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Dalla cittadinanza nazionale a quella globale

 

 per la cittadinanza1

di Federico Costanza

Lo scorso 5 febbraio è stato celebrato il trentesimo anniversario della legge di cittadinanza in Italia (legge n. 91/1992), un provvedimento nato già obsoleto, come sottolineato da alcuni commentatori [1].

Quella normativa – ancora vigente nonostante qualche modifica e le numerose proposte di riforma mai concretizzatesi nel corso degli anni – ribadiva un concetto storicamente caro all’Italia, “terra di emigrazione”: l’esigenza di mantenere i legami “di sangue” con la madrepatria, figli e nipoti di italiani nati e residenti all’estero, tema molto sentito durante tutto il XX secolo. 

Un fenomeno, peraltro, ancora presente oggi con la cosiddetta “fuga dei cervelli”, ma anche di tanti artigiani, manovali e operai qualificati. Per loro, la “cittadinanza italiana” non rappresenta più uno status di privilegio dal momento che il loro stesso Paese li costringe a espatriare per far valere i loro talenti, il diritto a un’occupazione o a una giusta paga. 

Il concetto del “legame di sangue” ha ispirato proprio il principio cardine della legge n. 91 del 1992, che rende possibile l’acquisizione della cittadinanza italiana per diritto di nascita da genitori italiani e rende allo stesso tempo ardua e marginale sia la procedura di naturalizzazione che quella di matrimonio, relegandole infine a meri atti amministrativi. 

Eppure, quella che l’attuale legge trascura sotto una mole di pretesti burocratici e insopportabile indifferenza è proprio una fetta importante della società italiana. Nel corso degli ultimi decenni, a seguito di varie ondate immigratorie, generazioni di stranieri hanno deciso di stabilire la loro residenza nel nostro Paese. La percentuale di popolazione di origine straniera presente oggi in Italia è fra le più alte d’Europa (la terza) e questo è un fatto che testimonia una significativa dinamica sociale, imprescindibile per raccontare l’Italia di oggi. Il fenomeno fa parte della nostra storia moderna e rappresenta il presente e il futuro, al pari dell’invecchiamento della popolazione o del fenomeno dei giovani che abbandonano il Paese. Le nostre scuole sono lo specchio di una società in rapido mutamento. 

Nonostante tali premesse, la discussione sulla necessaria riforma della legge di cittadinanza si è trasformata, come ben scrive Aldo Aledda, in «uno spauracchio da agitare alle frange di popolazione che temono invasioni e stravolgimenti culturali» [2]. Come spesso accade in Italia, un’opportuna riflessione sui diritti civili passa per “materia elettorale”, in modo strumentale e senza considerare le ragioni che invece dovrebbero condurre a una riflessione più profonda. 

diritti-torino-giulio-einaudi-editore-1990-cb1b14af-e5f8-4da7-a0ac-0aa6853be9fcVi sarebbero, piuttosto, due prospettive da adottare: una di tipo normativo, sulle procedure di acquisizione della cittadinanza; l’altra di tipo economico-sociale, sulla presenza degli stranieri e sul loro ruolo nelle dinamiche della società italiana, dal tema delle pensioni a quello del mondo del lavoro. Occorrerebbe, infine, ridefinire il concetto stesso di cittadinanza moderna, soprattutto in rapporto all’evoluzione delle società globalizzate. 

La trasformazione del concetto di Stato-nazione – così come fu concepito a partire dalla Pace di Vestfalia, e successivamente nel XVIII sec. – segue di pari passo la nascita di una nuova generazione di diritti, secondo il processo storico descritto da Norberto Bobbio ne L’età dei diritti [3]. Il concetto di nazione va in crisi, almeno l’idea di nazione così come era stata concepita da Eric Hobsbawm che attribuiva al nazionalismo la sua costruzione, privandola di radici sacre, tradizionali e immutabili [4]. 

