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Dalla modernità liquida alla geopolitica delle migrazioni: decifrare le sfide della mobilità nel mondo che cambia

terrestrial-globe-2933118_1280-1003x1024di Antonio Ricci 

I percorsi migratori come indicatori delle relazioni geopolitiche

La globalizzazione contemporanea, intesa come processo di intensificazione delle interconnessioni su scala planetaria, ha determinato un indebolimento progressivo delle strutture tradizionali degli Stati-Nazione, incidendo profondamente sulla loro capacità di esercitare un controllo esclusivo sui confini territoriali, politici, culturali e linguistici. Tale fenomeno si inserisce in una più ampia trasformazione epistemologica, che richiede un ripensamento delle categorie analitiche attraverso cui sono state tradizionalmente interpretate le dinamiche della mobilità umana. In questo scenario, le migrazioni non rappresentano soltanto movimenti di individui o gruppi, ma si configurano come veri e propri vettori di trasformazione degli equilibri internazionali, rivelando le logiche strutturali che governano il sistema-mondo.

In questa prospettiva, Zygmunt Bauman [1] elabora il concetto di modernità liquida, sottolineando il carattere transitorio e mutevole della condizione contemporanea. Se la modernità “solida” era fondata su una strutturazione rigida delle istituzioni e sulla possibilità di progettare il futuro in termini di stabilità e progresso lineare, la fase attuale si configura come un sistema in costante ridefinizione, in cui l’incertezza rappresenta la sola costante. L’individuo, immerso in un contesto di flussi instabili, è spinto a una condizione di mobilità permanente, sia in senso simbolico che materiale, alla ricerca di opportunità che si configurano come contingenti e precarie.

A questa prospettiva si ricollega la riflessione Arjun Appadurai [2], che introduce il concetto di modernità in polvere, ovvero un processo di deterritorializzazione che dissolve le tradizionali categorie spaziali e istituzionali, determinando nuove configurazioni identitarie e relazionali. La globalizzazione, in questa accezione, non è un fenomeno omogeneo né unidirezionale, ma si manifesta attraverso una pluralità di articolazioni spazio-temporali, che generano nuove forme di interazione e mediazione. Il superamento della dicotomia tra continuità e discontinuità culturale porta a una riconsiderazione delle gerarchie globali, in cui le relazioni di potere si ridefiniscono in base a un’asimmetrica distribuzione dei capitali economici, simbolici e culturali.

All’interno di questo quadro teorico, i flussi migratori non possono più essere analizzati esclusivamente come fenomeni demografici o economici, ma si configurano come dispositivi geopolitici e geoeconomici in grado di rivelare le logiche strutturali del sistema-mondo. La mobilità umana diventa un vettore di trasformazione delle relazioni internazionali, un indicatore delle interdipendenze e delle tensioni che caratterizzano l’ordine globale contemporaneo. Studiare i percorsi migratori significa, dunque, interrogarsi sui meccanismi di inclusione ed esclusione, sulla rinegoziazione dei confini materiali e simbolici, nonché sulle strategie di governo della mobilità che gli Stati e le istituzioni sovranazionali mettono in atto per disciplinare e normare tali processi.

L’esternalizzazione delle politiche migratorie ne è un chiaro esempio. Accordi come il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia del 2017 e le missioni europee (EUBAM Libia, EUNAVFOR MED) evidenziano come i flussi migratori siano utilizzati come strumenti di controllo geopolitico. L’accento sulla gestione delle frontiere e il rafforzamento della Guardia costiera libica per limitare le partenze sulla rotta del Mediterraneo centrale, piuttosto che su politiche di search and rescue, dimostra la tendenza degli Stati a delegare la gestione della mobilità umana a Paesi terzi, spesso privi di garanzie democratiche e rispetto dei diritti umani. Proprio il caso libico ha evidenziato le criticità dell’esternalizzazione delle politiche migratorie europee, favorendo respingimenti, violazioni dei diritti umani e tragedie in mare e, last but not least, andando a finanziare quelle stesse milizie che detengono il controllo del traffico degli esseri umani [3].

Nonostante ciò, nel luglio 2023, l’Unione Europea ha siglato un nuovo Memorandum d’intesa con la Tunisia, proseguendo nel tentativo di spostare all’esterno il controllo delle migrazioni per mascherare lo stallo interno nella definizione di un nuovo Patto europeo su migrazione e asilo.

Alla luce di queste dinamiche, le migrazioni devono essere comprese come un elemento strutturale dell’assetto geopolitico globale. Esse non solo riflettono le tensioni e le disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo, ma agiscono come fattori di riconfigurazione delle relazioni internazionali. La loro gestione implica scelte politiche che incidono sulla sicurezza, sull’economia e sulla coesione sociale, determinando equilibri di potere sempre più complessi. Analizzare i percorsi migratori con uno sguardo geopolitico significa, dunque, decifrare i meccanismi attraverso cui gli Stati cercano di mantenere il controllo sui flussi di persone, rispondendo non solo a esigenze di ordine pubblico e sicurezza, ma anche a strategie di influenza economica e politica su scala globale. 

