L’amaro, questo sapore a primo impatto respingente, diviene nel tempo uno degli elementi connotativi della cultura gastronomica italiana. Diffuso soprattutto nell’universo vegetale, lo ritroviamo in un’ampia varietà di verdure ed erbe selvatiche, dalla cicoria all’indivia, dalla rucola agli asparagi, dai cardi ai carciofi e in tante altre che sono state storicamente la componente principale delle mense contadine.
La predilezione in cucina per i vegetali è infatti una peculiarità quasi esclusiva del nostro Paese, assente o quasi in Europa o nel resto del mondo. La sua fortuna è dovuta, con ogni probabilità, al consumo popolare che ha finito col diffondersi anche nelle classi alte. Un fatto sorprendente rispetto ad altre tradizioni, che dal basso procede verso l’alto, contrariamente alla tendenza generale per cui gli usi in cucina dei signori vengono solitamente assunti a modello dal popolo.
Massimo Montanari, uno dei più grandi storici italiani dell’alimentazione, spiega questo fenomeno nel suo ultimo contributo dal titolo Amaro. Un gusto italiano, edito da Laterza. L’ Autore, ritornando su temi a lui cari nel corso delle sue ricerche, si chiede perché un gusto in apparenza poco gradito sia divenuto un vessillo identitario della cucina nazionale.
Alimenti poveri in origine marginali come la cicoria hanno rappresentato in seguito il prototipo della cucina romana, mentre il caffè è divenuto la bevanda per eccellenza degli italiani e l’amarone, consumato a fine pasto per i suoi poteri digestivi, il grande protagonista dei messaggi pubblicitari televisivi in epoca moderna.
Sulla scorta di numerosi trattati di naturalisti e agronomi del Cinquecento, lo studioso traccia le linee di sviluppo dei gusti e delle tendenze della cucina italiana, a partire dal Medioevo, epoca della grande trasformazione rispetto alla rivoluzione agricola. Se infatti nelle antiche società romane la diffusione del latifondo cerealicolo aveva privilegiato un’alimentazione a base di frumento, solo successivamente, attraverso l’incontro con i cosiddetti barbari, si verificò un’estensione dei gusti verso la carne e la selvaggina e i prodotti dell’allevamento, latte e latticini, burro e grassi di natura animale. Si impose così un modello alimentare basato sulle proteine ricavate dalla caccia, un elemento forte, tipicamente maschile, ben rispondente ai bisogni di un guerriero.
Il pane, elemento base dell’alimentazione mediterranea, venne dunque contaminato con altri prodotti che rimasero tuttavia prerogativa esclusiva dei ceti aristocratici. Ai poveri, a tutta la massa di popolazione che, gravata dalla miseria e dalla fame viveva di stenti, non restava altro che cibarsi di erbe selvatiche per potere sopravvivere, complice il clima favorevole e le caratteristiche del paesaggio, che, diverse da zona a zona, presentavano sempre una straordinaria ricchezza e varietà di specie vegetali. Tutto questo conferì ai contadini una grande sapienza e conoscenza del territorio e dell’agro circostante nella ricerca di verdure commestibili, che divennero la base di numerose ricette raggiungendo ben presto anche i banchetti aristocratici.
Da questo complesso sistema di approvvigionamento è derivata l’abitudine al gusto dell’amaro. Se è vero che in quest’arte di procacciarsi il cibo attraverso la conoscenza del territorio e delle piante selvatiche spontanee, i contadini erano spesso dettati da uno stato di necessità dovuto alla fame, è anche vero che tali pratiche divennero consuetudinarie e regolari anche in assenza di carestie.
La centralità dei vegetali nella cultura gastronomica italiana ha dunque mantenuto una robusta dimensione popolare, un rapporto stretto e costante con la cultura contadina, da sempre intenta a sviluppare saperi e pratiche legate al lavoro dei campi e degli orti, attenta anche a integrare le risorse domestiche con quelle selvatiche, del prato e del sottobosco, dei fossi e delle zone umide.
Ma – si chiede a questo punto Montanari – se il gusto per l’amaro è legato all’abitudine di cibarsi di erbe e radici e se questa abitudine caratterizza principalmente il mondo contadino, come si può arrivare alla definizione di un “gusto italiano” per l’amaro? Come avviene, in altre parole, questa mescolanza di tendenze e preferenze fra le mense dei signori e quelle di ceti tradizionalmente esclusi dalla società?
Secondo i trattati dell’epoca i cibi rustici e cioè erbe e radici erano considerati negli stessi termini di rozzezza e grossolanità di chi li consumava, secondo un parallelismo fra cibi e società in voga nelle teorie naturalistiche Medioevo. Vi era infatti una precisa gerarchia degli uomini cui corrispondeva una gerarchia di alimenti, i cibi di infimo valore, quelli del sottosuolo come i bulbi e le radici erano destinati agli strati marginali della scala sociale; mentre i frutti degli alberi, quelli svettanti verso il cielo erano destinati alle classi alte.
