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Dalla Libia all’Italia. Tutte le incognite della “questione migratoria”

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Migranti in un centro di detenzione in Libia

di Michela Mercuri

Nel 2018 il tema delle migrazioni si è confermato al primo posto tra le sfide che, secondo l’opinione pubblica dei Paesi membri, l’Unione europea deve affrontare. Il 40% dei cittadini intervistati, infatti, ha posto la questione migratoria davanti a quella del terrorismo [1]. La risposta del nostro governo agli umori dell’opinione pubblica italiana è stata questa: gli sbarchi dalla Libia verso le coste italiane nel 2019 sono diminuiti quasi del 90% rispetto al 2017.

Se osserviamo i numeri, in effetti, il dato appare veritiero. Il calo degli arrivi si è registrato costantemente negli anni: 119 mila persone nel 2017; poco più di 23 mila nel 2018. I numeri a disposizione per il 2019 indicano solo 224 migranti giunti in Italia nel primo semestre dell’anno, rispetto ai quasi 10 mila del 2017. Al di là delle statistiche, però, è necessario osservare cosa si cela dietro ai numeri per capire cosa è stato fin qui fatto dall’attuale governo, se il problema è stato davvero risolto, quali sono le criticità e quali le prospettive future.

In primo luogo va evidenziato che il governo a marchio Lega-Cinquestelle ha proseguito sulla strada di quello precedente e della politica migratoria dell’ex Ministro dell’interno Marco Minniti.  Il vice premier, Matteo Salvini, infatti, fin dall’inizio del suo mandato ha continuato a porre la “questione migranti” tra le priorità della politica estera italiana tanto che la sua prima missione all’estero ha visto come destinazione Tripoli, area della Libia da cui partono la più parte dei migranti diretti verso le nostre coste. Nell’atto pratico il governo ha deciso di rafforzare i poteri della guardia costiera libica per delegare alle autorità locali le attività di search and rescue. Ciò prevede l’assunzione di responsabilità di Tripoli nella zona Sar (una zona marittima dedicata, sotto il controllo delle forze della guardia costiera) e dunque un maggiore spazio di manovra nel bloccare i flussi diretti verso l’Italia per ricondurre i migranti in Libia.

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Migranti in un centro di detenzione in Libia

Negli ultimi giorni, poi, è stato anche approvato il discusso “decreto sicurezza bis” che prevede, in estrema sintesi, multe per i comandanti, l’armatore o il proprietario delle navi che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque territoriali nonché l’istituzione di un fondo per i rimpatri di 2 milioni di euro [2]. Un chiaro segnale all’Europa – fin qui piuttosto reticente verso una maggiore condivisione del “problema migratorio” – che l’Italia intende implementare ulteriormente la “politica dei porti chiusi”.

Tuttavia, è evidente che il problema non è risolto e le criticità sono molteplici. In primo luogo le politiche fin qui messe in atto hanno limitato lo sguardo ai confini nazionali e al massimo a quelli libici in un’ottica del tutto securitaria, non capendo che il vero problema non sta nella “fortezza europea” ma al di là del mare e riguarda le organizzazioni criminali che lucrano sul traffico dei migranti e che fanno di questo business la propria fonte di reddito. In secondo luogo quasi nulla è stato fin qui fatto per risolvere la questione dei migranti che vengono ricondotti in Libia, spesso in condizioni drammatiche. Esamineremo separatamente questi aspetti.

 Il business model dei trafficanti

«Negli anni si è strutturato un mercato inumano di migranti che si snoda dai luoghi più remoti dell’Africa, attraversando le aree più impervie del continente, in cui operano organizzazioni criminali senza scrupoli che traggono profitti enormi dai traffici. L’attuale situazione di ampia crisi politico-militare nello spazio euromediterraneo e del Sahel, la disgregazione della Libia che unisce queste due regioni, l’emersione di un jihadismo diffuso e la territorializzazione del jihadismo in proto Stati criminali, sono tutti elementi che appaiono far riconfigurare i vecchi fenomeni migratori in un nuovo, mutato, contesto di sicurezza e di politica internazionale» [3].