41u1itlmaql-_ac_uf10001000_ql80_Le definizioni di geopolitica: evoluzione concettuale e prospettive teoriche

Il termine geopolitica ha origini etimologiche nel greco antico, derivando dall’unione di γῆ (gē, “terra”) e πολιτική (politikḗ, “politica”), evidenziando sin dalle sue radici linguistiche la relazione tra il potere politico e lo spazio geografico. L’introduzione del termine nel lessico scientifico si deve al politologo svedese Rudolf Kjellén, che nel 1899 lo utilizzò per la prima volta, ispirandosi alle teorie del geografo tedesco Friedrich Ratzel. In particolare, nelle opere Samtidens stormakter (Le grandi potenze di oggi, 1914) e Staten som lifsform (Lo Stato come forma di vita, 1916), Kjellén sviluppò un approccio organicistico, interpretando lo Stato come un’entità vivente soggetta a dinamiche di crescita, competizione e sopravvivenza, sulla base di una visione darwiniana dell’evoluzione sociale e politica.

Questa concezione venne ulteriormente elaborata e diffusa nel XIX e XX secolo da studiosi come Alfred Thayer Mahan, Halford Mackinder e Karl Haushofer, i quali contribuirono alla formazione della cosiddetta geopolitica classica. Quest’ultima si fondava sull’idea che la posizione geografica e il controllo territoriale fossero fattori determinanti del potere statale e delle relazioni internazionali. Questo approccio, di natura organicistica e deterministica, concepiva lo spazio come un elemento strategico imprescindibile per la proiezione di potenza degli Stati.

Secondo questa prospettiva, la geopolitica rappresenta la coscienza geografica dello Stato e si occupa dello studio delle grandi connessioni vitali tra l’uomo e lo spazio contemporaneo. La sua finalità è il coordinamento dei fenomeni che legano lo Stato al territorio, nella convinzione che il potere di una nazione sia direttamente proporzionale alla sua posizione geografica e alla capacità di esercitare controllo su aree strategiche. In questa visione, le regioni del mondo vengono classificate in base alla loro rilevanza geostrategica, determinando così le linee guida per le strategie di espansione e difesa degli Stati.

Un esempio emblematico è la teoria dell’Heartland elaborata da Halford Mackinder nel saggio The Geographical Pivot of History (1904), secondo cui il controllo dell’Europa orientale, intesa come “area perno” (pivot area), avrebbe garantito il dominio sull’intero continente eurasiatico e, di conseguenza, il primato globale. Tali teorie influenzarono profondamente il pensiero strategico del XX secolo, contribuendo alla giustificazione di politiche espansionistiche, come dimostra il concetto hitleriano di Lebensraum (“spazio vitale”), che riprendeva alcune delle idee di Kjellén e Haushofer in chiave razzista e imperialista.

61nh1jh4f1l-_ac_uf10001000_ql80_A causa dell’utilizzo della geopolitica a supporto delle ideologie totalitarie, il termine cadde in discredito dopo la Seconda Guerra Mondiale, venendo a lungo associato alle politiche aggressive del nazismo. Tuttavia, a partire dagli anni ‘70, il concetto fu ripreso e reinterpretato nel contesto della Guerra Fredda, grazie a figure come Henry Kissinger, il quale nella sua funzione di segretario di Stato americano sottolineò la dimensione strategica delle relazioni internazionali, enfatizzando l’importanza del bilanciamento di potere tra Stati Uniti e Unione Sovietica ma suggerì anche l’idea che la guerra fredda fosse una battaglia geopolitica piuttosto che ideologica, mossa dal timore di un’alleanza russo-tedesca. In questa fase, studiosi come Zbigniew Brzezinski e Samuel P. Huntington contribuirono alla ridefinizione della geopolitica, adattandola alle nuove configurazioni globali. In particolare, la teoria dello scontro di civiltà (1996) proposta da Huntington rilanciò il dibattito sulla centralità dei fattori culturali e religiosi nelle dinamiche geopolitiche contemporanee.

Negli anni ‘80, in reazione all’approccio tradizionale, si sviluppò una corrente di pensiero nota come Critical Geopolitics (Geopolitica Critica), che mise in discussione le basi epistemologiche e ideologiche della geopolitica classica. Questo nuovo filone di studi, sviluppato da studiosi come Gearóid Ó Tuathail, Simon Dalby e John Agnew, parte dal presupposto che la geopolitica non sia una disciplina neutrale, ma una costruzione discorsiva e rappresentativa che riflette interessi politici e relazioni di potere.

Secondo la geopolitica critica, la geografia non è un dato oggettivo e immutabile, bensì il prodotto di una narrazione politica che legittima specifiche strategie di dominio. Gli studiosi di questo approccio analizzano le modalità con cui gli Stati, i media e le istituzioni strategiche costruiscono la percezione del mondo attraverso rappresentazioni spaziali che influenzano le politiche internazionali. Questo si manifesta, ad esempio, nella dicotomia Noi vs. Loro, nella contrapposizione tra Oriente e Occidente, o nelle narrazioni che dipingono il Terzo Mondo come uno spazio di arretratezza e instabilità. Insomma, rappresentazioni e pratiche discorsive che costruiscono un modello semplificato della realtà globale, funzionale a orientare e legittimare le scelte di politica estera e sicurezza.

