Tempi difficili è il titolo del romanzo con cui Dickens, centosettanta anni fa, narrò la vita di persone che affrontavano i disagi di una società agli inizi dell’industrializzazione; ma anche gli anni del XX secolo non sono stati facili da vivere, sia perché la rapidità con cui la società delle macchine si evolveva ha creato molti problemi nuovi, dovuti alle tante trasformazioni sociali e culturali, sia perché il Novecento è stato segnato da guerre e da feroci dittature che hanno lasciato ferite non ancora rimarginate.
Dal 1950 circa l’Europa, nonostante qualche drammatico sussulto, ha vissuto un periodo in fin dei conti abbastanza tranquillo, ma gli ultimi anni sembrano essere forieri di cambiamenti culturali e politici che fanno presagire vicende future problematiche. Non è tanto, tuttavia, la situazione economica mondiale o la ricomparsa, in molti Paesi, di un antico e mai sparito fantasma politico ad essere inquietante, quanto tutto l’attuale patrimonio culturale con cui le persone dovranno affrontare i difficili problemi di una società complessa in crisi, quale quella in cui viviamo.
Soffiano, infatti, venti pericolosi che diffondono notizie e informazioni o fasulle o falsamente scientifiche, o falsamente storiche accettate, purtroppo, con estrema superficialità da chi non ha tempo o adeguati strumenti di analisi o, addirittura, non vuole riflettere su quanto accade intorno a noi. Ne abbiamo avuto prova negli anni scorsi quando si parlava della pericolosità delle scie chimiche lasciate in cielo dagli aerei a reazione (erano i normali getti di scarico della combustione); o quando, durante la pandemia del covid circolava la teoria (purtroppo ancora non estinta) secondo la quale i vaccini avrebbero procurato chissà quali guai, tra cui quello di inoculare nei nostri cervelli un microchip mediante il quale “qualcuno” ci fa fare quello che vuole (ma, a quanto pare, non saranno i vaccini a inocularci i microchip, bensì i progetti di Elon Musk, se realizzati). È comunque inutile stare ad elencare qui le miriadi di notizie false e di sciocchezze nate da analfabetismo scientifico e da opinioni basate su pregiudizi e diffuse senza badare al buon senso e nemmeno al senso comune: basta seguire per qualche minuto le conversazioni che si rincorrono sui social per rendersi conto del degrado culturale che si sta estendendo ovunque. Quello che, però, preoccupa di più è il tono, volgare, sguaiato, rancoroso con cui le opinioni sono espresse. Si è perso il senso della misura e quello del rispetto e della tolleranza.
Negli scorsi numeri di Dialoghi Mediterranei si è svolto un interessante dibattito sul progresso; cosa s’intende per progresso? C’è stato? Non c’è stato? A gettare lo sguardo sul mondo che ci circonda, sembrerebbe che oggi, tranne che nelle scienze e nella tecnologia, non esista un progresso né a livello di istruzione scolastica e di cultura generale, né sul piano, soprattutto, dei comportamenti nei confronti degli altri: mai come oggi si è vista in giro tanta ignoranza unita a tanta violenza verbale, a tanto odio, a tanto chiuso egoismo.
Il libro di Guido Barbujani, L’alba della storia. Una rivoluzione iniziata diecimila anni fa (Editori Laterza, Bari-Roma 2024), smonta e distrugge con grande facilità e con una prosa scorrevole e garbata tutte le teorie pseudo scientifiche che circolano ormai da qualche decennio in Italia, in Europa e in America, invitandoci, contemporaneamente, ad avere rispetto del prossimo e a capire cosa succede in noi quando veniamo a contatto con la natura e con gli altri. E lo fa non con argomentazioni filosofiche e moralistiche, ma con la storia dell’umanità, dai primordi a oggi, raccontata mediante un’illustrazione di tutte le scoperte scientifiche degli ultimi due secoli avvenuti nel campo dell’archeologia e della genetica. La cosa più interessante è, però, la sua capacità, sostenuta da dati verificabili, di mettere in correlazione tutti gli eventi storici e le scoperte scientifiche in maniera tale da delineare una plausibile evoluzione dell’umanità.
