Paolo Valera e l’Italia anti-colonialista nella narrativa libica
«Il 23, 24, 25, 26 e 27 ottobre 1911 rappresentano la carneficina araba di 4000 uomini, di 400 donne e di molte fanciulle, ragazzi e bimbi. (…). Più la strage è inaudita e più gloria è cosparsa sugli uccisori. È la civiltà nazionalista che impera nel mondo. (…) È il massacro degli innocenti. È l’uccisione in massa della popolazione rimasta neutra nella zona del teatro della guerra. I soldati italiani non c’entrano. Per noi non sono che strumenti. Devono ubbidire. Si dà loro il fucile e si ordina loro di sparare. È il regolamento militare. La disubbidienza è sentenza di morte. O uccidere o lasciarsi uccidere. I responsabili sono gli autori della “fatalità storica”. Sono gli iniziatori della “passeggiata militare”. Sono i direttori della guerra. Il re non c’entra. È persona sacra. La sua funzione è del gerente. Lo includiamo per ragione decorativa. Chi c’entra è Giovanni Giolitti. Egli è colpevole di avere insigniti, promossi ed elencati gli autori degli eccidi invece di averli appesi come sono stati appesi in Piazza del Pane, i quattordici arabi dichiarati ribelli dagli invasori nella loro casa nazionale. Escludo anche gli jingoisti della finanza. Essi sono gli sciacalli di tutte le conquiste. (…) È naturale che ci sia il Banco di Roma al dorso della guerra Italo turca. Il massimo criminale delle giornate di Sciarasciat è Carlo Caneva, divenuto pari di sua maestà. È lui, l’esonerato dal ministero per la sua inattività, per il suo fabianismo, per le sue crudeltà che hanno dato all’oasi di Tripoli il nome spaventoso di Oasi della morte» [1].
Questo passaggio che ha degli aspetti di struggente attualità, comparato al neocolonialismo genocidario tuttora in corso contro i palestinesi, per mano dell’esercito israeliano, è l’incipit del saggio con cui il giornalista Paolo Valera inizia a “fotografare” uno dei più efferati massacri compiuti dagli italiani in Libia, quello di Sciara Sciatt, del 1911, con penna e macchina fotografica.
Da quell’evento chiave e dallo stesso personaggio di Valera prende anche le mosse la scrittrice libica ‘A’isha Ibrahim (1967) nel suo recentissimo romanzo Sunduq al-raml (“Scatolone di Sabbia”, 2022) [2], che ha raggiunto la soglia della long list dell’International Arabic Book Prize. Ne è protagonista un soldato italiano ed assumere la prospettiva dall’altro lato della barricata rappresenta una grande novità nel panorama della letteratura libica [3]. L’immagine del nemico colonizzatore oggetto del jihad patriottico, nella fiction in prosa e in poesia, è stata per lungo tempo condizionata dal rapporto conflittuale che l’Italia ha instaurato con la sua colonia, anche oltre il post-indipendenza, almeno fino al 2008.
Elvira Diana, massima esperta di letteratura e cultura libica, afferma che l’obiettivo dell’Italia non era solo quello di occupare militarmente la Libia, ma anche di italianizzare il popolo libico cancellando ogni traccia della sua identità autoctona, berbero-arabo-islamica, il legame con il proprio passato e la propria cultura e lingua:
«In quegli anni mentre il generale Rodolfo Graziani, per isolare il Paese, faceva erigere una barriera di filo spinato che delimitava il confine egiziano, nello stesso tempo si rafforzavano e si erigevano le barriere censorie atte a bloccare ogni stimolo intellettuale che potesse arrivare in Libia dall’Occidente o dai Paesi arabi pionieri del movimento di rinascita socio-culturale della nahḍah del vicino Oriente» [4].
Tale sorta di “embargo” culturale patito dalla Libia nel trentennio di colonizzazione italiana, è raccontato da alcuni intellettuali e letterati, soprattutto poeti, soggetti a dure persecuzioni, come Khalil al-Qallal, e Kamil Hasan al-Maqhur che denunciano la condizione di totale paralisi vissuta dalla Libia sotto il governo italiano [5]. Nel contempo, nell’Italia fascista fiorisce il romanzo coloniale, sebbene non riesca a godere di grande successo di pubblico e di critica, secondo il critico Casales [6]. A mo’ di esempio, Kif Tebbi [7] (1927), di Luciano Zuccoli è incentrato sul rapporto sentimentale tra un libico europeizzato e una donna indigena, che assume sistematicamente la funzione di personaggio primitivo, ma sensuale e seducente, secondo i canoni di un certo orientalismo euro-americano.