D’altronde, gli anni Cinquanta e Sessanta, la fase della ricostruzione post-bellica e della decolonizzazione, confermarono le teorie dello storico britannico. Quei Paesi che affermavano le indipendenze dagli antichi dominatori coloniali erano Stati del tutto nuovi, in cui, formalmente, un gruppo sociale aveva preso il sopravvento e imponeva spesso una struttura costituzionale di tradizione occidentale su popolazioni caratterizzate da sostanziali differenze etniche, tribali o religiose, per di più attraverso la supremazia linguistica o culturale del gruppo dominante. 

Il sociologo irlandese Benedict Anderson ebbe a definirle Comunità Immaginate [5], in cui l’idea di nazione si fa avanti attraverso la costruzione di simboli, celebrazioni, processi mitopoietici destinati presto a scatenare tensioni intestine e guerre civili. Basti pensare al genocidio in Ruanda e l’odio fra gruppi etnici fomentato da una differenziazione sociale costruita ad arte dal Belgio colonialista prima e dalla Chiesa Cattolica poi. 

81orqg5qfjlCosì come su un procedimento analogo di “costruzione” si basa il senso di appartenenza europea, un corpus di leggi e diritti acquisiti che lo Stato sociale, a partire dal secondo dopoguerra e parallelamente alla favorevole congiuntura economica degli anni Cinquanta e Sessanta, ha permesso di ampliare. Si veniva dunque formando la figura di un “cittadino europeo” titolare di diritti civili e politici, sociali ed economici, che andava affermando sempre più la propria libertà di movimento all’interno di uno spazio comune europeo di “condivisione” di valori e responsabilità. 

Questo tipo di appartenenza rappresentò sempre più una forma di “difesa identitaria” anche quando i processi transnazionali di globalizzazione economica e finanziaria minarono le basi del Welfare State, soprattutto di fronte ai flussi migratori che premevano alle frontiere esterne della cosiddetta “Fortezza Europa”. Quello che il sociologo tedesco Habermas ha definito lo “sciovinismo del benessere” [6] è stato il motivo caratterizzante della politica europea negli ultimi tre decenni, non solo a livello nazionale. Paradossalmente, all’interno di questo spazio europeo “recintato” di benessere sono esplose le tensioni e le differenze fra gli stessi Stati membri, che hanno riacutizzato vecchi dissidi e fenomeni di rigurgito nazionalista, a volte di origine storica, altre del tutto nuovo. 

Attorno al fenomeno delle ondate migratorie che dalle coste africane premono sulle frontiere europee si è sviluppata tutta una narrativa mistificante che ha creato, spesso artificiosamente, il falso mito dell’“invasione”, accompagnandolo con la diffusione di un’idea tanto meschina quanto superficiale.

41nrchioeul-_sx367_bo1204203200_I partiti e i gruppi nazionalisti più estremisti hanno ipotizzato un progressivo processo di “sostituzione” che metterebbe a rischio perfino l’identità europea e questo per una duplice ragione: il decremento generale della natalità nei Paesi europei e la forza della predicazione fondamentalista soprattutto di origine musulmana. Un pensiero che ha ispirato anche romanzieri come Michel Houellebecq, o politici di ultradestra come il candidato alle presidenziali francesi del 2022 Éric Zemmour, cresciuti entrambi, peraltro, in Algeria, Paese che ben rappresenta gli esiti contraddittori della politica culturale assimilazionista in merito al riconoscimento della cittadinanza. 

Queste remore di fronte al fenomeno migratorio ci conducono a domande ormai indifferibili e che riguardano processi di cittadinanza globale che pongono al centro l’essere umano in quanto tale, titolare di diritti universali e indisponibili. Papa Francesco ha ribadito questo concetto, sottolineando come il termine “migrante” sia solo un aggettivo, perché il sostantivo è invece la persona in sé, l’essere umano per l’appunto, colui che rimane titolare dei diritti e non semplice fenomeno sociologico o storico. 