In questo modo Barbujani oltre a seguire le linee di studio tracciate molti anni fa da Leroi-Gourhan ne Il gesto e la parola (1964-65), vi aggiunge anche gli esiti a cui è giunta la ricerca biologica negli ultimi cinquanta anni, nonché gli apporti della linguistica. Si tratta quindi di un libro in cui gli argomenti sono trattati con un metodo multidisciplinare, come aveva suggerito lo stesso Leroi-Gourhan quando affermava che «la scienza dell’essere umano … [è] la più interdisciplinare di tutte le discipline». Non è che i risultati della ricerca e i concetti riportati dall’Autore siano accettati da tutti, perché intorno ad essi ci sono stati e ci sono ancora accesi dibattiti; e discordanze notevoli spesso si sono verificate fra gli studiosi delle discipline scientifiche e in special modo tra questi e i linguisti. Nel complesso, tuttavia, sono venute fuori indicazioni utili a tratteggiare un processo evolutivo generalmente convincente.
Ecco, per esempio, come Barbujani spiega, mettendo insieme storia e biologia genetica, il perché nel mondo ci sono singole persone e intere popolazioni allergiche al latte: «Fino allo svezzamento non ci sono problemi, ma poi arriva il momento in cui si separano due strade: qualcuno va di qua e qualcuno di là. Qualcuno continua a digerire il latte, qualcun altro invece diventa intollerante allo zucchero del latte, al lattosio». Tutto dipende dalla mancanza di un enzima, la lattasi, che gli uomini cominciarono a produrre dopo aver abbandonato la vita di cacciatori-raccoglitori, nella cui alimentazione il latte era del tutto assente; quando diventarono stanziali e gli allevamenti fornirono loro una sostanza molto proteica come il latte, l’organismo di alcuni di loro si attrezzò per digerire il nuovo cibo, creando, attraverso una mutazione genetica, l’enzima adatto, la lattasi. Tale mutazione non interessò tutti gli individui, tanto che l’industria alimentare oggi mette in vendita latticini “senza lattosio”, così come la pasta e il pane “senza glutine”. Si tratta, scrive Barbujani, di «un caso raro di selezione darwiniana mediata da fattori culturali: una mutazione casuale diventa vantaggiosa perché è cambiata l’economia; chi eredita questo vantaggio lascia in media più figli di chi non lo eredita; e quindi quella caratteristica si diffonde».
La stessa cosa succede per il grano ed anche per i broccoli che per qualcuno hanno un gusto amaro: sono, spiega Barbujani, esiti dovuti sempre a geni differenti e a cause in cui si intrecciano meccanismi biologici e motivazioni culturali. Apprendiamo così che circa diecimila anni fa avvenne, durante, il neolitico, una rivoluzione i cui esiti si sono protratti fino a noi, perché essa «ci ha cambiato i geni, e qui il “ci” si riferisce a tutti: umanità, animali e piante».
Barbujani, difatti, prima di affrontare il tema dell’uomo, ci parla dell’evoluzione e della migrazione intercontinentale delle piante e poi di quelle degli animali. Tutto ciò avendo come sfondo della scena l’attività culturale dell’uomo e della società umana. Dietro all’evoluzione genetica dal farro al grano odierno, dal pomelo all’arancia, dal citrullus al cocomero e alle varie zucche, c’è sempre un retroterra culturale; molte mutazioni genetiche sono state spontanee, ma l’uomo ha saputo scegliere quelle necessarie e vantaggiose per lui e scartare quelle dannose. «Insomma, addomesticando le piante l’uomo è riuscito a sfruttare una vasta gamma di variazioni genetiche, molte delle quali sarebbero, per conto loro, patologiche». Si tratta, ovviamente, di cultura empirica, ma senza di questa non c’è la possibilità di avviare né un qualsiasi approfondimento né una speculazione teorica.