Stessa coloritura esotica ha la protagonista de La sperduta di Allah [8], di Guido Milanesi, una storia d’amore impossibile e dal tragico esito tra un colono italiano e una giovane araba, dove non manca la glorificazione del governatore Volpi, del generale Graziani e dei soldati italiani. Si intravedono qui i germi dell’elaborazione di una mentalità e «coscienza coloniale» che doveva portare alla rigenerazione dell’uomo fascista, dal momento che non poteva accettare la commistione con il sangue libico. Ispirandosi alla letteratura coloniale fascista nasce anche un cinema di propaganda coloniale, che riproduce la retorica del ritorno alla terra della civiltà romana per ricreare un nuovo immaginario negli italiani ed indurli così a stabilirsi in Libia [9].
A distanza di quasi un secolo, il romanzo libico che presentiamo qui, offre una prospettiva lontana dai clichès dell’immagine dell’italiano protagonista, pur non rinunciando alla denuncia degli eccidi e umiliazioni subite per mano del colonizzatore. C’è sicuramente la stessa infatuazione dell’italiano per una figura esotica, ma accompagnata dall’imperativo etico di fare giustizia. Il lettore si immagina un principio di storia d’amore, forse a senso unico, ma essa muore sul nascere.
Nel secondo romanzo di cui ci occuperemo più avanti, e che copre un tempo diegetico successivo, quello dell’era fascista, al-Hurub min jazirat Ustika (“Fuga da Ustica”, 2018), di Salih al-Sanusi [10] (1950), l’infatuazione di un esule libico per una siciliana è già annunciata dall’inizio del romanzo e si evolve gradualmente fino all’epilogo.
Scatolone di sabbia: la documentazione che alimenta la fiction
Gli eventi di Scatolone di sabbia partono dall’invasione italiana contro Tripoli, dall’ottobre 1911, con un evento chiave che segnerà la vita del protagonista italiano:
«Sulla linea del fuoco, ad ‘Ayn Zara, a sud di Tripoli, dove ardeva l’inferno della battaglia, dopo una settimana intera di razzi, odore di polvere da sparo, gelo e pioggia fastidiosa, Sandro Comparetti celava in sé il desiderio recondito che succedesse un miracolo che lo facesse schizzare via, lontano dal quel pantano. Pensava che fosse un desiderio indecente, espressione di un declino morale che riguardava solo lui, immerso nel vortice dei suoi recenti comportamenti incoerenti, finché una pallottola gli trapassò la spalla destra. Allora lesse l’invidia nello sguardo dei suoi commilitoni e li sentì mormorare sulle ferite fortunate, quelle che non uccidono e non fanno amputare arti, anzi regalano un passaporto per uscire sani e salvi da un’odiosa vita militare» [11].
Sandro Comparetti è un sognatore e romantico che suona il pianoforte e ambisce a diventare giornalista professionista. Si trova a combattere proprio nella battaglia di Sciara Sciatt, dove i bersaglieri italiani cadono in un’imboscata e vengono poi uccisi dai tripolini. Miracolosamente Sandro scampa alla morte.
Nell’atmosfera ipernazionalista del periodo, la canzone di Gea della Garisenda “Tripoli, bel suol d’amore” al Teatro Balbo di Torino, nel settembre 1911, diventa l’inno nazionale che ha la funzione di mobilitare gli italiani ad andare in guerra o a colonizzare la Libia. Udita dovunque per le strade, nei bar, sui balconi delle case e nelle stazioni ferroviarie, sovrasta a poco a poco le voci di rifiuto della guerra. Ai contadini viene raccontata la storiella dell’abbondanza dei raccolti nell’oasi della Tripolitania, che produce olive grandi come mele.
Quando Sandro arriva a Tripoli, lo shock è forte: invece di giardini e alberi da frutta si vedono solo incendi, sabbia cocente, terrore, proiettili e trincee. Una mattina, da una di quelle trincee, passa una bella ragazza tripolitana a dorso di un asino, col fratellino. Di Halima, una venditrice di latte, lui si invaghisce, ma non riesce a trovare un modo per comunicare con lei.
Quando il generale Caneva ordina ai soldati di vendicare l’eccidio di Sciara Sciatt, con l’assalto alle case dei tripolini, la cattura e l’uccisione di tutti coloro che non si arrendono, Sandro si ritrova ad uccidere una donna che cerca di resistergli con un bastone. Scopre subito che si tratta della madre di Halima, che è costretto a trascinare, insieme al fratellino su un camion. Saranno subito deportati su una nave alla volta dell’isola di Ustica.
