenzionali in cui, a pieno titolo, entrambi i testi vanno a collocarsi. In questo tentativo di comparazione tra le due forme di scrittura, dietro le quali del resto si celano storie di vita, esperienze esistenziali, vicende politiche e culturali, strutture di senso e modalità espressive tra loro spesso incomparabili, abbiamo così provato, augurandoci di esservi almeno in parte riusciti, a definirne caratteristiche e contesti, narrazioni e speranze, ideologie e linguaggi, politiche e poetiche della memoria.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] A distanza di quindici anni dalla pubblicazione di Terra matta, è emerso un secondo dattiloscritto autobiografico di Rabito, elaborato in una forma più consapevolmente destinata alla pubblicazione e recentemente edito, a cura del figlio Giovanni: V. Rabito, Il romanzo della vita passata. Testo rivisto e adattato da Giovanni Rabito, Einaudi, Torino 2022.
[2] Nota dell’editore, in V. Rabito, Terra matta, Einaudi, Torino 2007: V.
[3] Nota dei curatori (E. Santangelo – L. Ricci), in V. Rabito, Terra matta, Einaudi, Torino 2007: VI.
[4] Tracciare, seppur a grandi linee, una storia della definizione di italiano popolare all’interno degli studi linguistici sarebbe davvero molto difficile in questo contributo che non punta a discutere i tratti caratterizzanti delle scritture dei semicolti, ma a mettere in luce il valore letterario e antropologico delle stesse in rapporto con la storia sociale degli individui e dei gruppi che le hanno prodotte. Non tratteremo dunque qui le differenti posizioni degli studiosi sulla legittimità di usare la categoria di italiano popolare per scritture prodotte a cavallo tra la fine del Novecento e i giorni nostri, le opinioni contrarie (il fatto che non nascano più bambini che abbiano come madrelingua esclusivamente il dialetto; la quasi totale scomparsa dell’analfabetismo; la progressiva risalita di tratti dalle varietà basse del repertorio verso le varietà medio-alte con conseguente ristrutturazione della norma; la presenza nei registri colloquiali e poco sorvegliati di parlanti colti di forme un tempo esclusive delle varietà basse, e così via) o le opinioni a favore (l’individuazione di tratti linguistici presenti esclusivamente nelle produzioni degli incolti e quindi di esse identificativi; l’importanza di distinguere tra dimensione diafasica e dunque libere scelte di contesto e dimensione diastratica…)
[5] Tullio De Mauro, Per lo studio dell’italiano popolare unitario, in Annabella Rossi, Lettere da una tarantata, De Donato, Bari, 1970: 43-75.
[6] A dimostrazione del peso che alcune opere hanno mantenuto nella formazione dei ceti popolari fino ad epoche vicinissime, di grande interesse è la recente notizia di un agricoltore di ottantanove anni di Altamura, Michele Schiavino, che, perduta la preziosissima copia personale del Guerrin Meschino decide di riscriverlo a mano confidando unicamente nella propria memoria. Si veda https://bari.corriere.it/notizie/cronaca/24_maggio_08/agricoltore-di-89-anni-perde-il-suo-libro-preferito-ma-lo-riscrive-a-memoria-ha-regalato-una-copia-ai-cinque-figli-d0303356-3573-4958-bf29-66108c198xlk.shtml
[7] D. Gamberi, La mia storia di vita scritta alla gamberese, Effigi, Grosseto 2023. La trascrizione del manoscritto è avvenuta a cura di Ida Caminada; il volume contiene inoltre un’introduzione di Pietro Clemente e interventi di Antonello Ricci, Paolo Nardini e Corrado Barontini. Inoltre, vi sono riportate le trascrizioni di due interviste: la prima, risalente ad alcuni anni fa, effettuata da Emanuela Lucchetti per Rai Storia – Telemaco; la seconda, realizzata da Antonio Fanelli, Valentina Zingari e Paolo Nardini.
[8] Giovanni Kezich, I poeti contadini, Bulzoni, Roma, 1986.