Lo scopo della geopolitica critica è quindi quello di decostruire tali narrazioni, evidenziando il ruolo che esse giocano nella formazione delle politiche estere e di sicurezza. Essa distingue tra tre livelli di costruzione geopolitica:

  1. Geopolitica pratica – riguarda le strategie adottate dagli Stati e dagli attori politici per perseguire i propri interessi.
  2. Geopolitica formale – comprende le teorie accademiche elaborate per interpretare le dinamiche globali.
  3. Geopolitica popolare – si riferisce alle rappresentazioni mediatiche e culturali che plasmano la percezione collettiva dello spazio e dei conflitti.

Nonostante la diffusione dell’approccio critico, nel discorso pubblico e nei mass media la geopolitica continua spesso a essere interpretata secondo schemi tradizionali, focalizzandosi sulla competizione tra Stati per il controllo di risorse e territori strategici. Tuttavia, il concetto si è progressivamente evoluto, integrando nuove variabili come le trasformazioni tecnologiche, i cambiamenti climatici, le migrazioni transnazionali e le dinamiche economiche globali. In questa prospettiva ampliata, la geopolitica si colloca tra la geografia e le scienze politiche, ponendosi come strumento di analisi delle strategie statali e delle interconnessioni che plasmano l’ordine internazionale.

Dal punto di vista teorico, la geopolitica continua a essere un concetto polisemico, la cui definizione varia a seconda delle prospettive disciplinari. Le differenti interpretazioni, peraltro tutte più o meno arbitrarie e assai generiche, emergono chiaramente nelle definizioni fornite dai principali dizionari e testi di riferimento:

  • secondo il Devoto-Oli (1984), la geopolitica è «lo studio delle motivazioni geografiche che influenzano l’azione politica».
  • il Robert (1965) la definisce «lo studio dei rapporti tra i dati naturali della geografia e la politica degli Stati»;
  • il Grand Larousse Universel (1962) la descrive come «lo studio dei rapporti che uniscono gli Stati, le loro politiche e le leggi di natura, queste ultime determinando le altre»;
  • il Dictionnaire de la Géographie (1979) afferma che «la geopolitica è lo studio dei rapporti tra i fattori geografici e le azioni o le situazioni politiche.

Queste definizioni riflettono la persistente ambiguità del termine, frutto delle differenti tradizioni teoriche e dei molteplici ambiti di applicazione. Sotto l’impulso della scuola critica, che ricordiamo mirava a rimettere in discussione qualsiasi giustificazione del pensiero colonialista e imperialista o magari nostalgico dei tempi della Germania nazista, l’uso contemporaneo della geopolitica spazia dall’analisi delle relazioni internazionali alla strategia globale, fino alla costruzione delle percezioni territoriali e identitarie.

In ambito accademico, il termine “geopolitica” viene oggi impiegato per descrivere un’ampia gamma di concetti, spaziando dall’analisi delle relazioni politiche internazionali fino alla struttura globale di tali interazioni. Questo uso si basa sulla riabilitazione di un termine nato agli inizi del XX secolo, inizialmente associato a una visione deterministica della geografia politica e a teorie oggi considerate pseudoscientifiche, in quanto fondate su un rigido determinismo storico e geografico.

Carta di Laura canali, da Limes

Carta di Laura canali, da Limes

In termini di relazioni internazionali, oggigiorno la geopolitica può essere interpretata come un metodo di studio della politica estera, finalizzato a comprendere, spiegare e prevedere i comportamenti degli attori internazionali in funzione di variabili geografiche [4]. Queste includono fattori quali la posizione strategica, il clima, la topografia, la demografia, le risorse naturali e le infrastrutture tecnologiche [5].

In definitiva, la geopolitica si configura oggi come un campo multidisciplinare, in continua evoluzione, che cerca di cogliere le complesse interconnessioni tra spazio, potere e politica in un mondo sempre più interdipendente e dinamico, cioè – come afferma Lucio Caracciolo, fondatore nel 1993 di Limes. Rivista Italiana di Geopolitica – essa è 

«l’analisi dei conflitti di potere in spazi determinati. Per questo, incrocia nel suo approccio competenze e discipline diverse: dalla storia alla geografia, dall’antropologia all’economia e altre ancora. Non è una scienza: non possiede leggi, non dispone di facoltà predittive. È studio di casi specifici, per i quali è necessario il confronto fra le diverse rappresentazioni dei soggetti in competizione per un dato territorio, su varie scale e in differenti contesti temporali, e fra i rispettivi progetti, tutti ugualmente legittimi» [6]. 