Il romanzo racconta in pagine di descrizioni crude e dettagliate la tragedia della deportazione di donne, uomini e bambini. Molti di loro muoiono di colera o di stenti, prima di arrivare a destinazione. Successivamente Halima viene trasferita con altre donne e bambini nel carcere di Gaeta, dove contrae una grave tubercolosi.
Nel primo capitolo, che si apre con l’episodio, già narrato, del ferimento di Sandro, il suo trasferimento in ospedale, le dimissioni, il congedo insperato, e l’agognato incontro col mitico giornalista Valera, il tempo diegetico fa un passo indietro di uno o due mesi circa. Vengono introdotti altri personaggi secondari, squarci di vita sociale del protagonista italiano, e inquadrate in modo avvincente e realistico le contraddizioni di una realtà sociale italiana che precede l’invasione della Libia, che risalta ancora di più agli occhi se messa a confronto con le aspettative create dalla bugiarda propaganda giolittiana.
Dal secondo capitolo il lettore rimane comunque sospeso tra due linee narrative che corrono parallele, quella dell’esperienza militare di Sandro, e quella della protagonista libica Halima con le sue peregrinazioni attraverso le prigioni italiane. Alla fine del romanzo, la scrittrice riprende il filo interrotto nel primo capitolo, per mostrarci la ricerca della giovane libica da parte di Valera e Sandro, ma quando arrivano al carcere di Gaeta, Halima sta per spirare.
Dalla precisione di certi dettagli e dinamiche descritte, si evince che la scrittrice ha consultato i reportages di Valera, disponibili in arabo e inglese, nonché quelli del giornalista irlandese Francis McCullagh con la sua monumentale opera Italy’s war for a desert being some experiences of a war-correspondent with the Italian in Tripoli [12]. Il romanzo si conclude con una nota di speranza: Hamad, il fratellino di Halima, finalmente torna a Tripoli per piantare la sua terra e irrigare i suoi alberi.
Fuga da Ustica: il confino nel periodo fascista
Nel 1921, dopo l’arretramento degli italiani nella fascia costiera, il governatore Volpi dà inizio alla riconquista della Tripolitania. Nel 1928 parte quella della Cirenaica, che dovrà però scontrarsi con la resistenza libica annientata solo nel 1932, con la cattura ed impiccagione del mitico capo Omar al-Mukhtar. Tra il 1930 e il 1931 vengono giustiziati migliaia di cirenaici e tutta la popolazione nomade dell’area viene deportata in enormi campi di concentramento lungo la costa desertica della Sirte. Altre migliaia subiscono un umiliante esilio nelle isole minori del Sud Italia. Nella cornica storica del primo decennio fascista [13], è ambientato il già citato romanzo Fuga da Ustica. Si apre con una descrizione geografica dell’isola e della situazione dei libici lì relegati:
«Nell’isola di Ustica si attendeva con trepidazione l’estate più delle altre stagioni. Col clima mite riprendevano vigore le attività tra i villaggi sparsi tra le colline, i commerci e i viaggi. Il mare si calmava e in tanti c’era la voglia di partire dall’isola, dopo avervi trascorso le altre stagioni. Aumentava la produzione agricola e si faticava meno, ma le ore di lavoro per i prigionieri confinati nell’isola si allungavano, dalla mattina ad un’ora prima del tramonto. Ma a Salìm al-Barrani la fatica e le lunghe ore di lavoro non facevano né caldo né freddo. La sua vera ragione di vita era l’amore per Lorenza, sbocciato tra rocce nere, lavori forzati e frustate dei carnefici, sfidando oppressione, ingiustizia, disperazione e frustrazione. Quanto ai suoi due compagni, Idris al-Tayeb e Ramadan al-Jali, loro preferivano il duro lavoro all’aria aperta e al sole, piuttosto che restare nelle buie caverne della prigione, sotto la vigilanza delle guardie e dell’amministrazione carceraria. Gli altri loro compagni esiliati non accettavano di lavorare in quelle piccole aziende agricole per ragioni di salute o d’età, preferendo sedersi in gruppi sugli scogli nelle mattinate di sole».