Lo stesso discorso vale per gli animali. L’autore si occupa, con un tono a volte divertito, in un capitolo, dell’evoluzione di alcune specie, soprattutto di quelle che hanno accompagnato la storia dell’uomo: pecore, capre, maiali; i bovini, i cavalli e infine i cani. Prima di affrontare la narrazione dei processi genetici che hanno dato vita agli animali cosiddetti domestici, ci spiega che tale esito non ci sarebbe stato senza una sindrome da domesticazione, cioè se alcuni animali non fossero stati di già predisposti ad essere addomesticati: un esperimento condotto da ricercatori russi negli anni ’50 del secolo scorso dimostrò, infatti, che le volpi sono restie a farsi trasformare in cani. Tra gli animali più disponibili troviamo le pecore, le capre e i maiali, che sono stati tra i primi, circa diecimila anni fa, ad essersi abituati abbastanza facilmente alla convivenza con gli umani; e così anche per i bovini. Più complicato invece l’addomesticamento dei cavalli, una specie dalle vicissitudini complicate: i luoghi in cui erano presenti, circa quattro milioni di anni fa, erano le Americhe, da cui scomparvero per molto tempo e dove ritornarono insieme con i primi colonizzatori europei circa mezzo millennio fa; ma ormai si trattava di animali la cui nascita ed evoluzione sono da collocare nell’Eurasia, precisamente nei territori dell’attuale Kazakhstan, dove erano presenti già 5500 anni fa.
Oggi siamo abituati a vedere un numero notevole di specie canine, da quelle di taglia minuscola da salotto a quelle robuste dei cani da guardia. Si tratta di specie ottenute recentemente, derivanti senza dubbio anch’esse dal lupo, del quale non sappiamo quando e dove sia avvenuta la prima domesticazione (forse in tanti luoghi diversi) e quante volte essa si sia verificata; l’unica cosa di cui la genetica ci fa certi è che non esiste più il lupo ancestrale, quello da cui discendono tutti i cani, perché le molteplici contaminazioni genetiche, cui questi animali sono stati sottoposti, hanno fatto perdere le tracce del genoma capostipite.
La presenza di così tante specie di cani ci consente tuttavia di capire come i destini degli umani si siano intrecciati con quelli delle piante e quelli degli animali domestici: «A partire dal neolitico, certi animali finiranno per coabitare con l’uomo e per migrare con l’uomo. Come le piante, anche questi animali acquisteranno caratteristiche nuove … questa coabitazione modificherà la nostra alimentazione, l’abbigliamento, il modo di lavorare i campi, di trasportare pesi e di spostarsi, e ci esporrà a nuove malattie: aspetti centrali, insomma, della vita quotidiana». In breve: l’uomo con il suo sapere ha modificato oltre all’ambiente anche alcune specie di animali e di piante, e tutto ciò ha modificato l’uomo, sia a livello genetico, come ci dimostra la questione della digeribilità del latte, sia a livello culturale, economico ed esistenziale. Ancora una volta viene chiarito come mutazioni genetiche e attività culturali si intreccino continuamente.
Il libro contiene pure un capitolo in cui si parla della città, un tipo di insediamento che oggi è diffusissimo ovunque, ma sconosciuto a chi ancora praticava la caccia e la raccolta; la città, luogo ideale di residenza non può che nascere nell’epoca in cui si dà l’avvio all’agricoltura, che esige la stanzialità dei gruppi umani. La prima città di cui abbiamo conoscenza si chiama Çatal Hüyük, fondata nell’altopiano anatolico circa novemila anni fa, la cui struttura somiglia agli insediamenti pueblos del Nuovo Messico. Nel capitolo la città è descritta nelle sue strutture e nelle relative funzioni, ma quello che qui più ci interessa è il fatto che città significa “vivere insieme”, cosa che costringe ad un uso razionale del territorio, ad una cooperazione nel lavoro agricolo e nell’allevamento del bestiame; per non parlare dei legami sociali che permettevano e permettono una maggiore protezione reciproca. La città, quindi, è stato il luogo principale in cui si è formata una complessa cultura dell’umanità. La situazione comunque non era idillica, le malattie mietevano molte vittime, specie tra la popolazione infantile, e i rapporti della convivenza spesso sfociavano in episodi di violenza, come dimostrano i segni di fratture presenti in molti dei crani rinvenuti dagli archeologi, di uomini ma anche di donne. La città e l’agricoltura, tuttavia, nonostante gli aspetti negativi, sono state alla base di una grande crescita demografica le cui conseguenze si possono «riscontrare a millenni di distanza, nei geni delle popolazioni umane».