La lente geopolitica applicata all’analisi delle migrazioni

L’analisi delle migrazioni attraverso la lente geopolitica parte da una constatazione fondamentale: i percorsi dei migranti, e in particolare quelli dei rifugiati, sono intrinsecamente geopolitici [7]. Attraversando spazi controllati da Stati e istituzioni, le traiettorie migratorie diventano espressione diretta delle relazioni geopolitiche globali. In questo senso, le rotte migratorie non sono solo itinerari fisici, ma veri e propri indicatori della configurazione dei rapporti di potere tra Stati e regioni [8].

Indipendentemente dalle loro cause e caratteristiche, i fenomeni migratori sono inscindibilmente legati a concetti chiave della geopolitica [9], tra cui:

  • la geografia fisica e politica,
  • la definizione e gestione delle frontiere,
  • le identità etniche e culturali,
  • l’espansione dello Stato e il controllo territoriale,
  • la competizione per le risorse e il desiderio di territorialità.

Lo Stato-Nazione [10] gioca un ruolo centrale nella regolamentazione e nel controllo delle migrazioni, anche a detrimento del rispetto stesso dei diritti umani, di fatto subordinati alle priorità dettate dalla geopolitica. Con l’affermazione dello Stato moderno [11], si è consolidato il principio della territorializzazione delle identità, portando alla piena identificazione tra cittadinanza e Stato e alla costruzione di frontiere rigide in quanto confini della patria. Questo ha comportato l’esclusività della cittadinanza, la necessità di una presunta omogeneità etnico-culturale delle popolazioni che risiedono entro le frontiere dello Stato e la gestione selettiva delle migrazioni come strumento di sovranità.

Nel tentativo di governare le migrazioni, lo Stato interviene in specifici contesti geopolitici, spesso attraverso politiche di chiusura e deterrenza. Tuttavia, i migranti non sono attori passivi: attraverso strategie di resistenza e adattamento, sfidano le restrizioni imposte dagli Stati [12], generando una continua rinegoziazione della geopolitica delle migrazioni [13]. Questo confronto tra controllo statale e mobilità umana produce nuove configurazioni spaziali e politiche, ridefinendo il significato stesso di confine e sovranità.

Un ulteriore elemento chiave nella gestione geopolitica delle migrazioni è il diritto, che funge da strumento di inclusione o esclusione a seconda degli interessi statali. Le categorie giuridiche di “migrante” e “rifugiato” non sono neutrali, ma riflettono precise strategie geopolitiche. Fin dalla Convenzione di Ginevra del 1951, lo status di rifugiato è stato definito all’interno di un quadro geopolitico che lascia agli Stati ampi margini di interpretazione [14]. Il Protocollo del 1967 ha esteso la protezione a livello globale, ma ogni Stato firmatario ha sviluppato proprie procedure di asilo, con standard che possono variare anche in base all’organizzazione territoriale che caratterizza lo Stato [15]. Di conseguenza, l’interpretazione della Convenzione viene lasciata all’arbitrio dei singoli Stati firmatari, che possono decidere se, come e quando un individuo possa richiedere legittimamente la protezione internazionale [16]. In altre parole, un individuo può essere riconosciuto come rifugiato in un Paese e non in un altro, nonostante la sua situazione personale sia invariata. Questa discrezionalità esercitata dagli Stati è pertanto una forma nascosta e illegittima di polizia di frontiera, che fa anche della protezione internazionale un processo essenzialmente geopolitico [17], ovvero un esercizio di sovranità e uno strumento chiave di controllo delle frontiere mascherato da tutela dei diritti [18].

Il rifugiato, in quanto individuo privo di appartenenza statuale, rappresenta inoltre una sfida alla logica stessa dello Stato-Nazione, che si fonda sulla stabilità e sulla cittadinanza. Il suo status “anomalo”, di individuo perseguitato e da proteggere da un altro Stato-Nazione, viene spesso percepito come una minaccia alla sicurezza nazionale, legittimando l’adozione di misure sempre più restrittive. Tali misure includono il rafforzamento dei controlli alle frontiere, la creazione di zone di detenzione e l’esternalizzazione delle procedure di asilo. Un esempio emblematico è il Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, che prevede l’outsourcing/offshoring delle pratiche di accoglienza a Paesi terzi, riducendo l’accesso alla protezione internazionale e rafforzando la sovranità statale sulla mobilità umana.

In sintesi, la geopolitica delle migrazioni si configura come un campo di tensione tra il desiderio degli Stati di controllare i flussi migratori e la capacità dei migranti di ridefinire spazi e confini. Attraverso strategie di esclusione, selezione e deterrenza, gli Stati riaffermano il proprio dominio territoriale, mentre i migranti, attraverso il loro movimento, mettono costantemente in discussione le barriere imposte, contribuendo a plasmare la geografia politica contemporanea. 

71z80ps2tolEsempi di paradigmi interpretativi applicati alle migrazioni

Un primo paradigma interpretativo delle migrazioni è quello delle “territorializzazioni” extra-etniche o extra-culturali, teorizzato da Tiberio Graziani [19], che riprende le idee di Aymeric Chauprade, politologo già vicino al Rassemblement national [20]. Questo approccio, antitetico alla modernità liquida di Bauman, sostiene che le migrazioni, in alcuni contesti, non sono semplici spostamenti di popolazioni, ma processi che portano alla “territorializzazione” di spazi inizialmente omogenei dal punto di vista etnico o culturale. In tali casi, secondo il politologo, il fenomeno migratorio assume la piena dignità di una realtà geopolitica. Ad esempio, le migrazioni che dall’antichità al Medioevo hanno contribuito alla formazione delle attuali popolazioni europee e al loro radicamento territoriale sono esempi emblematici di tale paradigma.