Tra umiliazioni, torture, stenti e malattie subite dai personaggi, oltre alla liaison amorosa tra Salem al-Barrani e Lorenza, emergono storie di amicizia con gli oppositori politici italiani al fascismo, che avrebbero potuto esser inserite in modo più organico. Proprio in quegli anni Antonio Gramsci trascorre il primo periodo di confino nell’isola di Ustica e lascerà nei suoi scritti testimonianza dell’amicizia che lo legava ai libici [14].
La fuga dei due innamorati dall’isola verso la Svizzera verrà anch’essa agevolata da altri personaggi italiani, oppositori del fascismo, e si concluderà tragicamente, con l’uccisione del libico, a pochi metri dalla salvezza. L’unico barlume di speranza è la nuova vita che sta nascendo nel grembo di Lorenza.
L’importanza di Fuga da Ustica deriva dal fatto che è il primo romanzo libico interamente ambientato in Italia e che tratta della questione della deportazione dei prigionieri ribelli al di fuori dalla loro patria. Dà anche voce ai poeti e alle loro tribù che hanno opposto resistenza, a tanti eroi di epiche battaglie, e si pone l’obiettivo di onorare i martiri di quel jihad e rafforzare i legami di fraternità tra gli esiliati. Tra le migliaia di libici che dal 1911 vengono deportati in varie isole del Sud Italia, soprattutto Ustica, Favignana, Ponza e le isole Tremiti, con l’accusa di fomentare la resistenza contro l’Italia c’è anche Fadil al-Shalmani, che assume un ruolo di personaggio pure nel romanzo di al-Sanusi, e riceve un omaggio letterario in quello di Ibrahim.
Nelle poesie di Fadìl al-Shalmani, nato in un villaggio della Cirenaica nel 1877, elementi realistici catturano scene di ordinaria repressione e umiliazione, momenti difficili dei suoi anni di prigionia nell’isola di Favignana. Egli registra i nomi dei suoi compagni e delle loro tribù, e così facendo dà valore aggiunto alle sue poesie come preziose testimonianze del patrimonio della poesia orale libica, espressa nel dialetto locale. In una di esse [15], al-Shalmani racconta di notti insonni, con la mente confusa e il cuore tremante. Una catena di ferro gli lega le mani e non smette di piangere. Prova tutti i tipi di tortura e umiliazione. In un’altra delicata poesia, il poeta intravede un uccello che vola sopra la sua cella, implorandolo di portare un messaggio alla sua famiglia e ai suoi cari, e di ricordare alcuni dei suoi compagni di prigione morti in esilio. Conclude la sua lettera pregando Dio di liberarlo e tornare a casa. Questa poesia è contenuta nel romanzo Scatolone di sabbia e cantata da una prigioniera di Bengasi che Halima incontra nel carcere di Gaeta [16].
In un’altra poesia al-Shalmani esprime l’augurio di morire in un luogo dove si possa sentire la chiamata alla preghiera del muezzin. Una delle poesie più interessanti, dal punto di vista italiano, è quella in cui egli esprime la sua rabbia e maledizione contro Favignana, chiedendo a Dio di riversare su di essa tutta la sua vendetta e di cancellarla dalla faccia della terra [17]. Dopo sette anni trascorsi nel carcere dell’isola, il re d’Italia annuncia un’amnistia generale.
Nella sua fiction, al-Sanusi si prende la licenza di trasferire il poeta da Favignana ad Ustica, sebbene non ci siano prove della sua presenza nella seconda isola. Con tale operazione, che potrebbe anche esser perdonabile, presta però il fianco ad errori storici. Ad esempio, Vito Ailara, uno degli autori dell’interessante saggio I relegati libici a Ustica dal 1911 al 1934 [18], sulla scorta di prove di foto d’archivio e testimonianze, segnala che, a differenza di quanto descritto nel romanzo di al-Sanusi, i libici a Ustica non erano stati internati in grotte buie, ma nei cosiddetti “cameroni” a piano terra, sicuramente in condizioni di sovraffollamento e degrado igienico [19].
L’opinione di Valera, con cui abbiamo aperto il nostro contributo, secondo cui nell’invasione della Libia i soldati italiani non c’entrano e sono solo strumenti dei regimi, perché devono ubbidire, a mio avviso è parzialmente vera: non credo possa giustificare la scelta di stuprare le donne, o usare un certo zelo nel compiere eccidi cruenti, come quelli consumatisi durante i trent’anni di occupazione coloniale e pulizia etnica contro i libici.
Purtroppo questa storia di bestialità e violenza gratuita si ripete oggi a Gaza, in Cisgiordania, e in altre parti del mondo, e ci ripropone l’eterno dilemma della responsabilità etica di colui che “agisce”, seguendo la propria interiorità, e non esegue diktat esterni.