[9] Intervista a Domenico Gamberi, svolta da Antonio Fanelli, Valentina Zingari e Paolo Nardini nell’ambito del progetto IN.CON.T.R.O. (Ribolla, 14 gennaio 2010), in D. Gamberi, La mia storia di vita scritta alla gamberese, cit.: 155-195
[10] Il 4 maggio del 1954, una fuga di gas grisou provocò la più grave tragedia mineraria italiana dalla fine della seconda guerra mondiale. Un’esplosione di gas, avvenuto in una galleria a 260 metri di profondità, causò infatti la morte di 43 operai impegnati nell’estrazione della lignite. L’evento scosse gli animi e le coscienze della popolazione, tanto che i funerali degli operai registrarono la presenza di circa cinquantamila persone. Nonostante il processo alla Montecatini, società che gestiva la miniera, si risolse con un’assoluzione, la stessa società decise una progressiva smobilitazione della miniera, che nel giro di cinque anni fu destinata alla chiusura. Poche settimane fa, in occasione del settantesimo anniversario dell’evento, il presidente Mattarella ha inviato un messaggio pubblico per ricordare gli operai morti nell’incidente, definendo gli stessi come «vittime di una logica dello sfruttamento» (https://ilmanifesto.it/ribolla-settanta-anni-fa-la-strage-nella-miniera-43-operai-uccisi).
[11] Id.: 88.
[12] V. Rabito, Terra matta, cit.:3.
[13] Id.: 348.
[14] D. Gamberi, La mia storia di vita scritta alla gamberese, cit.: 91.
[15] Id.: 105. L’anti-berlusconismo di Gamberi si palesa anche in una seconda, più lunga, testimonianza, in cui si fa cenno alle beghe giudiziarie che il “Cavaliere” dovette affrontare nel corso degli anni: «Cosa sento dire in questi giorni dai telegiornali che guasi tutti i partiti vogliono il Cavaliere nel posto di Mattarella come presidente di questa beata repubblica, credo che sia la scelta più scellerata che potrebbe capitare a una larga parte degli italiani, certo qualcuno si domanderà il perché ma credo siano pochissimi, perché secondo me è come mettere uno che come conflitti di interesse ne ha da vendere, e poi secondo me è come mettere la nazione in mano alla mafia.
A quel punto avrebbe davvero il giusto presidente. Però per tanti sarebbe un fatto positivo perché ci sarebbero serie possibilità che diventi il paese dei bunga bunga. All’ora avanti così con questi beati politici che fanno parte di questo governo, beati perché con gli stipendi che prendono e tutto il resto, figuriamoci se gli interessa dove va a finire questo beato paese. E sicuramente va bene anche il Cavaliere presidente.
Non posso tenere dentro certe cose meno male che posso liberarmene così, anche se resta un certo rammarico, come una nazione finisca in certe mani ormai provate» (Id.: 111-112).
[16] Gamberi dichiara di aver imparato a comporre in ottava rima, ma di non aver mai amato, per timidezza, il momento performativo, sì da aver preferito sempre rimanere nelle retrovie e occuparsi della parte organizzativa dei Maggi. I pochi esempi di ottava rima a firma di Gamberi riportati nel memoriale devono dunque essere rimasti sempre sulla carta, senza essere recitati in competizioni pubbliche.
[17] Id.: 119.
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Alessandro D’Amato, dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali, vanta collaborazioni con le Università di Roma e Catania. Oggi è funzionario demoetnoantropologo presso il Ministero della Cultura. Esperto di storia degli studi demoetnoantropologici italiani, ha al suo attivo numerose pubblicazioni sia monografiche che di saggistica. Insieme al biologo Giovanni Amato ha dato alle stampe il volume Bestiario ibleo. Miti, credenze popolari e verità scientifiche sugli animali del sud-est della Sicilia (Editore Le Fate 2015). Ha curato il volume Cocchiara e l’Inghilterra. Saggi di giornalismo etnografico (Dipagina edizioni, 2015). L’ultima sua pubblicazione è un contributo al volume collettaneo Il carrubo è l’uomo (edizioni Abulafia, 2022).
Anna Chiara Strafella, ha conseguito la Laurea Magistrale in Letteratura, Filologia e Linguistica italiana presso l’Università di Torino. Ha fatto parte del Centro di ricerca PENS – Poesia contemporanea e Nuove Scritture dell’Università del Salento. Attualmente insegna materie letterarie nella scuola secondaria di secondo grado ed è cultrice della materia per l’insegnamento di Letteratura italiana contemporanea dell’Università del Salento.
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