Nel saggio, pubblicato nella rivista di geopolitica Eurasia, Graziani spiega che le migrazioni – in quanto “territorializzazioni” – si rivelano particolarmente significative nella geopolitica delle nazioni colonizzatrici e imperialiste, manifestando pienamente la natura espansionistica e predatoria di queste politiche. Cita quindi, in riferimento all’epoca moderna e contemporanea, i casi delle migrazioni verso le Americhe, l’Africa del Sud, l’Australia, la Nuova Zelanda e Israele-Palestina. In questi contesti, le migrazioni sono state accompagnate da emigrazioni e marginalizzazioni di gruppi indigeni espropriati dei loro territori, come i nativi americani nelle Americhe, gli Zulù e i Bantù in Africa, gli aborigeni in Australia, i Maori in Nuova Zelanda e i Palestinesi in Israele-Palestina. Tali fenomeni, oltre a riflettere cause oggettive e motivazioni ideologiche o religiose, seguendo il ragionamento di Graziani, sono rappresentazioni di veri e propri processi di “territorializzazione” attuati tramite politiche migratorie, e, in alcuni casi, pratiche schiavistiche, segregazioniste ed etnocratiche.

Il quadro geopolitico che caratterizza questi processi è solitamente strutturato in tre fasi principali:

a) annessione territoriale (conquista);

b) immigrazione;

c) colonizzazione (“territorializzazione” e sacralizzazione dello spazio conquistato).

A queste fasi se ne aggiunge generalmente una quarta, relativa alle politiche di “nazionalizzazione” e “stratificazione” delle minoranze, distinguendo tra “nuovi arrivati” o “nativi”.

Un esempio classico di “territorializzazione” tramite migrazione è offerto dalla storia dei coloni anglo-protestanti che hanno contribuito alla formazione degli Stati Uniti. La loro espansione territoriale, sostenuta da ondate migratorie, espulsioni e sterminio dei popoli autoctoni, costituisce il paradigma su cui si sono sviluppate le dottrine geopolitiche statunitensi. Da Monroe-Adams (1823) al principio del “destino manifesto” (1845), passando per la politica del “big stick” di Theodore Roosevelt (1901-1909) e la dottrina di contenimento di Harry Truman (1947-1989), fino alla moderna “esportazione della democrazia” dei neoconservatori, questa storia di migrazioni ha influito profondamente sull’identità nazionale americana, stimolando miti come quello della “frontiera” e della “corsa all’Ovest”, che hanno attratto successive ondate immigratorie.

11_kelly-greenhill-weapons-of-mass-migrationUn secondo paradigma interpretativo riguarda le migrazioni come armi non convenzionali o strumenti di coercizione. Il ritorno della geopolitica, spesso associato alla “militarizzazione della migrazione”, descrive come la migrazione sia utilizzata strategicamente da Stati come la Russia e la Turchia per perseguire obiettivi territoriali o politici. Ad esempio, in Siria, entrambi questi Paesi hanno sfruttato i flussi migratori per creare “zone sicure”, diluire le roccaforti etniche (favorendo l’acquisizione di cittadinanza per i rifugiati), alterare equilibri etnici o screditare i rivali, utilizzando la migrazione come uno strumento di guerra ibrida.

Kelly Greenhill [21], studiosa della Cornell University, ha identificato tra il 1951 e il 2006 ben 56 casi di migrazioni coercitive programmate (coercive engineered migrations). La coercizione, in questo contesto, implica l’uso di minacce, intimidazioni o altre forme di pressione, in particolare la forza militare, per indurre un cambiamento nei comportamenti politici degli Stati target. I meccanismi di coercizione utilizzati includono:

  1. Erosione della base di potere – minando il sostegno al regime;
  2. Disordini – generando insoddisfazione popolare;
  3. Decapitazione – minacciando la sicurezza della leadership del regime;
  4. Indebolimento di un Paese – portando a un generale deterioramento delle condizioni;
  5. Negazione – impedendo il successo sul campo di battaglia o le vittorie politiche.

Le migrazioni coercitive, apparentemente rare, sono invece abbastanza diffuse e vengono usate per esercitare pressioni politiche e militari, con risultati che non vanno sottovalutati. Infatti, nel 73% dei casi è stato ottenuto qualche vantaggio, e nel 57% l’obiettivo è stato raggiunto completamente. Tra gli strumenti di coercizione si annoverano minacce, uso della forza militare, incentivi finanziari o semplicemente l’apertura di confini normalmente chiusi. Tra gli esempi citati di queste migrazioni è possibile menzionare le guerre civili in Biafra (1967-1970) e in Bosnia (1992-1995), l’accoglienza dei vietnamiti negli Stati Uniti negli anni ‘50, e la decisione del presidente della Germania Est, Erich Honecker, di aprire i confini negli anni ‘80. 