I due autori libici, Ibrahim e al-Sanusi, in modo alquanto curioso, nel giro di quattro anni, scrivono due romanzi che optano per la riconciliazione tra Italia e Libia, secondo due modalità differenti: da un lato Ibrahim rinforza con la sua narrativa l’idea che l’italiano ha subìto la decisione bellica. Al-Sanusi, dal canto suo, crea un legame d’amore che viene coronato dalla speranza di un erede, figlio delle due civiltà. Pur gettando luce sulle nefandezze dell’esercito italiano nel genocidio e nell’espulsione di migliaia di libici dalla propria terra, entrambi scelgono però di mostrare l’italiano solidale e anti-colonialista, costruendo personaggi a tutto tondo che costituiscono dei punti di riferimento per tracciare, almeno a livello simbolico, una linea di evoluzione dei rapporti tra i due popoli, l’italiano e il libico. Entrambi sono vittime delle velleità guerrafondaie di potentati finanziari internazionali che hanno fortemente voluto la distruzione della Libia nel 1911 e nel 2011, probabilmente gli stessi che adesso vogliono quella dell’Europa e del Medioriente. Finora col sacrificio di africani, ucraini, russi, siriani, iracheni e palestinesi.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Paolo Valera, Le giornate di Sciarasciat fotografate, Tipografia Borsani, Milano, 1912: 3. Si veda pure Roman Rainero (a cura di), “Paolo Valera e l’opposizione democratica all’impresa di Tripoli”, Quaderni dell’Istituto Italiano di Cultura di Tripoli, 3, 1983.
[2] ‘A’isha Ibrahim, Sunduq al-raml, Dar al-Mutawassit, Milano, 2022. Il titolo è la traduzione araba della definizione di Libia proposta dal senatore Gaetano Salvemini: «Tripoli non è altro che uno scatolone di sabbia in fiamme dove non vale la pena rischiare». La scrittrice è autrice di altri due romanzi (Qasil, 2018, La guerra della gazzella, 2020) e di una raccolta di racconti.
[3] Una riflessione su tale prospettiva nuova è presente nel video di un programma culturale in cui la stessa scrittrice discute di alcuni aspetti del testo. Cfr. https://youtu.be/MKbsF9O-xL0?si=89kD38fbVeU_ZY0P.
[4] Elvira Diana, L’immagine degli italiani nella letteratura libica dall’epoca coloniale alla caduta di Gheddafi, Istituto per L’Oriente, Roma, 2011:23
[5] Nella prosa si segnala oltre al saggio di Elvira Diana, La letteratura della Libia dall’epoca coloniale ai nostri giorni, Carocci, Roma, 2008, e Maria Grazia Sciortino, “Donne e resistenza: il caso libico letto attraverso studi contemporanei”, in M. Ruocco (a cura di), Pace e guerra nel Medio Oriente in età moderna e contemporanea. Atti del Convegno SeSaMO – Società di Studi per il Medio Oriente (Lecce 18-20 novembre 2004), 2 voll., Mario Congedo Editore, Lecce 2008, vol. I: 75-83.
[6] Francesco Casales, Raccontare l’oltremare. Storia del romanzo coloniale italiano (1913-1943), Mondadori Education, Milano. L’autore calcola che in quel trentennio sono stati pubblicati più di 170 romanzi o raccolte di racconti di argomento coloniale.
[7] Luciano Zuccoli, Kif Tebbi, Treves, Milano,1923. Sulle fortune editoriali del romanzo si rinvia a Francesco Casales, Raccontare l’oltremare. Storia del romanzo coloniale italiano (1913-1943), cit.: 323-324.
[8] Guido Milanesi La sperduta di Allah, 1927, Alberto Stock, Roma.
[9] Kif Tebbi ha ispirato il film eponimo di Mario Camerini (1928), mentre da La sperduta di Allah Enrico Guazzoni ha adattato un film nel 1929, che è andato perduto.
[10] Salih al-Sanusi (1950), di Bengasi, professore emerito di diritto e relazioni internazionali, presso la Facoltà di Economia e Scienze Politiche dell’Università di Bengasi, oltre a vari saggi sul diritto internazionale e la globalizzazione, ha scritto i seguenti romanzi: Quando strariperà il fiume? (1980), Domani i cavalli verranno a trovarci (1994), L’epopea dell’ultimo dei Bani Hilal (1999), La gola del vento (2002), Fiori bianchi ai bordi del cimitero (2022). Quest’ultimo romanzo si focalizza sulla colonizzazione italiana della Libia, sempre in periodo fascista.