Da questo punto del libro in poi comincia la discussione che riguarda l’umanità e che contempla molti dei pregiudizi che ci portiamo dietro da millenni. Davanti alle contemporanee vicende spesso tragiche che avvengono tra le decine di migliaia di persone che si spostano dal Sud a Nord e da Est a Ovest del globo terrestre, affrontando pure la morte con la speranza di raggiugere un luogo migliore da quello dal quale scappano, ci troviamo spiazzati, e pur volendo aiutare questi migranti, non solo non sappiamo come affrontare il problema che è gigantesco ed è irrisolvibile senza la collaborazione di buona parte delle Nazioni che hanno un certo peso (ed alcune anche la responsabilità storica del colonialismo con cui hanno depredato l’Africa e l’Oriente), ma addirittura complichiamo le situazioni con i nostri pregiudizi e la nostra ignoranza a livello di scienza e di storia.
Secondo Barbujani, i problemi che ci stanno di fronte, come migrazioni, razzismo, sostituzione etnica sono stati sempre presenti nel corso della storia dell’umanità. Il problema del razzismo è per noi un fatto quasi endemico, basti considerare la storia moderna dalla scoperta dell’America ai campi di concentramento nazisti, ma anche a livello di senso comune il fenomeno è molto diffuso e si basa spesso sul colore della pelle: basta essere un po’ più scuri o avere lineamenti diversi dai nostri, per farci convinti che le razze umane sono tante e che chi non è come noi può costituire un pericolo. Davanti a tali problemi, la risposta del genetista, dopo aver raccontato cosa è successo durante un’evoluzione durata millenni, è definitiva e perentoria: «Insieme a innumerevoli crimini, la scienza della razza ha prodotto innumerevoli scemenze». Legato al pregiudizio della razza è la paura che un altro popolo possa scacciarci dal nostro luogo e prendere il nostro posto: «Che gli altri siano una minaccia, che un popolo invasore possa cancellare la nostra civiltà, è una paura antica, messa per iscritto dai tempi di Omero. La cosiddetta sostituzione etnica è la forma moderna e nevrotica di questa paura». La storia ci insegna, per esempio, che l’Italia ha subìto, dalla fine dell’impero romano fino quasi all’anno Mille, molte invasioni da parte di popoli diversi, col risultato però che non c’è stata nessuna sostituzione etnica; anzi, chi è arrivato in Italia da conquistatore dopo qualche tempo si è totalmente integrato.
Per dimostrare queste sue asserzioni, l’Autore si serve sia delle tecniche di misurazioni del tempo basate sullo studio dell’isotopo del radiocarbonio, ampiamente usato dagli archeologi, sia dei lavori di Luca Cavalli-Sforza e di Albert Ammerman sulla diffusione dell’homo sapiens dal luogo d’origine fino a coprire tutti i continenti. Cavalli-Sforza e Ammerman, analizzando il DNA dei corpi ritrovati durante gli scavi archeologici o per puro caso, e riportando gli esiti su una mappa geografica dell’Eurasia, hanno tratto le seguenti conclusioni: l’evoluzione che ha trasformato i cacciatori-raccoglitori in agricoltori stanziali è partita (secondo i calcoli di Ammerman) dal Sudest ed è avanzata gradualmente in direzione Nord ed Ovest: si è «trattato di un processo migratorio, molto ampio, su tutto il continente». Questo continuo flusso migratorio è stato definito diffusione demica.