Estese e documentate violazioni dei diritti umani avvengono per migliaia di individui su base giornaliera lungo le vie di migrazione verso l’Europa Questo fenomeno ha dato vita alla riconfigurazione di forme di schiavitù che credevamo ormai superate e di commercio di esseri umani. Nel frattempo si sono rafforzati movimenti terroristici e jihadisti che controllano molte rotte di transito nel Sahel e in Libia e traggono dai traffici umani importanti profitti che possono essere reinvestiti in attività criminali e alimentare conflitti civili locali che a loro volta producono nuovi flussi e nuove reclute per il terrorismo. L’effetto più dannoso dello “sguardo limitato” dell’Europa è stato quello di non considerare l’entità del fenomeno del business criminale, favorendo l’attivazione di forze economiche capaci di mettere in vendita un bene di cui non hanno la proprietà: il diritto di entrare illegalmente in Europa. In questo modo siamo divenuti ricattabili dalle innumerevoli milizie e gruppi armati che gestiscono i traffici, sia in Libia sia nei Paesi di transito: sono loro a decidere quante persone possono entrare in Europa e quando.

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Migranti in un centro di detenzione in Libia

Inoltre, la recente recrudescenza delle violenze nell’area di Tripoli, a causa del tentativo di avanzata di Khalifa Haftar per la conquista della capitale [4], ha reso più labili i controlli e, così, per i trafficanti tornano ad aprirsi dei nuovi varchi. Se da un lato, inizialmente, a causa della guerra tra l’esercito del generale e le milizie fedeli al leader onusiano Fayez al- Serraj, gli sbarchi apparivano più difficoltosi in conseguenza del caos nel Paese che aveva intaccato anche le capacità organizzative del complesso mosaico di figure necessarie per organizzare le partenze, ora, con la cristallizzazione della situazione sul terreno, le reti criminali si sono adattate al “nuovo contesto”, riuscendo a fare ripartire i flussi.

Oltre ad avere appaltato ai criminali la gestione dei flussi migratori, l’indifferenza dell’Europa ha facilitato la creazione di un vero e proprio “business model” dei trafficanti, mettendo sempre più a rischio la vita dei migranti. Se, per esempio, qualche anno fa un viaggio da un Paese africano verso le coste libiche durava pochi mesi e costava, in media, circa 3 mila euro, oggi può arrivare a 15 mila e durare anni perché sono aumentate le organizzazioni e le figure che fanno parte del “modello”: brokers, mediatori, trafficanti, organizzazioni criminali e jihadiste sparse per i Paesi di partenza, di transito e di arrivo.

Per le organizzazioni criminali è una straordinaria opportunità economica, destinata a ingrassare ulteriormente dei network sempre più grandi. Nel 2015 il business model del traffico di esseri umani arrivava a coinvolgere «almeno 40 mila addetti» [5]. Un affare ricco, profittevole e non particolarmente difficile. Oggi le cifre sono addirittura aumentate e, se i soldi finiscono durante il tragitto, i migranti subiscono ogni forma di sfruttamento. L’ingegno degli imprenditori della morte, inoltre, ha ideato nuove “tecniche di vendita” per adescare clienti nei Paesi di origine. I trafficanti dalla Libia all’Italia non offrono solo il servizio di passaggio illegale ma anche la possibilità di pagare il viaggio con attività illecite, con un disegno criminale già pianificato nei Paesi di partenza. Chi non può permettersi di pagare subito un viaggio viene avviato sulla strada dello spaccio e dalla prostituzione [6].

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Migranti in un centro di detenzione in Libia

E allora come risolvere il problema? La risposta appare piuttosto semplice: il vero tema di dibattito dell’Europa non dovrebbe essere quello di decidere quale sarà lo Stato di sbarco ogni qual volta che una nave colma di migranti arrivi in acque internazionali, quanto piuttosto quello di combattere i trafficanti ad iniziare dai Paesi in cui operano. Come contrastare questo fenomeno e soprattutto qualcuno è disposto farlo? Come fa notare Alberto Negri, la soluzione per fermare la tratta dei migranti, per lo meno in Libia, c’era già e ci sarebbe ancora. La missione europea Sophia prevedeva di scendere a terra per dare la caccia ai trafficanti e quindi alle milizie che li proteggono, specie nella Tripolitania. Ciò avrebbe implicato, però, combattere con una parte di quelle fazioni che appoggiano il governo Serraj, fin qui interlocutore ufficiale delle politiche migratorie dell’Italia. «Ci sono quindi tre soluzioni pratiche: 1) o la guerra la fa l’Europa ma non intende farla; 2) o la facciamo noi italiani che non vogliamo (o possiamo ndr) farla; 3) o la facciamo fare al generale Haftar»[7] che, però, in questo momento sembra fortemente depotenziato a causa dello stallo della sua azione militare. Insomma, è evidente che anche su questo punto, nonostante i vari summit internazionali che si sono risolti in poco più che in qualche stretta di mano, la debole Europa è a un vicolo cieco.