6_critical-geopoliticsIl bisogno di paradigmi interpretativi più efficaci

Nonostante i crescenti sforzi di analizzare le migrazioni attraverso una prospettiva geopolitica, il quadro interpretativo attuale appare ancora lacunoso, spesso viziato da letture troppo politicizzate o riduttive. Invece, la geopolitica delle migrazioni dovrebbe essere concepita come un ambito di studio imprescindibile per comprendere le complesse sfide che i flussi migratori pongono a livello globale, con implicazioni dirette sulla sicurezza, l’economia e la coesione sociale.

Quando si parla di “geopolitica delle migrazioni”, non si fa riferimento soltanto a dinamiche economiche o demografiche limitate ai singoli Stati, ma si evidenzia il ruolo strategico dei movimenti migratori nell’influenzare la politica internazionale e le relazioni tra Paesi. I flussi migratori, infatti, non sono semplicemente il risultato di crisi economiche o conflitti, ma rappresentano strumenti e indicatori di equilibri di potere, strategie di controllo territoriale e politiche di inclusione ed esclusione.

Un esempio emblematico è la gestione delle migrazioni ai confini dell’Unione Europea, dove le politiche restrittive di alcuni Stati membri non solo riflettono le loro priorità nazionali, ma anche dinamiche di negoziazione e pressione tra Paesi di origine, transito e destinazione. Si vedano, ad esempio, gli accordi tra Italia e Albania formalizzati nel febbraio 2024 [22], che rappresentano un caso paradigmatico di esternalizzazione delle politiche migratorie, in cui un Paese membro dell’UE delega a uno Stato terzo la gestione di parte dei flussi migratori.

Secondo l’intesa siglata tra Roma e Tirana, l’Italia potrà trasferire in Albania alcuni migranti soccorsi in mare per esaminare le loro richieste di asilo con procedura accelerata in strutture apposite, finanziate e gestite dalle autorità italiane ma situate fuori dai confini nazionali. Questo accordo ricalca un modello già sperimentato in altri contesti, come quello tra l’Unione Europea e la Turchia nel 2016, o tra il Regno Unito e il Ruanda, e risponde alla necessità di controllare le frontiere riducendo la pressione sui sistemi di accoglienza interni. Tuttavia, pone interrogativi critici in termini di diritti umani, trasparenza giuridica e responsabilità internazionale.

In primo luogo, simili strategie sollevano questioni etiche e legali: sebbene l’accordo sia stato presentato come una misura per accelerare le procedure di identificazione e rimpatrio, rischia di creare aree grigie dal punto di vista del rispetto delle norme internazionali sui diritti dei rifugiati. Delegare a un Paese extra-UE la gestione di richiedenti asilo potrebbe complicare il monitoraggio delle condizioni di accoglienza e delle garanzie giuridiche per i migranti.

In secondo luogo, questi accordi rivelano le tensioni esistenti all’interno dell’Unione Europea stessa. Mentre alcuni Stati membri, come l’Italia e la Grecia, spingono per una maggiore solidarietà nella redistribuzione dei migranti, altri, come i Paesi del gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), continuano a opporsi a meccanismi di ricollocazione obbligatoria. L’esternalizzazione, quindi, diventa una soluzione pragmatica per i governi nazionali che cercano di ridurre il numero di ingressi irregolari, ma senza affrontare le resistenze interne all’UE.

Infine, la strategia adottata dall’Italia nei confronti dell’Albania riflette anche l’evoluzione delle relazioni bilaterali tra i due Paesi. L’Albania, candidata all’adesione all’UE, ha un forte interesse a rafforzare la cooperazione con i membri dell’Unione per dimostrare la propria affidabilità come partner strategico. Accettando di ospitare i migranti, il governo albanese consolida i legami con l’Italia, ottenendo in cambio investimenti, vantaggi diplomatici, nonché la tanto sospirata ratifica dell’accordo bilaterale sulla sicurezza sociale (gennaio 2025). Questi accordi dimostrano come la gestione delle migrazioni non sia solo una questione di sicurezza o di politica interna, ma un elemento chiave delle relazioni internazionali, in cui gli Stati negoziano concessioni reciproche per gestire i flussi migratori in modo funzionale ai propri interessi geopolitici ed economici.

La mobilità umana, in questo contesto, non è solo un motore di trasformazioni sociali ed economiche, ma diventa un mezzo per ridefinire confini materiali e simbolici tra le nazioni. Gli Stati, infatti, non si limitano a regolamentare i flussi migratori, ma sono costretti a rivedere le loro strategie interne ed esterne, bilanciando esigenze di sicurezza con la tutela dei diritti umani e la sostenibilità economica. La gestione dei rifugiati siriani da parte della Turchia ne è un esempio: Ankara ha sfruttato il ruolo di Paese di transito e di accoglienza per ottenere concessioni politiche ed economiche dall’UE, dimostrando come le migrazioni possano essere utilizzate come leva diplomatica.