Secondo Cavalli-Sforza il sistema dell’agricoltura si espandeva alla velocità di 1,1 km l’anno, impiegando, secondo le analisi di Lemmen e Gronenborn circa cinque mila anni per raggiungere i Paesi del Nord Europa. Cosicché le migrazioni dei popoli che oggi ci sembrano fenomeni eccezionali e limitati nel tempo, sono da considerarsi una caratteristica tipica dell’evoluzione umana. Mentre i cacciatori divenuti agricoltori acquisivano importanti tecniche di lavoro e si avviavano ad elaborare una cultura sempre più complessa, perdevano qualcosa della loro natura primigenia: le analisi del DNA di cacciatori del mesolitico (da 13 mila a circa 6 mila anni fa), compreso l’uomo di Cheddar, nell’attuale Inghilterra, avevano sì gli occhi azzurri, ma anche la pelle nera, che col tempo si è schiarita per adattarsi alle nuove condizioni ambientali. Contemporaneamente perdevano anche l’aggressività iniziale con una lunga opera di auto-domesticazione (che, purtroppo, non è ancora finita). Nel loro lungo pellegrinaggio alla ricerca di nuove terre da coltivare, si portavano dietro i semi e le piante e gli animali che avevano addomesticato; e così oltre all’homo sapiens, si diffondevano il grano e gli alberi da frutta e le pecore, il maiale e i bovini: l’alba della storia si avviava a diventare giorno fatto.
Nel libro si parla anche del lavoro degli storici delle lingue che cercavano quella lingua madre dalla quale ipotizzavano che discendessero tutte le altre. Le discussioni tra loro e i genetisti non sono state idilliache, tuttavia i loro studi in buona parte convalidano gli esiti cui sono giunti archeologi e genetisti; per esempio, una conferma delle tesi di Cavalli-Sforza sulla gradualità della diffusione demica è lo studio di R. Sokal che giunge alle seguenti conclusioni: «in Europa popolazioni che parlano lingue differenti sono geneticamente più lontane di quanto ci si aspetterebbe sulla base delle loro distanze geografiche»; dunque, aggiunge Barbujani, «fattori culturali, come la presenza di confini linguistici, hanno lasciato conseguenze a livello genetico. È un po’ la storia di lattasi e amilasi, solo che stavolta la differenza culturale sta nel linguaggio e non nella dieta».
Il libro di Barbujani è quindi il risultato di un lavoro che toglie ombre e dubbi sulla storia primordiale dell’umanità e che spazza via una serie di pregiudizi che ci portiamo dietro da sempre, credendoli, per ignoranza o superficialità, concetti e idee che hanno fondamenti scientifici. Nelle sue argomentazioni Barbujani spesso ha l’occasione di indicare l’etnografia e l’antropologia come discipline capaci di spiegare determinate questioni che sorgono nell’interpretazione dei ritrovamenti archeologici e nelle ipotesi suggerite dallo studio del DNA. Diventa chiaro così che, nel cammino per uscire dallo stato di natura, la cultura ha avuto una grande parte anche se le citazioni di Barbujani, che riguardano questo aspetto, sono essenziali, brevi e non esaurienti; d’altra parte le sue competenze sono altre e quindi spetta agli esperti delle discipline antropologiche completare le sue argomentazioni.
Le attività dell’uomo, specie in età moderna, sono diventate complesse e complicate, sono generate da cause diverse e molteplici, pertanto l’antropologia, la disciplina che le studia, da sola non è sufficiente: come suggeriva Leroi-Gourhan, la scienza dell’essere umano ha bisogno della collaborazione di più discipline. Barbujani ci ha dato un esempio di come fare; per questo il suo libro appare come un modello di metodologia che ricorre a discipline lontane fra loro ma che messe insieme riescono a trovare risultati unitari e convincenti; il suo, in conclusione, è un libro indispensabile perché chiarisce molte questioni e può essere molto utile, forse anche necessario, per le suggestioni che offre a chi si interessa di antropologia.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadino, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici. É stato edito nel 2023 dal Museo Pasqualino il volume, Incursioni antropologiche. Paesi, teatro popolare, beni culturali, modernità.
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