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Migranti in un centro di detenzione in Libia

Le colpe dell’Europa

È evidente, da quanto sopra accennato, che se l’Europa non sarà capace di attuare una politica comune, la questione migratoria non troverà mai una soluzione concreta e duratura. Senza esimerci dal sottolineare gli errori dell’Italia, qui si intende spiegare come l’assenza di una politica condivisa abbia rotto, forse in maniera irreversibile, quell’ultimo barlume di Europa che, fino a qualche anno fa, riuscivamo ancora ad intravedere. Per comprendere gli accadimenti che hanno portato a questa considerazione è necessario fare un passo indietro e tornare al vertice di Taormina del maggio 2017. Durante il summit il presidente francese Emanuel Macron, affermava: «Non abbiamo ascoltato l’Italia sull’ondata che stava arrivando e ora servono regole comuni Ue»[8]. A neppure venti giorni da queste dichiarazioni al vertice di Tallin sui migranti, Parigi volta le spalle all’Italia che aveva chiesto il necessario aiuto per il contenimento e la gestione dei flussi di disperati riversati sulle sue coste. Poco dopo, probabilmente con il benestare di Donald Trump, che aveva incontrato a Parigi il 13 luglio, Macron decide di convocare un vertice tra Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar. Nulla di male verrebbe da dire. Pacificare la Libia è un obiettivo prioritario di tutti ed è, peraltro, uno step necessario per migliorare la gestione dei flussi migratori. Tuttavia vi è un errore di fondo, la Francia ha convocato il vertice in via unilaterale, invitando, poi, le Nazioni unite ed altri attori internazionali. La prassi imporrebbe, invece, l’esatto contrario. Dovrebbero essere le Nazioni unite ad occuparsi della questione, coinvolgendo i singoli Stati. Questo cortocircuito spiega in maniera evidente la debolezza delle organizzazioni internazionali sulla questione libica, così come su altri temi di rilevanza internazionale.

Tra vari incontri, che non modificano, però, il tono della questione, arriviamo così “ai tempi più recenti”. Il premier Giuseppe Conte affronta il “muro europeo” durante il vertice del 28 e 29 giugno 2018 con una agenda piuttosto chiara. Tra i punti più delicati si richiedeva una responsabilità comune tra Stati sui naufraghi in mare, detta in altri termini scindere tra porto sicuro di sbarco e Stato competente a esaminare le richieste di asilo. «L’obbligo di salvataggio non può diventare obbligo di processare domande per conto di tutti»[9], disse, allora, il presidente del Consiglio italiano parlando alla Camera dei deputati. Alla chiusura dei lavori, però, l’Europa rispedisce al mittente le richieste più onerose. Nel documento finale dell’incontro si legge «L’Italia aveva chiesto […] un rafforzamento delle frontiere esterne, il superamento del regolamento di Dublino e del criterio del Paese di primo approdo. L’Italia aveva, inoltre, richiesto di condividere le responsabilità tra gli Stati membri sui naufraghi in mare». Per tutta risposta, nello stesso documento, si evince la netta posizione dell’Europa:

«Il Consiglio europeo ha convenuto che, nel territorio dell’Ue, coloro che vengono salvati, a norma del diritto internazionale, dovrebbero essere presi in carico sulla base di uno sforzo condiviso e trasferiti in centri sorvegliati istituiti negli Stati membri unicamente su base volontaria […] lasciando impregiudicata la riforma di Dublino»[10].
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Migranti in un centro di detenzione in Libia