[11] Sunduq al-Raml, cit.: 5.
[12] Francis McCullagh, Italy’s war for a desert being some experiences of a war-correspondent with the Italian in Tripoli, Herbert and Daniel, London, 1912. Nella prefazione al testo afferma che di essersi concentrato sulla guerra italiana per la seguente ragione:“No fair nor complete picture of any portion of it has yet been drawn. This lacuna is largely due to two causes, the official censorship of Italy and the unofficial censorship of the Italians who are for one reason or another in favour of the war”. Nel romanzo si fa anche esplicito riferimento a Guy d’Aveline, La guerre à Tripoli, par une temoin oculaire, Librairie Vic et Amat, Paris,1912.
[13] Sulla campagna militare fascista di riconquista della Libia del 1923, cfr. Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, Laterza, Roma-Bari, 1988: 174-232; e Nicola Labanca, La guerra italiana per la Libia, 1911-1931, Il Mulino, Bologna, 2012: 145-172.
[14] Cfr. Vito Ailara e Massimo Caserta, I relegati libici, cit.: 95. Gramsci rimarrà nell’isola per 44 giorni, prima di finire nel carcere di Milano.
[15] Diwan al-sha’ir al-mujahid Fadil al-Shalmani. Sha’ir mu’taqal Fafiniyana, Majlis tanmiya al-ibda’ al-thaqafi, Benghazi, 2004. Nel suo saggio già citato, L’immagine degli italiani nella letteratura libica dall’epoca coloniale alla caduta di Gheddafi:32, Diana si sofferma sulle peculiarità stilistiche e di tale poesia politica e patriottica, che circolava clandestinamente e oralmente. Cita, tra gli autori più eminenti, Ahmad al-Sharif, che coniuga tradizione e modernità, e Muhammad al-Sunni, che compone poesie di genere encomiastico, dedicate al Gran Senusso, e altre di tema patriottico, contro i colonizzatori italiani. A parte il rinnovamento dei contenuti, al-Sunni rispetta la metrica e le rime della poesia classica, a testimonianza che, mentre per i letterati di Tripoli è più facile aprirsi alle moderne scuole poetiche orientali e occidentali, per i letterati della Cirenaica i contatti culturali con il resto del mondo furono più limitati.
[16] Sunduq al-raml,: 185.
[17] Pubblicata in Aldo Nicosia, “Al-shi’r al-‘arabi wa juzur al-mutawassit. Maraya mutanazira”, in Akhbar al-Adab, n° 1590, 14 gennaio 2024: 22-23. Si rimanda ad un articolo in cui viene riportata una sintesi di alcune poesie dello stesso, in Khalifa Abo Khraisse, “La deportazione a Favignana negli scritti di un poeta libico, in “Internazionale” del 13/08/2018.
[18] Vito Ailara, Massimo Caserta, I relegati libici a Ustica dal 1911 al 1934, Centro Studi e Documentazione Isola di Ustica, 2012.
[19] Sulle condizioni degli esuli libici nelle varie isole si veda A.a. V.v., The Libyan Deportees, Markaz dirasat jihad al-libiyyin didd al-gazw al-itali, Tarabulus, 1989, che contiene anche lettere confiscate dalle autorità carcerarie, e Yusuf Salim al-Bargati, al-Mu‘taqalat al-fashistiyya bi-Libiya. Dirasa tarikhiyya. Markaz dirasat jihad al-libiyyin didd al-gazq al-itali, Tarabulus, 1975, dedicato alle prigioni fasciste in Libia con relative liste di internati.
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Aldo Nicosia, ricercatore di Lingua e Letteratura Araba all’Università di Bari, è autore de Il cinema arabo (Carocci, 2007) e Il romanzo arabo al cinema (Carocci, 2014). Oltre che sulla settima arte, ha pubblicato articoli su autori della letteratura araba contemporanea (Haydar Haydar, Abulqasim al-Shabbi, Béchir Khraief), sociolinguistica e dialettologia (traduzioni de Le petit prince in arabo algerino, tunisino e marocchino), dinamiche socio-politiche nella Tunisia, Libia ed Egitto pre e post 2011. Nel 2018 ha tradotto per Edizioni Q il romanzo Il concorso di Salwa Bakr, curandone anche la postfazione. Ha curato per Progedit la raccolta Kòshari. Racconti arabi e maltesi (2021).
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