Lo statement UE-Turchia del 18 marzo 2016 prevede infatti, in cambio del trasferimento in Turchia di tutti i migranti irregolari giunti sulle isole greche dopo il 20 marzo 2016, il ricollocamento in Europa di un numero pari di profughi siriani già presenti in Turchia e un pacchetto di finanziamenti per migliorare le condizioni dei rifugiati presenti nella penisola anatolica (sono stati nove miliardi gli euro sborsati dall’UE alla Turchia tra il 2016 e il 2023). In sintesi, l’accordo UE-Turchia rappresenta una delle principali strategie di esternalizzazione delle politiche migratorie europee, ovvero il trasferimento del controllo dei flussi migratori a Paesi terzi in cambio di incentivi finanziari e diplomatici, pur non essendo la Turchia un Paese effettivamente sicuro, considerato il continuo deterioramento delle garanzie democratiche e dei diritti umani evidenziato dalla repressione politica interna e dalle limitazioni alla libertà di espressione, e nonostante le accuse di respingimenti illegali e detenzioni arbitrarie nei confronti di migranti e rifugiati, sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In ultima analisi, l’accordo ha sì ridotto il numero di arrivi irregolari sulle coste greche, ma ha anche accentuato la dipendenza dell’UE dalla Turchia, dando ad Ankara un forte potere di ricatto politico: più volte, il governo turco ha minacciato di aprire le frontiere per esercitare pressioni sui governi europei in occasione di crisi diplomatiche. Questo evidenzia i rischi di strategie basate su esternalizzazioni e su accordi con partner che non sempre garantiscono il rispetto dei diritti umani.

L’approccio adottato con la Turchia ha ispirato diverse iniziative con la Libia, tra cui missioni europee e accordi bilaterali, come il Memorandum d’intesa del 2017 tra Italia e Libia, basato sul Trattato di amicizia del 2008, e nel 2023 con la Tunisia, quando l’Unione Europea ha siglato un nuovo Memorandum inteso ancora una volta di esternalizzare le strategie migratorie.

La geopolitica delle migrazioni permette di analizzare le relazioni tra dinamiche migratorie e strutture di potere economico globale allo stesso tempo. Le politiche di reclutamento selettivo adottate da alcuni Paesi – come il Canada, che privilegia l’immigrazione qualificata attraverso un sistema a punti – mostrano come gli Stati non subiscano passivamente i flussi migratori, ma cerchino di orientarne le caratteristiche in funzione dei propri interessi strategici.

Inoltre, questo approccio aiuta a comprendere il fenomeno della weaponization of migration (l’uso strumentale delle migrazioni), in cui alcuni governi sfruttano i flussi migratori per esercitare pressioni su altri Stati. Un esempio recente è la crisi ai confini tra Bielorussia e Polonia nel 2021, quando il governo bielorusso per destabilizzare l’UE ha facilitato il passaggio di migliaia di migranti afghani in fuga dopo il ritorno a potere dei Talebani a Kabul.

La geopolitica delle migrazioni, quindi, non si limita a studiare il movimento delle persone, ma analizza le interazioni tra politiche interne ed estere, le tensioni economiche e geopolitiche sottostanti e le strategie di gestione dei confini. Questo campo di ricerca offre strumenti essenziali per comprendere come i movimenti migratori plasmino, e siano a loro volta plasmati, dalle tensioni globali, contribuendo a ridefinire la struttura stessa delle relazioni internazionali. 

da Limes

Carta di Laura Canali, da Limes

Conclusioni

In conclusione, la geopolitica si conferma come un’espressione fondamentale del governo territoriale, rappresentando una pratica altamente codificata che descrive il modo in cui ogni Stato rivendica e gestisce le proprie risorse nazionali, siano esse naturali o umane, e regola i diritti di accesso per i cittadini di altri Stati. In questo contesto, la geopolitica funge da “software” che consente di interpretare le relazioni internazionali, con ogni Stato che organizza e controlla il proprio territorio secondo le proprie aspettative riguardo al comportamento delle altre potenze.

Eventi storici significativi, come il crollo del Muro di Berlino e la fine della “guerra fredda” non hanno posto fine a queste dinamiche. Anzi, la convergenza verso il rafforzamento dell’Unione Europea in vista di una forma di governo comune ha accentuato le sfide poste dai flussi migratori, portando a una “rivincita” senza precedenti della geopolitica e a una crisi profonda nella governance europea delle politiche migratorie.

Le migrazioni, infatti, rappresentano un fenomeno complesso che incide profondamente sugli assetti geopolitici globali. Secondo dati recenti, a metà 2024 circa 123 milioni di persone nel mondo sono state indicate dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati come migranti forzati, cioè persone in fuga da guerre, persecuzioni, altre azioni violente o catastrofi naturali, evidenziando la crescente dimensione globale delle migrazioni forzate.

In Europa, la gestione dei flussi migratori ha evidenziato non solo le difficoltà nel conciliare le politiche nazionali con quelle comunitarie, ma anche la persistente incapacità di sviluppare e attuare strategie realmente condivise. Nonostante gli sforzi per definire un quadro comune di governance dell’immigrazione, le divergenze tra gli Stati membri hanno continuato a rappresentare un ostacolo significativo, determinando risposte frammentarie e spesso inefficaci.