Inoltre, nel 2015, la Commissione europea ha proposto due piani di ricollocamenti di emergenza, che gli Stati membri hanno approvato a luglio e a settembre 2015. Questi piani prevedevano che i Paesi membri dell’Ue, non esposti direttamente agli arrivi via mare ricevessero dei richiedenti asilo dall’Italia e dalla Grecia nel corso di due anni. Il numero di richiedenti asilo da ricollocare era calcolato in base a delle quote prestabilite sulla base di parametri oggettivi (es: PIL e popolazione). Tuttavia, nella pratica, la solidarietà europea è venuta rapidamente a mancare: sin da subito Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca dichiararono che non avrebbero applicato i piani di ricollocamento. E, nel corso dei mesi e degli anni successivi, anche la solidarietà dei Paesi dell’Europa occidentale è andata scemando. Alla fine, dall’Italia sono stati ricollocati verso altri Paesi Ue poco più di 13 mila richiedenti asilo, contro i 35 mila promessi.

È evidente come, malgrado i tentativi fatti nel corso di questi ultimi anni, i Paesi dell’Unione europea non sono stati in grado di trovare risposte efficaci e condivise per una gestione dei flussi migratori, regolari e irregolari, ispirata anche a quei criteri di solidarietà inscritti nei Trattati. Le politiche migratorie in Europa vengono gestite in parte ancora a livello nazionale, anche perché in materia le competenze dell’Unione europea sono molto limitate. Tuttavia, se da un lato, viste le condizioni contingenti, l’Italia deve continuare a portare avanti la propria agenda in Libia, e più in generale in Africa, va anche rimarcato che dell’Europa abbiamo bisogno, specie per contrastare la criminalità organizzata.

In sintesi, se l’Unione non sarà capace di attuare una politica comune dettata da una maggiore responsabilizzazione e condivisione del problema, non solo la questione migratoria e quella dei trafficanti di esseri umani non troverà mai una soluzione ma potremmo anche dire, con un po’ di amarezza, che l’Europa ha fallito e con essa il multilateralismo.

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Migranti in un centro di detenzione in Libia

La Libia è un porto sicuro?

C’è, infine, un altro tema indispensabile da trattare: la Libia è un porto sicuro? Detta in altri termini è in grado di tutelare i migranti che vengono ricondotti nel Paese? Per chiarire questo punto è necessario fare un passo indietro. Il governo Gentiloni già nel 2017 aveva stretto accordi con le autorità di Tripoli e con alcune milizie per delegare loro la gestione dei flussi migratori. L’ex Jamahiriya, dunque, è stata assurta a vero e proprio partner e, di conseguenza, considerata capace di garantire place of safety (punti di sbarco sicuri) per i migranti soccorsi in acque internazionali. La Libia è in grado di farlo?  Per chiarie questo aspetto dovremmo porci alcune domande.

In primo luogo dove vanno i migranti che vengono ricondotti in Libia e a che condizioni? In secondo luogo la Libia può essere considerata un partner affidabile? Per rispondere alla prima domanda è necessario partire da un assunto: il prezzo che abbiamo pagato per ricevere meno migranti sulle nostre coste è stato quello di rispedire centinaia di persone nel Paese e di delegare le operazioni alla guardia costiera libica. Sovente le autorità locali riconducono i migranti “salvati” in mare nei centri di detenzione da cui erano partiti. Gli sbarchi in Italia, dunque, non sono diminuiti solo per le politiche messe in atto dal governo ma anche perché molte più imbarcazioni ora vengono intercettate dai guarda coste libici e ricondotti nel Paese. Alcuni dati confermerebbero questa considerazione. Secondo l’Unhcr, l’85 % di chi parte dalla Libia viene fermato dalla guardia costiera e ricondotto nelle carceri libiche [11] e non sempre questo meccanismo dissuade i disperati a ritentare la traversata. Il tema si fa più complesso tentando di calcolare il numero di migranti presenti nel Paese. Stime delle intelligence, riportate anche da numerosi quotidiani italiani, parlano di circa 6 mila persone racchiuse nei contri di detenzione presenti nella costa e pronte a partire [12]. Secondo altre stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ci sarebbero circa 200 mila persone dislocate nel Paese, specie nel Fezzan. Serraj, in una recente intervista ha parlato, invece, di 800 mila persone tra cui anche criminali e jihadisti. Forse il suo obiettivo era spaventare l’Italia, per attirare l’attenzione sulla crisi e ricevere aiuto [13]. Tuttavia, al di là delle stime, il numero di migranti presenti nel Paese è ancora molto elevato.