Da questi passaggi si comprende come allo stato attuale il concetto di cittadinanza giochi ormai «un ruolo regressivo, che tende a giustificare le disuguaglianze», come giustamente ha sottolineato Franco Ferrarotti [7]. Prospettandosi quindi come un vero e proprio privilegio che genera discriminazioni, la cittadinanza è ormai anche concretamente un ostacolo burocratico, persino per chi avrebbe i titoli per richiederne l’acquisizione e sovente si trova a iniziare un percorso tortuoso, faticoso, a tratti umiliante, fra le normative e le procedure. 

La normativa italiana è sicuramente fra le più obsolete e complesse. Sono stati diversi i tentativi di riforma e le proposte avanzate, soprattutto da una certa parte dell’emiciclo parlamentare, e mai giunti all’approvazione. D’altronde, una larga area politica del Paese ritiene una nuova legge non necessaria e spesso a tale convinzione si aggiunge un vasto disinteresse, anche fra coloro che condividono la necessità della riforma, sebbene non l’urgenza. 

Le proposte di legge più concrete degli ultimi anni ruotano attorno a due principi: quello dello ius soli, che lega l’acquisizione della cittadinanza al luogo in cui si nasce e quello dello ius culturae, basato sull’istruzione e la conoscenza della lingua. Tali proposte spesso contengono elementi di “mitigazione”: in senso “temperato” nel caso dello ius soli, perché non si arrivi a forme come quelle americane; ovvero nella previsione del completamento di cicli di istruzione scolastica anche di base per i richiedenti minori di età. In entrambi i casi, però, le proposte non contemplano l’estensione dei diritti alla persona e continuano a rappresentare la cittadinanza come una forma di “concessione”. 

morale-diritto-politicaUna forma di concessione, per giunta discriminatoria, è quella avanzata dai vertici del CONI che, all’indomani dell’exploit sportivo di numerosi atleti azzurri di “seconda” o “terza” generazione nelle ultime Olimpiadi di Tokyo 2021, hanno proposto una variante di ius soli proprio per meriti sportivi, magari rivolto ad atleti minorenni. Parallelamente, in molti ambiti della vita pubblica quegli stessi giovani non hanno la possibilità di partecipare a concorsi pubblici, bandi, a certe scuole, ad alcuni riconoscimenti. È il caso del concorso per uno dei premi più ambiti del cinema italiano, il “David di Donatello” che, senza troppo clamore, è stato costretto a modificare i propri termini di regolamento in tutta fretta per potere ammettere la partecipazione di professionisti italiani di origine straniera e ancora privi di cittadinanza ma che già avevano partecipato alla rassegna come giurati e che avevano addirittura vinto festival all’estero rappresentando l’Italia. 

La forma dello Stato-nazione ha affidato all’educazione il ruolo di plasmare una coscienza nazionale, anche attraverso la creazione di un sistema di istruzione pubblica e l’accesso alla cultura di massa, peculiare alla società industriale. Questo accesso non è però sempre garantito. Rimangono numerose le variabili, dalla classe sociale di provenienza fino alle disparità geografiche fra regioni dello stesso Paese. 

Abbiamo discusso di disparità di condizioni di accesso all’istruzione anche durante il lockdown dovuto alla pandemia di Covid-19, per la difficoltà di molti studenti di utilizzare gli strumenti tecnologici in DAD o anche solo di possederli. Rimane, infine, un gap sociale e generazionale di accesso alle istituzioni culturali, musei, biblioteche, teatri, cinema, a dispetto di quanto garantisce l’art. 9 della nostra Costituzione, per la tutela e la promozione della cultura [8]. 

Questa tematica in modo particolare fu affrontata da uno dei maggiori esponenti del capitalismo industriale anglosassone alla fine dell’Ottocento, uno dei filantropi più ricchi e influenti. Andrew Carnegie, scozzese, intuì il valore dell’istruzione e quanto l’aspetto culturale fosse implicitamente legato allo sviluppo di una nazione. Memore del suo passato di povero emigrante alla ricerca della fortuna in America, in vecchiaia decise di restituire alla società gran parte della sua fortuna. Attraverso un capillare programma di donazioni e investimenti, finanziò la nascita di migliaia di biblioteche e fondazioni, musei e istituzioni culturali di vario tipo, promuovendo la lettura e l’alfabetizzazione di molti fra quei poveri immigrati che, come lui, inseguivano il sogno americano. 