Più in profondità, tuttavia, è emersa una diffusa inettitudine nel leggere con lucidità la complessità dei fenomeni migratori e nell’elaborare strumenti di policy adeguati alle sfide contemporanee. Le istituzioni europee e nazionali faticano a tenere il passo con l’evoluzione delle crisi geopolitiche internazionali, i mutamenti nei trend migratori, le crescenti pressioni demografiche e le esigenze strutturali del mercato del lavoro, che continua a registrare carenze in numerosi settori. L’assenza di un approccio “geopolitico” lungimirante e di strumenti operativi efficaci ha contribuito a rafforzare un clima di gestione emergenziale, penalizzando qualsiasi visione strategica di lungo periodo.

In questo contesto, la geopolitica delle migrazioni si configura come un ambito di studio essenziale per decifrare non solo le dinamiche di potere e le strategie di controllo territoriale, ma anche le profonde implicazioni sociali, economiche e culturali connesse ai flussi migratori. L’analisi delle migrazioni attraverso una prospettiva geopolitica consente di comprendere le interazioni tra politiche interne ed esterne, mettendo in luce il modo in cui le scelte dei singoli Stati si riflettono sugli equilibri regionali e globali.

Le migrazioni non sono fenomeni isolati, ma processi intrecciati con dinamiche di sviluppo, crisi geopolitiche, conflitti e trasformazioni economiche. In questo quadro, gli Stati adottano strategie diversificate che spaziano dal rafforzamento delle frontiere e degli strumenti di controllo alla stipula di accordi bilaterali e multilaterali per la gestione dei flussi. La dimensione geopolitica permette quindi di analizzare non solo le relazioni tra Stati, ma anche il ruolo degli attori non statali, come le organizzazioni internazionali, le ONG, le reti diasporiche e le imprese transnazionali, evidenziando le molteplici forze che modellano i movimenti umani e le politiche migratorie a livello globale.

Se la geopolitica è il terreno dove si giocano le sorti delle nazioni, le migrazioni sono la prova concreta che, in un mondo sempre più interconnesso, non esistono confini che possano fermare le sfide globali dell’umanità. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Cfr. Bauman Zygmunt, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2011.
[2] Cfr. Appadurai Arjun, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001.
[3] United Nations-OHCHR Migration Unit, Nowhere but Back Assisted return, reintegration and the human rights protection of migrants in Libya, New York, November 2022
[4] Evans Graham & Newnham Jeffrey, The Penguin Dictionary of International relations, Penguin, London, 1998.
[5] Devetak Richard et al., An Introduction to International Relations, Cambridge University Press, 2012: 492.
[6] https://www.limesonline.com/rubriche/il-punto/cos-e-la-geopolitica-e-perche-va-di-moda-14729217/.
[7] Ashutosh Ishan & Mountz Alison, The Geopolitics of Migrants Mobility, in “Geopolitics”, vol. 17 (2), 2012: 352.
[8] Hyndman Jennifer, The (Geo)politics of Mobility, in Staehli Lynn A., Kofman Eleonore, Peake Linda J. (eds), Mapping Women, Making Politics. Feminist Perspectives on Political Geography, Routledge, New York, 2004: 169-184.
[9] Graziani Tiberio, Geopolitica e Migrazioni, in “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, III, n. 4, 2006.
[10] Ashutosh Ishan & Mountz Alison, Cit: 337.
[11] Graziani Tiberio, Cit.
[12] Ashutosh Ishan & Mountz Alison, Cit.: 338.
[13] Ivi: 345.
[14] Ivi: 336.
[15] Ivi: 339.
[16] Ivi: 337.
[17] Ivi: 351.
[18] Ivi: 336.
[19] Graziani Tiberio, Cit.
[20]L’immigrazione è una realtà geopolitica che può essere definita come un fenomeno di territorializzazione extra-etnica entro un territorio inizialmente omogeneo dal punto di vista etnico” in Chauprade Aymeric, Introduction à l’analyse géopolitique, Ellipses, Paris, 1999: 110
[21] Greenhill Kelly, Weapons of Mass Migration. Forced Displacement, Coercion and Foreign Policy, Cornell University Press, 2010.
[22] Grazie alla Legge n. 14 del 21 febbraio 2024 recante la ratifica ed esecuzione del Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, fatto a Roma il 6 novembre 2023. 

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Antonio Ricci, PhD in Storia dell’Europa presso l’Università “La Sapienza” di Roma, è vicepresidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, un’istituzione di riferimento in Italia per gli studi sulle migrazioni e le politiche migratorie. Ha svolto ricerche approfondite sull’immigrazione in Italia e sull’emigrazione italiana, collaborando con esperti nazionali e internazionali. Le sue pubblicazioni e i suoi studi offrono analisi dettagliate delle dinamiche sociali e culturali legate alla migrazione in Italia e in Europa, contribuendo alla comprensione di un fenomeno in continua trasformazione.

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