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Migranti in un centro di detenzione in Libia

Ciò precisato, non ci soffermeremo sulle terribili condizioni dei migranti detenuti in Libia, tema ampiamente trattato dai rapporti di varie agenzie umanitarie [14], ma cercheremo di capire come è possibile, realisticamente e senza farci troppe illusioni, tutelare gli esseri umani “bloccati” nel Paese. Iniziamo dalla strada dei rimpatri: dall’inizio del 2018 a oggi oltre 15 mila migranti sono tornati a casa volontariamente, lasciandosi alle spalle l’inferno libico. I programmi di ritorno in patria sono aumentati anche a seguito delle denunce Onu sugli abusi perpetrati sui reclusi nei centri libici. La Nigeria è il primo Stato di ritorno dalla Libia, seguito da Mali e Niger [15]. Tuttavia, è evidente che si tratta di una soluzione parziale. I programmi di rimpatrio gestiti dall’Oim e dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) sono stati rafforzati ma riescono ad aiutare solo una piccola parte della popolazione migrante in Libia. Inoltre, ora che l’area di Tripoli è ancora “sconvolta” dalla guerra tra le milizie fedeli a Serraj e l’esercito di Haftar, le azioni della comunità internazionali sono, naturalmente, ferme o, nella migliore delle ipotesi, procedono a rilento.

Chiarito questo punto, dobbiamo chiederci cosa ne sarà dei migranti ancora detenuti nel Paese o di quelli qui ricondotti dalla guardia costiera? E qui arriva la questione più spinosa: la Libia può essere considerata un porto sicuro?  La risposta è quasi scontata: la Libia non sarà un porto sicuro fintanto che non diventerà un Paese sicuro. Ecco che il problema si fa davvero complicato. Come rendere la Libia un Paese sicuro? Come rendere sicuro uno Stato semi-fallito che in buona parte, specie nel sud e nell’area di Tripoli da cui partono la maggior parte dei migranti, è in preda a una guerra civile?

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Migranti in un centro di detenzione in Libia

In primo luogo si è parlato spesso di riattivare linee di finanziamento per la Libia capaci di sostenere una ripresa dell’economia, riportandola ad un livello centralizzato. Potrebbe essere un buon punto di partenza ma che dovrà fare i conti con gli appetiti delle milizie, specie nell’area del Fezzan. Per questo è quanto mai necessario offrire alle popolazioni del sud uno sviluppo economico alternativo. Per decenni, e fino al 2011, nelle zone meridionali c’erano aziende agricole statali che sfruttavano sorgenti sotterranee e tecnologie innovative per l’irrigazione. Oggi tutto questo non esiste più e andrebbe ripristinato.

Tuttavia, se la ripresa del settore agricolo è evidentemente inquadrabile in una prospettiva di medio-lungo periodo e richiede una preliminare “epurazione” del sud dai gruppi di trafficanti e dalle organizzazioni jihadiste, nel breve periodo sarà invece necessario dotare le tribù di fonti di finanziamento alternative. Questo potrebbe avvenire solo con una necessaria e seria riflessione sui meccanismi di redistribuzione della rendita derivante dai proventi degli idrocarburi, da sempre la principale fonte di reddito del Paese. Nonostante la crisi di produzione causata dall’instabilità che è seguita alla caduta di Gheddafi, infatti, la Libia continua ad essere uno dei Paesi africani potenzialmente più ricchi per merito delle risorse del sottosuolo. Una ripresa della produzione e una migliore redistribuzione dei proventi potrebbe essere un buon viatico per sottrarre molti gruppi alla criminalità organizzata.

Infine, per dare una ulteriore spinta alla ripresa economica è necessario riavviare una “redistribuzione controllata” dei salari alle popolazioni. I progetti di finanziamento del Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa in Libia, nella gestione dei quali l’Italia svolge un ruolo di primo piano, sono finalizzati a migliorare le condizioni di vita e la capacità di recupero delle popolazioni più vulnerabili in 24 municipalità ma anche al controllo delle frontiere e al sostegno della guardia costiera. Ciò precisato, va chiarito che, se da un lato rafforzare i finanziamenti per gli attori locali libici potrebbe essere un buon viatico per incoraggiare la ripresa economica, dall’altro in uno Stato in mano alle milizie potrebbe risultare controproducente. Detta in altri termini, se mal gestiti, parte dei fondi potrebbero finire nelle mani dei gruppi criminali, riaccendendo gli appetiti delle fazioni locali escluse dalla redistribuzione e, dunque, nuovi conflitti.