Andrew Carnegie

Andrew Carnegie

L’esempio di Carnegie si rifà a una tradizione di nation-building che fu davvero importante nella storia nordamericana per la costruzione di un senso di appartenenza nazionale, una presa di coscienza da parte dei coloni dell’importanza di creare un corpus valoriale di diritti civili e di responsabilità politiche, così come una condivisione del futuro della storia nazionale. La cultura, in questo senso, era strettamente legata a un processo di affrancamento dalla condizione di povertà in favore della piena affermazione dell’individuo, in un percorso di costruzione della coscienza nazionale. 

Per dimostrare quanto sia importante l’aspetto culturale nella presa di coscienza individuale di far parte di comunità nazionale, cito due esempi di istituzioni culturali internazionali che trattano gli aspetti della diversità e dell’inclusione nel processo di formazione della nazione: l’Apartheid Museum di Johannesburg in Sudafrica e il Royal Museum for Central Africa (AfricaMuseum) di Tervuren in Belgio. 

L’idea dietro il primo museo è imperniata sul doloroso “viaggio della nazione” attraverso l’esperienza dell’apartheid, l’affermazione dei propri diritti nel riconoscere che si è un popolo unico, invitato a condividere valori comuni, per quanto ognuno abbia sofferto le proprie differenze. Nel secondo caso, il percorso non è più all’interno di un Paese ma è a ritroso nella storia, fra due Paesi e due culture che devono aprirsi al confronto per poter superare il passato coloniale, che riflettono oggi sul concetto di “restituzione”. 

Seppure l’idea di Stato-nazione sia tornata in auge a difesa delle prerogative di difesa delle frontiere, c’è un mondo “in cammino” da tenere presente. L’Unione Africana ha già presentato un progetto di regolamentazione della libertà di circolazione all’interno del continente africano attraverso l’uso di un passaporto comune e di accordi interstatali, da attuare entro il 2063. Si tratta di essere consapevoli della crescita demografica del Continente e delle conseguenti pressioni sociali e politiche. 

Nonostante i dubbi che tale progetto solleva, è evidente come le dinamiche del “continente in movimento” interesseranno anche le società dirimpettaie europee, impattando non solo sui meccanismi economici e sociali relativi agli scambi e alle politiche di accoglienza, ma entrando prepotentemente nel dibattito politico europeo, condizionando di conseguenza anche le politiche interne degli Stati membri dell’UE.

 Resta da chiedersi quanto saremo pronti a governare tali processi e a trarne vantaggio. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Note
[1] Si veda, per esempio, l’articolo dell’Avv. Daniela Consoli, esperta di tematiche dell’accoglienza, scritto per l’associazione COSPE: https://www.cospe.org/?p=66647
[2] A. Aledda, Cittadinanza passiva, in “Dialoghi Mediterranei” n. 53, gennaio 2022.
[3] N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 2014.
[4] E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780, Einaudi, Torino 2002.
[5] B. Anderson, Imagined communities: reflections on the origin and spread of nationalism, Verso, New York 2006.
[6] J. Habermas, “Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa”, in J. Habermas, Morale, Diritto, Politica, Einaudi, Torino 1992.
[7] F. Ferrarotti, Dai diritti umani al diritto di umanità. Verso il concetto e la pratica della cittadinanza planetaria, in “Dialoghi Mediterranei” n. 50, luglio 2021.
[8] «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», art. 9, Costituzione della Repubblica Italiana. 

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Federico Costanza, si occupa di progettazione e management strategico culturale, con un’attenzione specifica all’area euro-mediterranea e alle società islamiche. Ha diretto per diversi anni la sede della Fondazione Orestiadi di Gibellina in Tunisia, promuovendo numerose iniziative e sostenendo le avanguardie artistiche tunisine attraverso il centro culturale di Dar Bach Hamba, nella Medina di Tunisi.

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