Può sembrare un fatto anomalo l’assunzione di modelli alimentari popolari nell’ alta cucina, ma in verità – sostiene l’autore – il confine che separa a tavola i signori dai contadini non è stato mai così rigido. Tant’è che nei primi ricettari del XIV e XV secolo sono frequenti numerosi rimandi alla cucina popolare, con vere e proprie strategie di nobilitazione e vari accorgimenti per ridefinire la destinazione sociale del prodotto. E soprattutto con obiettivi e finalità diverse: per il popolo il consumo delle verdure serviva in primo luogo come riempitivo dello stomaco, a placare i morsi della fame, mentre per i signori era un mezzo per stuzzicare l’appetito di fronte all’opulenza e alla varietà di pietanze dei loro banchetti.
Sicuramente una delle ragioni di questa convergenza e condivisione di gusti alimentari fra le mense aristocratiche e quelle popolari va individuata – secondo Montanari – nel ruolo decisivo che le città, a partire dal Medioevo ma soprattutto nel Rinascimento, hanno avuto come centri di potere e luoghi rappresentativi del territorio. All’interno delle mura urbane, la cultura delle classi dominanti e quella popolare si sono confrontate, scontrate e mescolate in un rapporto di sovrapposizione e di vicinanza quotidiana.
Luoghi di incontro e di scambio commerciale, nonché sedi di governo e dell’amministrazione del territorio, le città sono state uno straordinario laboratorio di confronto e ibridazione che ha arricchito e diversificato la cultura del Paese a prescindere dalla stratificazione sociale. Centri di distribuzione e smistamento delle mercanzie alimentari, le città intrattennero con la terra produttrice di materie prime un rapporto complementare, coinvolgendo nel proprio raggio d’azione anche il contado circostante. Tutto questo favorì ulteriormente i rapporti fra la cultura urbana e la cultura rurale e numerosi cuochi di corte di estrazione contadina, giunsero a lavorare nelle grandi famiglie a servizio dei signori, dando luogo ad ulteriore diffusione degli usi alimentari del popolo nei ricettari dei ceti aristocratici.
Ogni cultura urbana ha dunque rappresentato il territorio e attraverso i meccanismi del mercato la diffusione e circolazione di prodotti, uomini ed esperienze si è estesa ai confini nazionali, intesi non soltanto in senso orizzontale e geografico, ma anche in senso verticale e sociale, allargandosi anche ad altri strati della società e non solo ai dominanti.
Ci si può chiedere a questo punto se la definizione di una cucina nazionale che abbraccia sia l’alto che il basso possa comprendere in ultima analisi anche il concetto di identità culturale. Non potrebbe essere diversamente visto che l’identità è sempre un processo pluralistico, inclusivo e dinamico che si adatta di volta in volta ai mutati contesti storici e sociali. Da questo punto di vista concetti come “radici” e “origini” non sono da individuare come sospesi in un tempo aulico da cui tutto ebbe inizio, ma vanno riconsiderati come il frutto di continue contaminazioni e riadattamenti.
Come altrove Montanari ha avuto modo di dimostrare (2006; 2013), prodotti come il pomodoro o il mais, che sono entrati a pieno titolo nella cucina italiana assumendo un valore identitario – si pensi agli spaghetti al pomodoro – in realtà provengono da altri Paesi. In questo senso il cibo è un sistema di segni, buono non soltanto da mangiare, ma per comunicare, per dirla con Cirese (1977): esso funziona come un linguaggio articolandosi su più livelli, di inclusione e sostituzione, sintagmi e paradigmi, proprio come avvertiva de Saussure. Il modo particolare di manipolarlo attraverso la cucina è uno degli ambiti in cui meglio degli altri si manifesta il passaggio dalla natura alla cultura e in cui l’uomo – sono parole dell’Autore – da predatore diviene produttore. Attraverso l’uso e il controllo del fuoco cuoce gli alimenti, ne mescola alcuni e ne esclude rigorosamente altri secondo regole e codici condivisi da una comunità. In altre parole crea un artificio, secondo la grande lezione di Levi-Strauss (1969).
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Riferimenti bibliografici
Cirese, Alberto M.
1977 Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine, Torino, Einaudi
De Saussure, Ferdinand
1967 Corso di linguistica generale, con introduzione di Tullio De Mauro, Bari, Laterza
Levi-Strauss Claude
1969 Il crudo e il cotto, Milano, il Saggiatore
Montanari, Massimo
2006 Il cibo come cultura, Bari, Laterza
2013 L’identità italiana in cucina, Bari Laterza
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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