Tanto basta per capire come la Libia non sia un Paese sicuro e dunque un porto sicuro. Fintanto che l’ex Jamahiriya resterà travolta da questa “precarietà”, le politiche di sostegno economico fin qui messe in campo non saranno sufficienti a stabilizzare un quadro così complesso. Sarebbe necessario invertire la prospettiva: i finanziamenti “a pioggia” non sono la precondizione per la stabilizzazione ma la stabilizzazione del quadro politico deve essere la precondizione per poter ottenere maggiori fondi. Maggiori risorse sono necessarie ma non sufficienti se non affiancate da una linea comune europea di sviluppo per l’Africa che, però, fin qui è sembrata mancare.

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Conclusioni. Quali opzioni per l’Italia?

Cosa può fare concretamente l’Italia davanti allo scenario poco roseo fin qui delineato? Per quanto riguarda le nostre richieste verso l’Europa, è fondamentale continuare a chiedere una riforma del regolamento di Dublino. Inoltre l’Italia dovrebbe continuare ad esigere un sostegno finanziario dall’Europa, sulla base del principio che tutti i Paesi membri beneficiano delle politiche migratorie implementate da un Paese di primo arrivo. Gli aiuti europei hanno coperto meno del 2% dei costi sopportati dall’Italia nel 2017. Notizie di poco migliori arrivano con la proposta di bilancio Ue 2021-2027, pubblicata a giugno dell’anno scorso, che prevedeva un aumento di 2,6 volte dei fondi destinati alle migrazioni. Tuttavia, questo aumento riguarda soprattutto i finanziamenti per il controllo dei confini e le politiche di sicurezza e in maniera più marginale l’accoglienza e l’integrazione dei migranti già presenti sul territorio.

L’Italia dovrebbe poi lavorare per un aumento consistente del numero dei rimpatri. L’Europa ha siglato alcuni accordi con Paesi terzi, ma il numero di Stati firmatari è ancora scarso perché gli accordi di rimpatrio sono estremamente difficili da stipulare e applicare a livello sovranazionale. Le politiche di rimpatrio rimangono dunque, essenzialmente, nelle prerogative dei singoli Paesi. L’Italia ha siglato accordi sui rimpatri con alcuni Paesi africani ma quelli che, nei fatti, funzionano, seppure parzialmente, sono quelli con Tunisia e Niger. Oltre ad un ulteriore sforzo per il coinvolgimento di altri Stati, l’Italia dovrebbe rafforzare la partnership con Tunisi, uno dei pochi Paesi nordafricani che dopo le “primavere arabe”, sia pur con qualche difficoltà, ha conosciuto una certa stabilità politica. È necessario condividere con la Tunisia il dossier libico. L’assedio del feldmaresciallo Khalifa Haftar a Tripoli ha messo in allerta il governo tunisino. L’ondata migratoria che dalla Libia minaccia di attraversare il Sahel, bussa alle porte di Tunisi dalle cui coste, negli ultimi anni, sono aumentati i cosiddetti sbarchi fantasma.  Lo scorso anno sono giunti nel nostro Paese dalle coste tunisine circa 3 mila migranti di cui solo 400 identificati. L’Interpol ha documentato 50 sospetti jihadisti arrivati tra luglio e settembre in Italia proprio attraverso questa nuova rotta, notizia poi smentita dal governo italiano ma che per lo meno insinua qualche dubbio. Gli sbarchi continuano. Nel giugno di quest’anno sono già stati documentati dall’associazione Mare amico di Agrigento almeno 3 sbarchi.

Infine, e in termini più generali, l’Italia dovrebbe farsi promotrice di un maggiore sforzo internazionale per la risoluzione della crisi libica. Al di là delle critiche che provengono da più parti, va ricordato che abbiamo dei punti a nostro vantaggio. Innanzitutto dovremmo sfruttare la nostra posizione privilegiata a Tripoli. Abbiamo recentemente riaperto la nostra ambasciata nella capitale e siamo l’unico punto di contatto occidentale nel Paese, abbiamo ottimi contatti con Misurata [16], in cui c’è un ospedale da campo italiano che deve essere mantenuto nonostante le minacce del generale Haftar. Solo valorizzando questo capitale possiamo presentarci al tavolo delle trattative per convogliare quanti più attori possibili, anche a livello internazionale (dalla Russia ai sauditi, passando per l’Egitto) per cercare di riaprire un dialogo con Haftar, loro storico alleato.

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Note

[1] M. Villa, E. Corradini, Europa 2019. Le parole dell’Europa: migrazioni, in «Ispionline10» maggio 2019.
[2] L’intero decreto può essere consultato, tra le altre cose in Affari Italiani, Ecco il testo integrale del decreto Sicurezza bis approvato dal Cdm, 11 giugno 2019.
[3] P. Quercia (a cura di), Migrazioni e sicurezza internazionale. Questioni di sicurezza migratoria dei flussi dall’Africa  al Mediterraneo, Center for Near Abroad Strategic Studies, Trieste 2017: 258.
[4] Per una analisi dell’attuale conflitto in Libia, delle cause e delle prospettive future si consiglia la lettura di A. Varvelli, Libia: il secondo conflitto civile, Ispi, Focus Mediterraneo Allargato n. 10, 28 maggio 2019.
[5] M. Ricci, Migrazioni: il business dei trafficanti di uomini vale 6 miliardi, in «La Repubblica, 21 maggio 2016.
[6] Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, Audizione del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catania, dottor Carmelo Zuccaro, Seduta n. 41 di mercoledì 22 marzo 2017.
[7] Dichiarazione di Alberto Negri riportata in Alganews, quotidiano on line, 29 gennaio 2019, https://www.alganews.it/2019/01/29/soluzioni-per-mettere-fine-al-traffico-dei-migranti/.
[8] Le dichiarazioni dei due leader europei sono state riportate da vari quotidiani nazionali tra anche La Repubblica al seguente link: https://www.repubblica.it/esteri/2017/06/23/news/ue_migranti_italia-168905525/.
[9] La dichiarazione del premier Conte è riportata da vari siti. Si veda, ad esempio, https://www.youtube.com/watch?v=TqGIOpqVAMY.
[10] Camera dei Deputati, Ufficio Rapporti con l’Unione europea Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri, Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 2018, 10 luglio 2018, in: https://temi.camera.it/leg18/temi/il_consiglio_europeo_del_28_e_29_giugno_2018.html.
[11] Unhcr, Viaggi disperati Rifugiati e migranti in arrivo in Europa e alle sue frontiere, gennaio – dicembre 2018, disponibile al link: https://data2.unhcr.org/en/documents/download/67715#_ga=2.243984898.642170523.1548753735-126843143.1534746251.
[12] Si veda, ad esempio, C. Cartaldo, Libia, il dossier segreto degli 007: 6mila migranti verso l’Italia, in «Il Giornale», 28 aprile 2019.
[13] L’intervista di Lorenzo Cremonesi che riporta la dichiarazione di Serraj è pubblicata in: Libia, l’appello del premier Sarraj: «Fate presto, 800mila tra libici, migranti (e molti terroristi) pronti a invadere l’Italia e l’Europa, in «il Corriere della Sera», 15 aprile 2019.
[14] Unhcr, Viaggi disperati Rifugiati e migranti in arrivo in Europa e alle sue frontiere, cit..
[15] Dati disponibili in: http://www.nigrizia.it/notizia/libia-almeno-15-000-i-rimpatri-volontari-di-migranti-effettuati-dalloim.
[16] Una delle più importanti città Stato dell’ovest libico i cui miliziani stanno respingendo l’avanzata di Haftar.
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Michela Mercuri, insegna Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata dal 2008 ed è editorialista per alcuni quotidiani nazionali. Ha partecipato a numerose pubblicazioni collettanee per Etas e Egea e presso riviste specializzate. Di recente ha curato, con Stefano Maria Torelli, La primavera araba. Origini ed effetti delle rivolte che stanno cambiando il Medio Oriente, edito da Vita e Pensiero e ha di recente pubblicato il volume Incognita Libia. Cronache di un paese sospeso, edito da FrancoAngeli.

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